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“For All”: un progetto per rendere Roma un modello di accessibilità e inclusione

«Rendere la Capitale un modello di accessibilità e inclusione, soprattutto per le persone con disabilità, con l’obiettivo anche di creare un modello replicabile altrove»: punta a questo “For All – Roma una città fruibile per tutti”, progetto realizzato con il contributo del Fondo Carta Etica di UniCredit, e con la Federazione FISH quale capofila, in partenariato con l’ANFFAS Nazionale, la FAIP, Pedius, il Consorzio La Rosa Blu e MAV Formazione, che vivrà il 22 aprile il proprio lancio ufficiale, durante un evento online

Come anticipato nei giorni scorsi, riferendo della fase formativa dell’iniziativa, il 22 aprile verrà lanciato ufficialmente il progetto For All – Roma una città fruibile per tutti tramite un evento online visibile in diretta sul canale YouTube della FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie) a partire dalle 9.
Realizzato con il contributo del Fondo Carta Etica di UniCredit, For All – Roma una città fruibile per tutti ha quale capofila la FISH, in partenariato con l’ANFFAS Nazionale (Associazione Nazionale di Famiglie e Persone con Disabilità Intellettive e Disturbi del Neurosviluppo), la FAIP (Federazione delle Associazioni Italiane di Persone con Lesione al Midollo Spinale), Pedius, La Rosa Blu (Consorzio degli Enti aderenti alla rete associativa dell’ANFFAS Nazionale) e MAV Formazione. «L’obiettivo – spiegano dalla FISH – è rendere la Capitale un modello di accessibilità e inclusione, soprattutto per le persone con disabilità, tramite un’esperienza che non si fermerà ai confini di Roma, poiché l’intento è quello di creare un modello replicabile su scala nazionale, a partire appunto dalla sperimentazione romana».

«Cuore dell’iniziativa – spiegano ancora dalla Federazione – sarà la creazione di otto percorsi pienamente accessibili, collegati ai principali snodi di arrivo e ai luoghi di interesse di Roma, tra cui le Stazioni Termini e Tiburtina, gli Aeroporti di Fiumicino e Ciampino, il Colosseo, il Foro Romano, la Via Francigena e le quattro Basiliche Papali. I siti coinvolti saranno oggetto di un’attenta mappatura e analisi per garantirne la massima accessibilità, eliminando barriere architettoniche e barriere senso-percettive. Parallelamente verrà sviluppata una piattaforma digitale, composta da un sito web e da un’app mobile, che metterà a disposizione mappe interattive, informazioni sui collegamenti accessibili tra aeroporti, stazioni e luoghi sacri, e dettagli sui servizi di mobilità come navette attrezzate, trasporti pubblici e punti assistenza. L’intero progetto, dunque, sarà accompagnato da strumenti e contenuti pensati per facilitare la fruizione turistica e culturale. Guide digitali dedicate alle diverse disabilità, paline informative lungo i percorsi, video immersivi a trecentosessanta gradi per sensibilizzare il pubblico, e ulteriori attività di formazione rivolte a operatori turistici, guide, studenti e volontari, per migliorare le competenze nell’accoglienza e nella relazione con le persone con disabilità. For All, infatti, rappresenta una progettualità ampia e strutturata, che assume particolare valore in questo anno giubilare».

«Rendere accessibile e fruibile una città come Roma – sottolinea Vincenzo Falabella, presidente della FISH – significa compiere un passo concreto verso l’attuazione dei diritti delle persone con disabilità, a partire dalla mobilità, dalla cultura e dal turismo. Il progetto For All incarna pienamente la visione di un’Italia inclusiva e accessibile, che guarda con responsabilità al futuro».

«Siamo felici di poter continuare a contribuire come ANFFAS alla promozione di turismo e cultura senza barriere in un’ottica di accessibilità universale – afferma dal canto suo Roberto Speziale, presidente nazionale dell’ANFFAS – nel pieno rispetto della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Roma diventa così un modello a cui altre città italiane ed internazionali potranno fare riferimento ai fini della piena inclusione dei cittadini e delle cittadine con disabilità».

«Siamo da sempre vicini alle esigenze del territorio – conclude Roberto Fiorini, Regional Manager Centro Italia di UniCredit -, fornendo un contributo concreto alle necessità delle comunità in cui operiamo. Il sostegno a For All è stato possibile grazie al Progetto Carta Etica che prevede una donazione della Banca del 2 per mille per ogni acquisto effettuato da parte di clienti e dipendenti UniCredit con carte di credito “Etiche”. Con questo progetto sono stati raccolti oltre 40 milioni di euro dal 2005 per sostenere circa 1.400 iniziative di solidarietà, affrontando bisogni urgenti delle comunità, come emergenze, disabilità e supporto a bambini, donne e anziani in difficoltà». (S.B.)

Per ogni ulteriore informazione: ufficiostampa@fishonlus.it.

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“Maltrattamento istituzionale” e violazione dei diritti di persone vulnerabili

Periodicamente gli organi d’informazione diffondono allarmanti notizie di gravi violenze contro persone che vivono nelle varie tipologie di strutture residenziali, ma molto probabilmente è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno diffuso in maniera preoccupante, strettamente correlato con una serie di violazioni dei diritti a danno di persone con disturbi mentali, disabilità, anziane e/o vulnerabili: parte da questo assunto, per concentrarsi sul concetto di “maltrattamento istituzionale”, il presente approfondimento di Domenico Massano

Periodicamente – e anche in questi giorni, su queste stesse pagine – vengono diffuse dai mass media allarmanti notizie di gravi violenze contro le persone inserite in comunità alloggio o terapeutiche, in “repartini” ospedalieri, RSA, case famiglia… Pur senza voler fare improprie generalizzazioni, molto probabilmente si tratta solo della punta dell’iceberg di un fenomeno diffuso in maniera preoccupante, che è in continuità ed è strettamente correlato con una serie di violazioni dei diritti, di diversa forma e complessità, frequenti e a danno di molte di quelle persone con disturbi mentali, disabilità, anziane e/o vulnerabili, che vivono nelle varie tipologie di strutture residenziali (1).
Nel tentativo di affrontare tale problema nelle sue reali dimensioni, potrebbe rappresentare un’utile chiave di lettura ed analisi, sia per i singoli che per le organizzazioni, quella del “maltrattamento istituzionale”, concetto che ha iniziato ad emergere e ad essere utilizzato negli ultimi anni, soprattutto nell’àmbito dei servizi e degli interventi rivolti ai minori.
Secondo lo psichiatra Juan Luis Linares, professore all’Università Autonoma di Barcellona, si incorre nel maltrattamento istituzionale «quando le istituzioni sociali a cui è affidata l’erogazione di alcuni servizi falliscono nello svolgimento della loro missione, provocando danni alle persone alle quali dovrebbero servire». Linares ritiene che una delle principali cause all’origine del maltrattamento istituzionale sia il fatto che «le istituzioni incaricate di vigilare, prendersi cura e proteggere le persone sono allo stesso tempo le stesse incaricate di controllarle e vigilare sui loro comportamenti: comportamenti che la stessa istituzione si occupa di definire come idonei o non adatti» (2).
Attraverso il costrutto di maltrattamento istituzionale, Linares ha cercato di aprire uno sguardo critico sugli interventi, professionali e istituzionali, che non solo non rispondono ai bisogni delle persone, ma che spesso ne violano i diritti e causano sofferenze.

Restando nella sfera minorile, anche Aurea Dissegna, sociologa, docente universitaria e giudice onorario del Tribunale per Minori, si è posta l’obiettivo di porre in evidenza il tema del maltrattamento istituzionale, che ritiene sia «perpetrato, se pur non sempre consapevolmente e con effetti indiretti a volte imprevedibili, dalle stesse istituzioni preposte alla cura, protezione e tutela […]. Sono forme di maltrattamento sfuggente, difficili da riconoscere, rilevare e dimostrare, attribuibili a varie cause che possono di fatto approdare a disattesa e violazione, anche grave, di diritti e a forme di vittimizzazione secondaria. […] le sue espressioni sono identificabili a volte con azioni od omissioni di singole persone e professionisti coinvolti, altre volte, invece, le modalità possono essere di tipo più generale, dovute ai contesti, all’organizzazione, alle procedure, a competenze di più istituzioni che non si coordinano. […] Il maltrattamento istituzionale è un fenomeno subdolo e sommerso, che richiede (agli operatori ed alle organizzazioni) di averne consapevolezza, per essere preso in considerazione, analizzato, approfondito, definito e gestito» (3).
Secondo Dissegna, quindi, il maltrattamento istituzionale rappresenta l’esito di dinamiche sia di tipo organizzativo-istituzionale, sia di carattere professionale-personale, difficili da gestire, controllare e, a volte, anche dimostrare, ma, soprattutto, è un fenomeno di cui manca una piena consapevolezza individuale e collettiva, così come manca il coraggio di un’assunzione di responsabilità per svelarlo, affrontarlo ed indagarne le cause.

Entrambi questi contributi, pur riferendosi all’area minorile, non solo fanno emergere e definiscono un problema, quello del maltrattamento istituzionale, ma costituiscono un utile strumento di analisi e denuncia che dovrebbe e potrebbe essere utilizzato anche in altri contesti, come, ad esempio, per i servizi e le istituzioni rivolte a persone con disabilità, anziane o con disturbo psichico.
Provando a concentrare l’attenzione su quest’ultimo ambito, attraverso la chiave di lettura del maltrattamento istituzionale si possono evidenziare diverse forme di violenza e violazioni dei diritti poco visibili, riconoscibili e dimostrabili, spesso giustificate da necessità terapeutiche o semplicemente attuate “per il bene del paziente”, che si traducono in abusi di potere, in arbitrarietà delle decisioni, in dinieghi e/o concessioni discrezionali, in sottili manipolazioni o raggiri, in situazioni di trascuratezza…, violenze per certi aspetti più “morbide” e dissimulate che, però, fanno da substrato culturale, da terreno fertile e presupposto per la deriva verso altre ben più gravi ed esplicite. In campo psichiatrico, inoltre, il costrutto di maltrattamento istituzionale sembra, in parte, poter richiamare e riportare l’attenzione sul concetto di “crimini di pace”, introdotto da Franco Basaglia per offrire una chiave di lettura di tutte le violenze istituzionalizzate, anche quando discrete e coperte con la giustificazione di teorie scientifiche, compiute dai tecnici del sapere pratico, da quei professionisti che sono i «funzionari, consapevoli o inconsapevoli, dei crimini di pace che si perpetrano in nome dell’ideologia dell’assistenza, della cura, della tutela dei malati e dei più deboli» (4).

L’attualità di queste parole sembra confermata dalle considerazioni dello psichiatra Benedetto Saraceno che, nella sua “Ultima lezione” (5), titolata Trattare bene le persone (un’implicita denuncia dei maltrattamenti che invece subiscono), stigmatizzava le ipocrisie di una psichiatria che, dimentica del suo passato, delle sue lotte e delle sue conquiste, è tornata a mettere in campo «tutta la sua durezza, la sua disumanità, la violenza costrittiva di Diagnosi e Cura, la miseria dei suoi luoghi, l’arroganza dei suoi operatori o magari e semplicemente soltanto la loro impotenza», in un contesto in cui emerge una sorta di progressiva miopia dei diversi professionisti «che sembrano adattarsi alla paralisi dei servizi e soprattutto a quella dei propri cervelli» ed in cui «anche il bravo operatore è spesso la prima vittima del suo stesso servizio».

I servizi, le comunità terapeutiche e le varie strutture residenziali per la salute mentale vedono una presenza sempre più diffusa di personale formato e convinto – indipendentemente dal ruolo e dalla qualifica – che il proprio lavoro di cura abbia poco o nulla a che fare con l’apertura e la collaborazione con i diversi soggetti presenti sul territorio e con la garanzia dei diritti delle persone, ma che consista principalmente nel controllarle e confinarle a tempo indeterminato, concedendo diversi gradi di libertà a seconda del livello di condiscendenza terapeutica; nel convincerle dell’ineluttabilità di alcune scelte che le riguardano; nel contenerle occupate, moltiplicando attività, laboratori e gite; nel compilare test, diari, verbali, pieni di fredde valutazioni (6). «Il compito di queste figure intermedie sarà quindi quello di mistificare, attraverso il tecnicismo, la violenza, senza tuttavia modificarne la natura; facendo sì che l’oggetto di violenza si adatti alla violenza di cui è oggetto. [Lo psichiatra, lo psicoterapeuta, l’educatore, l’infermiere, …] sono i nuovi amministratori della violenza del potere… il loro compito, che viene definito terapeutico-orientativo, è quello di adattare gli individui ad accettare la loro condizione di “oggetti di violenza”, dando per scontato che l’essere oggetto di violenza sia l’unica realtà loro concessa» (7).
Quello ai “crimini di pace”, quindi, è un parallelo e un richiamo particolarmente calzante, che ricorda come nei diversi servizi, dipartimenti, istituzioni in àmbito psichiatrico (ma non solo), le persone continuino spesso ad essere «l’ultimo anello di una catena di violenze e di esclusioni [dalla famiglia, dal lavoro, dagli amici, dalla società…], di cui ci si continua ad illudere di non essere responsabili» (8).

È nuovamente «percepibile l’ombra del manicomio», come evidenzia un altro noto psichiatra, Giuseppe Tibaldi, denunciando chiaramente questo chiaro e progressivo depauperamento della cultura e delle pratiche che avevano portato alla riforma della psichiatria in Italia e alla chiusura dei manicomi, ricordando come «al primo posto venivano, senza esitazioni, i diritti fondamentali di cittadinanza dei pazienti (alla permanenza nel contesto sociale, alla formazione ed al lavoro, alla partecipazione alle scelte che li riguardavano, ecc.); al secondo posto poteva essere collocata l’attenzione alla storia personale, alla ricostruzione dei significati – personali e familiari – della follia. Il farmaco – e la cultura medicalizzante che si portava dietro – veniva per ultimo. Nella pratica quotidiana di molti servizi, ospedalieri e ambulatoriali, questa gerarchia di valori e di priorità, individuali e collettivi, sembra venuta meno (anche se sul piano dei documenti ufficiali, delle dichiarazioni programmatiche, nessuno mette in discussione i principi fondamentali della Riforma). Sarebbe semplicistico cercare un colpevole, cui addossare la responsabilità principale di questo depauperamento della cultura del disturbo mentale cui stiamo assistendo, come testimoni, e come attori diretti. Il depauperamento, però, c’è: la crescente importanza del farmaco e delle teorie biologiche che lo accompagnano […] corre parallela ad un minor interesse per la dimensione dei diritti di cittadinanza, come la casa, il lavoro, la qualità delle relazioni sociali».
Questo depauperamento culturale si accompagna, ed è strettamente collegato, alla presenza sempre più invasiva di una “cultura paternalistica” tra gli operatori della psichiatria di comunità italiana: «A un estremo, il paternalismo democratico dei professionisti che ritengono di essere coloro che meglio conoscono e tutelano i diritti fondamentali delle persone che loro si rivolgono (fidati, sono sicuro che questo è il trattamento, la psicoterapia, l’attività, il farmaco – la dose, la durata, la necessità di continuarlo – che va bene per te); all’altro estremo, il paternalismo autoritario di chi dice se non fai il depot, ti ricovero in TSO [Trattamento Sanitario Obbligatorio, N.d.R.]» (9).

Questa deriva culturale, questo paternalismo democratico/autoritario, accompagnato da una sorta di “buonismo operativo”, sono il contesto dove il maltrattamento istituzionale trova terreno fertile e in cui può facilmente camuffarsi spesso dietro specialismi, tecnicismi o ineluttabili scelte terapeutiche che possono rivelarsi uno scivoloso piano inclinato verso pericolose derive: «Che sia in nome della punizione o della riabilitazione, dell’assistenza o della cura, i crimini di pace vengono perpetrati sui più deboli, sugli inermi, secondo uno schema di violenza istituzionalizzata che si ripete […] il grado di violenza può variare a seconda dell’istituzione, della capacità di occultamento, del margine di gioco concesso» (10).
Pur senza prendere in considerazione cliniche, grandi strutture istituzionali o “repartini” ospedalieri (SPDC-Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura), anche solo guardando a circoscritti e apparentemente innocui osservatori, come quelli di piccole comunità terapeutiche in bei contesti territoriali, con personale qualificato (psichiatra, psicologi, educatori, infermieri, operatori socio sanitari), e, quindi, per molti aspetti forse, servizi “sufficientemente buoni”, si può constatare come questo, tuttavia, non impedisca che, per diverse ragioni, si verifichino casi che si potrebbero inquadrare nella cornice del maltrattamento istituzionale. Val la pena sottolineare il fatto che per quanto l’osservatorio delle piccole comunità possa sembrare ristretto quanto a numeri, offre sicuramente un quadro significativo poiché molti degli accadimenti coinvolgono, in quanto condivisi o, quanto meno, comunicati e conosciuti, dipartimenti e servizi invianti che a loro volta seguono centinaia di persone con, presumibilmente, modalità analoghe facendo emergere un modus operandi che se non è consuetudine, è quantomeno tollerato.

Sono molti gli episodi di maltrattamenti istituzionali occasionali o quotidiani di cui in questi piccoli contesti si possono raccogliere testimonianze: lasciare le persone nel letto sporco e/o bagnato per insegnare loro, magari incontinenti, a non “sporcare”; fare body shaming (ad esempio riferendosi ai “soliti ciccioni” parlando in équipe di persone con problematiche legate al peso anche a causa dei farmaci); buttare i “troppi libri” dalla mensola di un ospite perché “creano disordine”; somministrare la terapia al bisogno “alla prima parolaccia”, per sedare preventivamente ogni possibile lite; usare un linguaggio infantilizzante nel rivolgersi alle persone; minacciare l’interdizione o il TSO come strumenti per il consenso e l’obbedienza; violare la privacy, gestire discrezionalmente le risorse economiche, mentire o ingannare sulla somministrazione dei farmaci, chiamare o identificare le persone per diagnosi, piuttosto che per nome; ritardare o negare alcune comunicazione, informazioni, atti burocratici…; agire costantemente un paternalismo di cura e custodia stigmatizzante e spersonalizzante che non solo nega diritti, ma che inibisce o compromette qualsiasi percorso di emancipazione ed autodeterminazione.
Ci sono poi storie che procedono per anni, a volte nate da inserimenti forzati e involontari (o con un consenso estorto), sorta di deportazioni moderne sine die, dopo le quali si lavora (anche con colloqui psicologici, psichiatrici, educativi…) per convincere le persone che quella è la realtà più adatta per loro, l’unica consentita per il loro bene, condannandoli alla pratica quotidiana dell’intrattenimento spacciata come riabilitazione, e a una vita senza scopo, senza speranza e senza un altrove (11).

Ma il maltrattamento istituzionale passa anche da modalità di scrittura dei diari, delle comunicazioni o delle relazioni, in cui raramente sono riportati aspetti positivi, capacità e risorse, ma quasi solo difficoltà, criticità, episodi negativi, interpretazioni animate da stigma, sospetto, pregiudizi
Quello della scrittura potrebbe sembrare un elemento secondario, ma non è così, perché, come insegnava Victor Klemperer, la lingua non si limita a creare e pensare per noi, dirige anche il nostro sentire: «Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico» (12).

Come è evidente, tutto ciò non solo va ad alimentare all’interno dei gruppi di lavoro e dei servizi alcune dinamiche che configurano maltrattamento istituzionale, ma, soprattutto, va a costruire un certo tipo di cultura di riferimento e, come argomentava Erving Goffman, «a sviluppare una teoria della natura umana [che] razionalizza le attività, provvede un mezzo sottile per mantenere la distanza sociale dagli internati, e un giudizio stereotipato su di loro, giustificando il trattamento cui sono sottoposti» (13).
Sono dinamiche e culture pervasive e invischianti, cui è difficile opporsi, facile assuefarsi, in particolare tenendo conto di alcuni meccanismi di funzionamento delle persone in gruppo, finemente analizzati da Stanley Milgram, ossia della pericolosa capacità degli individui di rinunciare alla loro morale e umanità, anzi, «della necessità di comportarsi in tal modo al momento in cui la loro personalità individuale viene incorporata in più vaste strutture istituzionali» (14).

Il maltrattamento istituzionale costituisce, in conclusione, una criticità e un campo di doverosa considerazione, approfondimento e ricerca, strettamente correlati alla dimensione del potere insito nei servizi e del rischio di un suo abuso o di un suo uso “violante”: «Le istituzioni, gli operatori, i professionisti sono chiamati a essere consapevoli di questo rischio, perché solo se consapevoli potranno non esserne sopraffatti. Il primo passo consiste nell’aver consapevolezza (da parte di istituzioni, servizi e personale) che questo rischio non residuale esiste per poter poi passar ad individuare ed elaborare possibili interventi di fronteggiamento, per riconoscerlo, riparlo e, per quanto possibile, almeno ridurlo» (15).
In preparazione alla Conferenza Nazionale del 2023, l’Ordine degli Assistenti Sociali coraggiosamente dichiarava: «Maltrattamento e violenza istituzionale, oppressione e soppressione dei diritti, sono molto più frequenti di quanto pensiamo. Noi assistenti sociali siamo parte del sistema e dobbiamo contrastare queste forme di discriminazione e di oppressione. Il tema del potere nelle professioni è spesso rimosso, ma come Ordine abbiamo deciso di accendere un faro su ciò che facciamo e soprattutto sul come. Tutti sbagliano, ma i professionisti – noi per primi – devono essere consapevoli che hanno più responsabilità di altri. La strada è ancora lunga, noi vogliamo percorrerla per migliorare e riconoscere cosa possiamo fare per essere dalla parte di chi è più debole. Speriamo di non essere i soli ad intraprendere questo percorso» (16).
Tale sincera analisi e presa di consapevolezza dovrebbe tradursi in una sollecitazione e contaminazione positiva di altri ordini, istituzioni e professionisti, in modo tale che, congiuntamente, si inizi ad analizzare e affrontare il tema del maltrattamento istituzionale nei diversi servizi e ambiti di intervento (psichiatria, persone con disabilità, anziane…), ponendosi anche una scomoda domanda, ossia se si tratti di un problema superabile o che vi è connaturato e quindi tale da richiedere un radicale cambiamento dell’intero sistema.
In questo cammino complesso e avvolto nell’oscurità dell’indifferenza e dell’inconsapevolezza, è opportuno conservare «un pensiero sensato, ed un agire ad etica minima ispirato» (17) e, soprattutto, tenere come faro le parole e i contributi sempre attuali di Basaglia: «Analizziamo pure il mondo del terrore, il mondo della violenza, il mondo dell’esclusione, se non riconosciamo che quel mondo siamo noi – poiché siamo le istituzioni, le regole, i principi, le norme, gli ordinamenti e le organizzazioni – se non riconosciamo che noi facciamo parte del mondo della minaccia e della prevaricazione da cui il malato si sente sopraffatto, non potremo capire che la crisi del malato è la nostra crisi» (18).

*Pedagogista, curatore tra l’altro, insieme a Simona Piera Franzino, della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità in CAA (Comunicazione Aumentativa Alternativa). Il presente approfondimento è già apparso in Persone e Diritti.it e viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

Note:
(1) Si vedano ad esempio: M. Palma, Garante Nazionale dei diritti delle persone private della liberta, Relazione al Parlamento 2023 (e anni prec.); A Buon Diritto, Rapporto sullo stato dei diritti in Italia (Persona e disabilità – Salute mentale); B. Saraceno, I “nuovi” manicomi, 2023; Monitorare le strutture dove vivono persone con disabilità, in «Superando.it», 9 gennaio 2025.

(2) L. Linares, in Il maltrattamento istituzionale dei minorenni, Alpes Italia, 2023.
(3) A. Dissegna, Maltrattamento istituzionale, FrancoAngeli, 2022.
(4) F. Basaglia, F.O. Basaglia, Crimini di pace. Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti all’oppressione, Einaudi, 1975.
(5) L’ultima lezione: trattare bene le persone, Lectio Magistralis di Benedetto Saraceno pronunciata a Torino il 25 gennaio 2024.
(6) M. Benasayag, Funzionare o esistere?, Vita e pensiero, 2019.
(7) F. Basaglia, Le istituzioni della violenza, in Scritti (1953-1980), Il Saggiatore, 2017.
(8) F. Basaglia, Appunti di psichiatria istituzionale, in Scritti (1953-1980) cit.
(9) G. Tibaldi, Introduzione a Indagine su un’epidemia, di R.  Whitaker, Giovanni Fioriti Editore, 2013. Si veda anche G. Tibaldi, Il gioco vale la candela?, in «Rivista Sperimentale di Freniatria», vol. CXL, n. 2, 2016.
(10) D. Di Cesare, Tortura, Bollati Boringhieri, 2016.
(11) B. Saraceno, L’ultima lezione: trattare bene le persone cit.
(12) V. Klemperer, LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, Giuntina, 1998.
(13) E. Goffman, Asylums, Einaudi, 1961.
(14) S. Milgram, Obbedienza all’autorità, Bompiani 1975.
(15) A. Dissegna, Maltrattamento istituzionale, cit.
(16) CNOAS (Consiglio Nazionale Ordine Assistenti Sociali), Con le vittime, sempre, 2023.
(17) F. Rotelli, Quale psichiatria? Taccuino e lezioni, Alphabeta, 2020.
(18) F. Basaglia, Crisi istituzionale o crisi psichiatrica?, in Scritti (1953-1980) cit.

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“Info Point”, ovvero L’accessibilità è un diritto per tutte le persone con disabilità

Grazie a “Info Point”, progetto dell’ANFFAS Nazionale, alcuni celebri luoghi romani di cultura hanno potuto dotarsi del bollino di “Sito Accessibile For All”, acquisendo accessibilità “universale”, non solo, quindi, legata all’abbattimento delle barriere architettoniche, ma anche di quelle senso-percettive e culturali, in piena attuazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità

Grazie al progetto dell’ANFFAS Nazionale (Associazione Nazionale Famiglie e Persone con Disabilità Intellettive e Disturbi del Neurosviluppo) denominato Info Point, l’accessibilità ad alcuni celebri luoghi romani di cultura diviene “universale”: non solo, quindi, abbattimento delle barriere architettoniche, ma anche di quelle senso-percettive e culturali, in piena coerenza e attuazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Si parla, in questa prima fase, della Keats and Shelley House, del Colosseo, della Domus Aurea, del Palatino, del Foro Romano, delle Industrie Fluviali, di Villa Farnesina, di Palazzo Colonna e della Galleria Colonna, oltreché di Come un Albero Museo Bistrot, di Explora-Museo dei Bambini e del Teatro Basilica.
«È grazie alla collaborazione della nostra Associazione e di tutti quei luoghi di cultura – spiegano dall’ANFFAS – che è stato possibile – nell’arco dei diciotto mesi del progetto attuato grazie ad un finanziamento avuto nell’àmbito del progetto NGEU (Next Generation EU), attraverso i fondi destinati al PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) – poter analizzare la situazione di fatto nella quale tali siti già garantivano un sufficiente grado di accessibilità, soprattutto in termini di abbattimento delle barriere architettoniche, e individuare tutte quelle azioni migliorative che, appunto, potessero loro consentire di acquisire il bollino di Sito Accessibile For All. Tutto questo si è realizzato grazie ad un selezionato gruppo di persone con disabilità intellettive e del neurosviluppo con impedimenti anche motori e di altra natura, che andando a visitare musei, teatri ecc., accompagnati da alcuni operatori nella funzione di facilitatori, si sono incaricati di individuare e suggerire tutti quegli accorgimenti che potessero, appunto, far sì che gli spazi culturali coinvolti potessero valutare di migliorare la propria accessibilità in senso “universale”. Si può affermare che i risultati abbiano superato le attese e questo anche grazie alla sensibilità e alla collaborazione dimostrata dai responsabili e dagli operatori dei siti di cultura interessati».

I risultati del progetto, dunque, sono oggi visibili a tutti e tutte all’interno di un database costruito ad hoc nel sito dedicato. Allo stesso tempo è stato predisposto un portale specifico per formare gli operatori dei luoghi di cultura sui nuovi concetti di accessibilità universale e su come introdurre ed utilizzare al meglio il linguaggio “facile da leggere e da capire” (Easy to Read) e la CAA (Comunicazione Aumentativa Alternativa), ma anche sulle modalità di accoglienza e gestione delle persone con disabilità ad alta complessità. Oggi, quindi, è disponibile un primo elenco di musei statali, musei privati e teatri le cui descrizioni, oltre alle classiche brochure cartacee o note inserite sui vari siti, sono tradotte sia in linguaggio Easy to Read che in CAA. E la citata piattaforma formativa, oltreché per gli operatori dei luoghi di cultura, si è rilevata assai utile anche per i facilitatori, per i familiari e/o volontari, e per le stesse persone con disabilità.

«Questo progetto – aggiungono dall’ANFFAS – assume particolare rilevo se si pensa che il completamento di esso è pressoché coincidente con l’avvio dell’Anno Santo e, quindi, con una imperdibile occasione per promuovere ulteriormente la cultura dell’accessibilità universale e fornire una formazione apposita sul tema di essa a tutti i soggetti interessati. Tra l’altro i luoghi di cultura la cui accessibilità è stata verificata dai nostri referenti e il cui personale abbia completato il previsto percorso formativo, possono oggi fregiarsi, come detto, del logo Sito Accessibile For All che ne attesta e garantisce la piena accessibilità. Un vero e proprio Plus che potrà essere di interesse per tutti gli altri siti sia della Capitale che delle altre città italiane». A tal proposito, l’ANFFAS Nazionale si dichiara sin da subito disponibile a collaborare con i luoghi di cultura dell’intero territorio nazionale e invita i referenti di musei, biblioteche, teatri e altre strutture culturali a contattare la propria sede nazionale (nazionale@anffas.net), «ai fini – viene detto – di rendere totalmente accessibile il nostro intero patrimonio culturale e poter esporre il logo di Sito Accessibile For All».
«Quest’ultimo – concludono dall’Associazione a proposito del logo – testimonia infatti l’impegno dei siti di interesse culturale nel promuovere e applicare concretamente i concetti dell’accessibilità universale e consentirà al pubblico di avere consapevolezza e certezza di visitare un luogo che non presenta barriere architettoniche e senso-percettive, garantendo anche il diritto alla fruizione delle relative informazioni per le persone con disabilità intellettive e del neurosviluppo e per tutti coloro che ne potranno avere indubbio beneficio. Il tutto in contesti in cui l’intero personale è adeguatamente formato e informato sulle varie forme di disabilità e sulle diverse necessità di sostegno e di relazione». (S.B.)

Per ogni ulteriore informazione: comunicazione@anffas.net.

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Sport e inclusione oltreoceano: dal Friuli Venezia Giulia a Guadalupa nei Caraibi

Il progetto “Sports for Inclusion” ha portato giovani di tutta Europa, con e senza disabilità, a Guadalupa, nei Caraibi, per condividere un’esperienza unica tra sport acquatici e scambio culturale. La Cooperativa Sociale friulana Il Piccolo Principe ha rappresentato l’Italia in questa iniziativa, che ha puntato sull’inclusione attraverso attività sportive come il surf adattato e il kayak. L’energia del progetto continuerà a Casarsa della Delizia (Pordenone), con l’arrivo, da settembre, di volontari europei Una foto di gruppo a Guadalupa per i giovani coinvolti nel progetto internazionale “Sports for Inclusion”

All’insegna dello sport, da Casarsa della Delizia (Pordenone), in Friuli Venezia Giulia, alle spiagge della Guadalupa, nei Caraibi: protagonista di questo viaggio è stata la Cooperativa Sociale Il Piccolo Principe, che ha partecipato al progetto Sports for Inclusion, un’iniziativa finanziata dal programma europeo Erasmus+, insieme all’ANFFAS (Associazione Nazionale di Famiglie e Persone con Disabilità Intellettive e Disturbi del Neurosviluppo) e con l’Associazione Sportiva Dilettantistica Pinna Sub di San Vito al Tagliamento.

Il progetto, di cui è capofila la Fondazione ANFFAS Giulio Locatelli di Pordenone, ha permesso dunque a un piccolo gruppo di persone di vivere un’esperienza di scambio giovanile internazionale senza barriere.
Tra i partecipanti italiani, in rappresentanza del Piccolo Principe, sono partiti Angelique Manuel, educatrice del Centro Socio Occupazionale ed Enrico Cester che ha completato con successo il proprio percorso lavorativo alla “Cucina delle Fratte”. A completare la delegazione italiana, anche Daniele Furlanis, campione del mondo di nuoto pinnato, Piero Pasqualin, Sirio Brichese, Rachele Cecotto e Massimiliano Popaiz, allenatore della Nazionale Italiana di Nuoto Pinnato.
E all’iniziativa (nome completo: Sports for Inclusion – Progetto Surf & Inclusion), che si è svolta, come detto, in Guadalupa dal 16 al 23 marzo scorsi, hanno partecipato anche altri giovani provenienti da Spagna, Aruba, Guadalupa e Martinica.

L’obiettivo è stato quello di promuovere una vera inclusione, offrendo a giovani con e senza disabilità l’opportunità di condividere un’esperienza formativa e sportiva. Le attività principali si sono concentrate sugli sport acquatici, in particolare il surf adattato e il kayak, affiancate da metodologie di educazione non formale. I giovani partecipanti, di età compresa tra i 18 e i 30 anni (con accompagnatori senza limiti di età), sono stati coinvolti in un mix di attività sportive, alloggiando in riva all’oceano e godendo di un clima favorevole che ha reso l’esperienza ancora più piacevole.
«Si è trattato di un progetto che ha saputo coniugare sport, inclusione e scambio culturale, lasciando un segno tangibile nei partecipanti», ha commentato Luigi Cesarin, presidente del Piccolo Principe. E l’impegno di questa Cooperativa Sociale verso l’apertura e lo scambio continua: a partire da settembre e fino al mese di giugno del 2026, infatti, essa ospiterà due volontari europei che avranno l’opportunità di fare esperienza diretta nei diversi servizi offerti dalla realtà casarsese. (C.C.)

Per maggiori informazioni: Michela Sovrano (michela.sovrano@gmail.com).

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Il dibattito sui caregiver: considerare anche alcuni aspetti di natura molto pratica

«Oggi – scrive Maurizio Ferrari – il tema dei caregiver familiari è giustamente sotto i riflettori e la prospettiva di giungere a una norma che ne riconosca l’imprescindibile ruolo sociale, disciplinando le indispensabili forme di tutela e di sostegno, sembra essere piuttosto concreta. E tuttavia, ho la sensazione che nel dibattito non siano considerati alcuni aspetti di natura molto pratica, ma, a mio parere, decisamente essenziali»

I caregiver familiari di persone con disabilità complesse hanno un ruolo sociale imprescindibile. Nel senso che la nostra società, semplicemente, non può farne a meno. E nessun caregiver familiare che conosco vuole abdicare a questo ruolo, ma ritiene a giusto titolo di dover essere adeguatamente riconosciuto e sostenuto.
Sono il padre di una giovane donna con autismo grave (“livello 3”, come dicono le classificazioni in vigore), che ha da poco intrapreso la strada della vita indipendente – ma con alti sostegni e protezioni – e per la quale mia moglie è stata caregiver “titolare esclusiva” per oltre 30 anni. Io ho fatto la mia parte come “caregiver di riserva”, ma il sistema retributivo che tuttora prevale nel nostro Paese ha indotto la nostra coppia genitoriale a fare una scelta quasi obbligata: papà guadagna di più, quindi lavorerà a tempo pieno; la mamma guadagna di meno, quindi lavorerà a tempo parziale per potersi dedicare alla figlia. Una scelta che ancora oggi provoca in noi dubbi e turbamenti, ma sulla quale non possiamo più fare nulla. Mia moglie si è dedicata all’impegno di cura con amore e abnegazione assoluti, nel profondo silenzio di un contesto sociale che dà per scontato ogni sforzo che un genitore può e deve produrre per il bene di un figlio con disabilità grave.
Il dibattito sulla figura del caregiver familiare è infatti molto recente, fino a una decina di anni fa non ne parlava nessuno. Nulla più che una questione privata, da risolvere nel nucleo familiare. Oggi il tema è giustamente sotto i riflettori e la prospettiva di giungere a un Disegno di Legge organico che inquadri opportunamente la figura del caregiver familiare, ne riconosca il ruolo sociale e, soprattutto, disciplini le indispensabili forme di tutela e di sostegno, sembra essere piuttosto concreta. Con tutte le cautele del caso…

Tuttavia, ho la sensazione che nel dibattito non siano considerati alcuni aspetti di natura molto pratica, ma, a mio parere, decisamente essenziali. Che ne sarà, ad esempio, di una persona che è stata caregiver per tutta la vita, o quasi, e che si ritrova oggi a essere considerata “ex caregiver”? Perché il figlio o la figlia ha intrapreso, in un modo o nell’altro, la strada della residenzialità uscendo quindi dalla convivenza con i genitori? In altri termini, i caregiver che giungono al termine del loro “servizio permanente effettivo” appena prima che una legge sancisca il giusto riconoscimento e sostegno del loro ruolo, finiranno con un pugno di mosche in mano? Continueranno a essere invisibili? Personalmente non credo che un Disegno di Legge degno di questo nome possa trascurare questo aspetto. E ho una mia idea in proposito. Ci arrivo andando un po’ in verticale nel ragionamento.
A mio parere, un corretto sistema di sostegni deve poter agire proficuamente quanto meno su due leve: conciliazione lavoro-vita-cura e tutela previdenziale.

Riguardo alla prima leva, ci sono molte cose che si possono fare: flessibilità degli orari, estensione del lavoro da remoto, job sharing, welfare contrattuale. Non mi dilungo perché in rete è possibile recuperare i materiali della normativa vigente e delle Proposte di Legge sulla figura del caregiver familiare, con tutte le ipotesi sul tavolo in tema di conciliazione lavoro-vita-cura.
Colpevolmente più scarse sono le proposte inerenti la seconda leva, ovvero la tutela previdenziale. Nella maggior parte dei casi, infatti, leggo di contributi figurativi a carico dello Stato, equiparati a quelli da lavoro domestico, nel limite complessivo di cinque anni, cumulabili a quelli eventualmente versati per attività lavorative di qualsiasi natura. Mi sembra un’ipotesi alquanto riduttiva, buona al massimo per sanare eventuali buchi contributivi.
Ma la questione è molto più complessa. Pensiamo infatti ai cosiddetti “ex caregiver” a cui facevo cenno prima, che hanno lavorato per una vita dovendosi anche prendere cura del congiunto con disabilità complessa e che non riescono ad andare in pensione anticipatamente perché la convivenza con il figlio con disabilità è appena terminata, oppure, quando ci arrivano, si ritrovano con un trattamento pensionistico da fame perché hanno sempre dovuto lavorare part-time.
So che i puristi si scandalizzeranno, perché più volte ho avvertito una sorta di rifiuto ad accostare l’impegno di cura, totalizzante e umanamente pervasivo, alla categoria del “lavoro”, ma in tutta franchezza preferisco guardare al risultato concreto, nel momento in cui questo sia in grado di dare piena dignità e tutela al caregiver o ex caregiver in questione.

In poche parole, per non escludere nessuno, ritengo che il caregiver familiare dovrebbe essere equiparato a chi svolge lavori usuranti, purché abbia svolto per almeno 10 anni (15? 20? Se ne può discutere…) l’attività di cura di una persona con disabilità grave. Come tale, il caregiver familiare avrebbe diritto alla pensione anticipata relativa appunto ai lavori usuranti: 41 anni e 10 mesi di contributi le donne, 42 anni e 10 mesi di contributi gli uomini, indipendentemente dall’età anagrafica.
Allo stesso modo, avrebbe diritto all’APE (Anticipo Pensionistico) Sociale (63 anni e 5 mesi, con almeno 30 anni di contribuzione), purché venga resa strutturale e il requisito di cura/assistenza cambi in questo modo: non più «caregiver che al momento della richiesta assistono da almeno 6 mesi il coniuge o un parente di primo grado convivente con handicap in situazione di gravità», bensì «caregiver che hanno assistito per almeno 10 anni (15? 20?) il coniuge o un parente di primo grado convivente con handicap in situazione di gravità».

Questioni venali, terra terra, dirà qualcuno. Ne siamo sicuri? Concordo sulla necessità di una presa di coscienza collettiva e di una profonda qualificazione culturale del dibattito, ma la causa dei caregiver familiari si gioca anche e soprattutto sui punti di caduta, non solo sugli inquadramenti teorici, per quanto rilevanti possano essere.
Chi è disposto a prendere in esame queste proposte? O a farne di alternative?

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Continuità di cura e strategie nei disturbi del neurosviluppo

La SINPIA (Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza) ha pubblicato recentemente un documento il cui tema centrale è la continuità di cura. Pensato per milioni di bambini e adolescenti, il testo pone le basi per una riorganizzazione più equa e sostenibile dei servizi, nel rispetto del diritto alla salute e al benessere della persona lungo tutto il suo percorso di crescita evolutiva

Al centro c’è sempre la persona e il suo percorso: con il documento La continuità delle cure nei disturbi del neurosviluppo, pubblicato nel febbraio scorso, la SINPIA (Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza) aggiunge un tassello importante per trasformare questo principio in azioni concrete.

Il documento, che si può liberamente consultare e scaricare a questo link, elabora le linee di indirizzo clinico-organizzative per assicurare continuità di cura ai soggetti con disturbi del neurosviluppo. In sostanza, è stata elaborata una “guida” per affrontare i bisogni di milioni di bambini e adolescenti: con il 20% della popolazione infantile e adolescenziale coinvolta, è evidente, infatti, l’urgenza di un intervento su misura.

Il cuore del testo è dato da un approccio inclusivo: tutte le patologie neuropsichiatriche dell’infanzia e dell’adolescenza vengono incluse, con il paziente e le sue esigenze posti al centro del percorso di cura. Particolare attenzione è dedicata al passaggio tra i servizi per l’età evolutiva e quelli per l’età adulta, un momento cruciale spesso ostacolato da risorse limitate, burocrazia e carenze organizzative.

Per superare la frammentazione dei servizi, ridurre la cronicizzazione dei disturbi e migliorare la qualità della vita dei pazienti, nel documento della SINPIA emergono diverse soluzioni. Vengono in particolare individuate quattro fasi fondamentali per una transizione efficace: preparazione, passaggio, integrazione e monitoraggio, con il supporto di équipe specializzate e multidisciplinari. L’obiettivo è quello di un’assistenza personalizzata, adattandosi alla complessità dei disturbi nel tempo e sfruttando le finestre evolutive per massimizzare l’efficacia degli interventi.

Nel documento non solo si analizza la rilevanza epidemiologica di disturbi come quelli dello spettro autistico, ADHD (disturbo da deficit di attenzione e iperattività) e altri disturbi psichiatrici, ma si pone anche l’accento sull’importanza di un riconoscimento precoce e di interventi tempestivi, per guidarne l’evoluzione e ridurne l’impatto sociale.
A fianco delle famiglie, gli esperti evidenziano il sovraccarico dei servizi, esacerbato dalla pandemia da Covid, e invitano a una collaborazione più stretta tra le Istituzioni.

In sostanza, con questa pubblicazione la SINPIA intende offrire non solo una road map per un’assistenza più equa e sostenibile, ma anche un messaggio di speranza: il diritto alla salute e al benessere può diventare il pilastro di una società realmente inclusiva. (Carmela Cioffi)

Si ringrazia Giovanni Merlo per la segnalazione.

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Anche il “Tondo Doni” nell’audio-tour “Michelangelo audiodescritto” di Blindsight Project

In marzo, cogliendo l’occasione del 550° anniversario dalla nascita di Michelangelo Buonarroti, l’Associazione Blindsight Project aveva reso noto di avere messo online l’audiodescrizione della “Pietà”. Ora è disponibile anche quella della “Sacra Famiglia”, opera nota anche come “Tondo Doni”. Entrambe le audiodescrizioni fanno parte dell’audio-tour “Michelangelo audiodescritto”, realizzato nell’àmbito del progetto “Talking Italy©”, promosso sempre da Blindsight Project La “Sacra Famiglia” (“Tondo Doni”) di Michelangelo

Il mese scorso avevamo dato notizia dell’inaugurazione di Michelangelo audiodescritto, iniziativa promossa dall’Associazione Blindsight Project nell’àmbito del più ampio progetto Talking Italy©. Quest’ultimo, lo ricordiamo, è un progetto ideato e portato avanti da tale Associazione, per rendere l’arte accessibile alle persone cieche e ipovedenti attraverso degli audio-tour.
Il 6 marzo scorso, dunque, cogliendo l’occasione della ricorrenza del 550° anniversario dalla nascita di Michelangelo Buonarroti (nato nel 1475 e deceduto nel 1564), Blindsight Project aveva reso noto di aver messo online l’audiodescrizione della Pietà (disponibile a questo link), il celeberrimo gruppo scultoreo ospitato presso la Basilica di San Pietro in Vaticano, che raffigura Maria (la Madonna) mentre sorregge il corpo esanime del figlio Gesù, dopo la sua passione e deposizione dalla croce. Ora segnaliamo che è divenuta disponibile online (al medesimo link) un’altra importante opera dell’artista toscano: la Sacra Famiglia, capolavoro pittorico di forma circolare, noto anche come Tondo Doni, realizzato nel 1505-1506 e ospitato dalla Galleria degli Uffizi di Firenze.
In esso i personaggi principali sono raffigurati in una sorta di posa “piramidale”, con Maria (in primo piano) seduta a terra, con le gambe piegate, che, con una torsione del busto, solleva e porge delicatamente Gesù Bambino nelle mani di San Giuseppe, posizionato dietro di lei. Sullo sfondo, distanziate e separate da un basso muretto, altre figure umane di difficile identificazione.

La Sacra Famiglia è stata audiodescritta da Laura Raffaeli, presidente di Blindsight Project, in collaborazione con Michela Calò dell’Università di Palermo, mentre la voce è di Ludovica Marineo.
Le prossime opere di Michelangelo che verranno audiodescritte dall’Associazione sono il Mosè e la Cappella Sistina.

In conclusione segnaliamo ancora una volta gli otto audio-tour realizzati sinora da Blindsight Project attraverso il progetto Talking Italy©: il Parco dei Mostri di Bomarzo, l’Antiquarium di Sutri e il Museo Colle del Duomo a Viterbo, Villa d’Este a Tivoli, il Complesso Monumentale di Sant’Agnese e Santa Costanza, la Chiesa di San Luigi dei Francesi, la Basilica di Santa Maria sopra Minerva a Roma e, infine, Michelangelo audiodescritto, che è, come detto, in fase di completamento. (Simona Lancioni)

Per ulteriori informazioni su Michelangelo audiodescritto: president@blindsight.eu.
Il presente contributo è già apparso nel sito di Informare un’h-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa) e viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti dovuti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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Le riflessioni di una parrocchiana (con disabilità)

«Ho 57 anni e una tetraparesi spastica dovuta ad asfissia perinatale – scrive Donata Scannavini -. Per profonde convinzioni personali frequento da sempre la parrocchia che è sempre la stessa, ma vorrei qui cercare di fare un discorso più generale, anche se di certo non esaustivo, sul rapporto tra disabilità e fede, partendo appunto dalla mia esperienza personale»

Ho 57 anni e una tetraparesi spastica dovuta ad asfissia perinatale. Per profonde convinzioni personali frequento da sempre la parrocchia che è sempre la stessa, l’Annunciazione di Milano, non avendo io mai cambiato abitazione.
Ripensando alla mia esperienza in questo àmbito, devo in primo luogo sottolineare che il fatto di essere sempre stata nella stessa parrocchia mi ha senza dubbio facilitato le cose, nel senso che la maggior parte dei parrocchiani mi conosce da sempre, mi ha vista crescere e frequentare la parrocchia stessa, prima con i miei genitori, poi da sola o con mio marito. Mi sento quindi parte della parrocchia e noto con piacere che le persone mi aiutano spontaneamente, per esempio ad entrare in Chiesa o quando devo andare a fare la Comunione.
Anche con i sacerdoti che negli anni si sono succeduti non ho avuto particolari problemi, ho avuto anche qualche incarico, nel senso che per parecchi anni ho fatto parte del Consiglio Pastorale Parrocchiale.

Da queste prime righe sembra che la mia esperienza nella Chiesa sia stata sempre idilliaca, ma non è proprio così. Specie da bambina, infatti, benché i miei genitori mi esortassero a farlo, non amavo frequentare l’oratorio, percepivo nelle altre bambine e anche un po’ nelle suore, che gestivano l’oratorio stesso, una sorta di compatimento. Non venivo realmente inserita nel gruppo, non ero partecipe dei giochi e delle attività che venivano proposte – che magari avrei potuto fare anch’io con modalità diverse – ma rimanevo ai margini, con la netta sensazione che quando e chi si rivolgeva a me lo faceva per “fare un’opera buona verso la bambina handicappata”, come si diceva a quei tempi.
La situazione è nettamente migliorata durante l’adolescenza; anche grazie a una suora molto attenta a sostenermi in un periodo per me molto difficile – a 17 anni ho perso mio papà – mi sono inserita nel gruppo giovani e lì sì che sentivo di farne davvero parte, aiutata dove avevo necessità, ma per il resto considerata come tutti gli altri.

Questa in breve è la mia esperienza di Chiesa, dove comunque ho dato per scontato che l’elemento più importante è il cammino di fede che l’appartenenza a una comunità ecclesiale permette di fare e che per me è stato ed è fondamentale.
Vorrei ora cercare di fare un discorso più generale, anche se di certo non esaustivo, sul rapporto tra disabilità e fede, partendo appunto dalla mia esperienza.

È innegabile (comunque negli anni, anche solo in vacanza, mi è capitato di frequentare altre comunità) che esista nella Chiesa una visione pietistica e inferiorizzante della disabilità e di coloro che ne sono portatori, che, a mio parere, rispecchia pari pari quella della società civile; non vedo cioè una sostanziale differenza. Magari cambiamo le modalità con cui tali visioni si giustificano e si esplicano, per cui in ambito ecclesiale, ad esempio, si vede nella persona con disabilità qualcuno predestinato (non si sa bene perché) a “portare la croce” e quindi ad essere “corredentore del mondo” con Cristo, senza neanche chiedersi se alla persona stessa stia bene esserlo o se viceversa non abbia nessuna intenzione di aderire a questo presunto piano divino.
Come nel mondo civile, però, anche in quello ecclesiale le cose stanno lentamente cambiando, banalmente anche solo per il fatto che sono sempre più numerose le persone con disabilità che frequentano gli ambienti della società civile ed ecclesiale.
Ciò che a mio parere andrebbe fatto o almeno si dovrebbe cercare di fare in àmbito ecclesiale, è portare avanti in parallelo il discorso teologico e quello pastorale. Infatti è indubbia la necessità di scalfire tutte quelle errate convinzioni, come ha sottolineato molto bene Justin Glyn nel suo saggio “Us” not “Them”. Disability and Catholic Theology and Social Teaching (“Noi”, non “loro”. Disabilità, teologia e dottrina sociale cattolica), che hanno giustificato a livello teologico questa sorta di divisione tra “noi” (senza disabilità, mi permetto di aggiungere “forse”) e “loro” (con disabilità): siamo infatti tutti immagine di Dio e la disabilità non offusca quest’immagine. A mio parere, però, è altrettanto urgente lavorare a livello pastorale e quando parlo di “livello pastorale”, non intendo solo e tanto trovare delle modalità per far partecipare tutti e tutte alla varie funzioni o al catechismo, quanto fare in modo che ognuno si senta parte attiva della comunità, che possa trovare dei propri spazi e ruoli in cui, se lo desidera, mettersi egli stesso a servizio degli altri e della comunità.
Questo, a mio parere, potrebbe avere delle ricadute anche – mi si passi l’espressione – a livello teologico; se io vedo infatti una persona con disabilità impegnata in un servizio in parrocchia secondo le proprie possibilità e capacità, mi verrà più difficile considerarla solo come “un soggetto da aiutare”, in qualche modo “diverso dagli altri”.
Il cammino da fare in questo senso è ancora lungo, ritengo però che ci siano ormai delle buone basi per arrivare anche nella Chiesa a quel definitivo “noi” che includa tutti i figli di Dio.

Ringraziamo Giovanni Merlo per la collaborazione.

Sul rapporto tra Chiesa Cattolica e Disabilità, suggeriamo la lettura di una serie di contributi da noi recentemente pubblicati, ultimo dei quali Alla teologia manca ancora il capitolo della disabilità di Ilaria Morali (a questo link), in calce al quale sono indicati anche i link ad altri precedenti testi.

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Al fianco delle persone con disabilità anche a Gaza, dentro a una crisi umanitaria senza precedenti

La popolazione della Striscia di Gaza vive una crisi umanitaria senza precedenti e in una situazione come questa è noto che le persone con disabilità sono “le più vulnerabili tra le vulnerabili”. Ma che qualcosa si possa fare anche nelle situazioni più difficili, lo dimostra il progetto “Cucina comunitaria”, sostenuto da CBM Italia, insieme ad Atfaluna Society for Deaf Children, che vede 20 persone con disabilità uditive preparare e consegnare pasti giornalieri a circa 1.750 persone

 

Una persona con disabilità della Striscia di Gaza riceve un pasto caldo grazie al progetto “Inclusive Community Kitchen – Cucina comunitaria”

La popolazione della Striscia di Gaza sta vivendo una crisi umanitaria senza precedenti: secondo i dati diffusi dalle Nazioni Unite, infatti, oltre l’80% della popolazione dipende dagli aiuti umanitari e chi sopravvive ai bombardamenti soffre la fame.
Com’è purtroppo ben noto, in situazioni di emergenza come questa, le persone con disabilità sono ancora più vulnerabili poiché spesso non vengono incluse nei piani di salvataggio, oltre al fatto che i loro ausili (bastoni, sedie a rotelle) possono danneggiarsi, con le strade e le infrastrutture che non sono percorribili, né esse riescono ad accedere agli aiuti.
Un ulteriore fattore di rischio riguarda il tasso di occupazione: infatti, secondo gli ultimi rapporti della Banca Mondiale, organizzazione internazionale per il sostegno allo sviluppo e la riduzione della povertà, il 90% delle persone con disabilità è senza lavoro a causa del conflitto in corso.

È in tale contesto che nasce il progetto denominato Inclusive Community Kitchen – Cucina comunitaria, sostenuto da CBM Italia, la nota organizzazione internazionale impegnata nella salute, l’educazione, il lavoro e i diritti delle persone con disabilità nel mondo e in Italia, insieme ad Atfaluna Society for Deaf Children, partner sul territorio, che promuove l’inclusione sociale, educativa ed economica delle persone sorde nella Striscia di Gaza.
«La Cucina comunitaria – spiegano da CBM Italia – fornisce ogni giorno pasti caldi e nutrienti a 250 famiglie sfollate (circa 1.750 persone) nella città di Deir Al Balah, al centro della Striscia di Gaza. A organizzare le operazioni quotidiane, a preparare e consegnare i pasti, già dal mese di giugno dello scorso anno e sino alla fine di aprile di quest’anno ci sono 20 giovani (10 uomini e 10 donne) con disabilità uditive, diplomati in corsi di cucina e regolarmente assunti».

«L’Inclusive Community Kitchen – sottolineano ancora da CBM Italia – è una vera e propria cucina dotata di tutte le attrezzature necessarie per preparare e conservare i pasti, un luogo di supporto per le famiglie, ma anche uno spazio di realizzazione personale in cui i giovani uomini e donne sordi sono al centro della risposta emergenziale. Il progetto, infatti, permette loro di acquisire competenze preziose e raggiungere l’indipendenza economica necessaria a prendersi cura delle proprie famiglie, poiché spesso sono gli unici a poterlo fare». È ad esempio il caso di Wafa, giovane donna sorda, mamma di quattro figli sordi, che non riusciva a trovare un impiego a causa della sua disabilità, fino a quando Atfaluna le ha offerto un posto nella Cucina comunitaria e ha ricominciato a sperare nonostante le difficoltà. «Lavorare nella Cucina Comunitaria – racconta – è stato un punto di svolta per me, ho ritrovato la fiducia e mi ha garantito un pasto quotidiano e un reddito stabile per prendermi cura dei miei quattro figli, che come me sono sordi, e poi sono molto felice di essere utile a tutta la comunità».

«Questo progetto – concludono da CBM Italia – dimostra che la disabilità non è un ostacolo e che se vengono offerte opportunità, le persone con disabilità possono guidare, ispirare e generare cambiamenti sociali significativi anche nelle circostanze più difficili. La nostra organizzazione, che nelle emergenze interviene al fianco delle persone con disabilità, è presente nella Striscia di Gaza insieme al partner Atfaluna, che da diversi anni porta avanti preziose iniziative inclusive e garantisce i servizi essenziali alla comunità sorda di Gaza». (S.B.)

Per ulteriori informazioni e approfondimenti: Caterina Argirò (caterina.argiro@leacrobate.it).

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I Reali inglesi a Ravenna presenti! I diritti delle persone con disabilità assenti!

La visita del Re e della Regina d’Inghilterra a Ravenna è stata l’ennesima occasione mancata per garantire l’accessibilità universale. «Ma è tempo – scrive Mirella Madeo – di smettere di considerare l’accessibilità come una voce da tagliare nei bilanci o da gestire con improvvisazione. Non possiamo più permettere che eventi pubblici, per quanto prestigiosi, si svolgano nel disinteresse per i diritti fondamentali di una parte della cittadinanza. Perché ogni volta che questo accade, perdiamo tutti!» Re Carlo III e la regina Camilla in visita a Ravenna alla tomba di Dante

Giovedì della scorsa settimana Ravenna ha accolto con entusiasmo Re Carlo III e la Regina Camilla, arrivati in città per concludere la loro visita ufficiale in Italia. Una giornata ricca di eventi simbolici e culturali: la sosta alla tomba di Dante, dove hanno ascoltato la preghiera di San Bernardo dal Canto XXXIII del Paradiso; la visita alla Basilica di San Vitale, al Mausoleo di Galla Placidia, con i magnifici mosaici paleocristiani, e al Museo Byron. Nel pomeriggio, il Consiglio Comunale straordinario con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e, infine, una passeggiata tra gli stand gastronomici in Piazza del Popolo, guidati dallo chef Massimo Bottura.
Tutto perfetto, organizzato nei minimi dettagli. Tranne che per un “piccolo” particolare: rendere realmente accessibile l’evento alle persone con disabilità e alle persone anziane.

Partiamo dunque dall’accesso, lasciato completamente allo sbaraglio: nessuna area riservata, nessun percorso agevolato, nessun supporto visibile. Le persone in carrozzina presenti? Solo quattro. Un numero che parla chiaro: la mancanza di accessibilità scoraggia la partecipazione.
Ognuno, dunque, ha dovuto arrangiarsi come poteva. Io stessa, con la mia carrozzina, ho dovuto sgomitare tra la folla per conquistare un posto in prima fila e poter partecipare con dignità all’evento. Mentre mi facevo largo, molte persone mi hanno guardata con disapprovazione, come se stessi “rubando” un privilegio.
In una giornata che avrebbe dovuto essere di festa per tutti, chi vive una condizione di fragilità è stato ancora una volta dimenticato.

Mi sono poi rivolta a diversi agenti delle forze dell’ordine schierati dietro le transenne che delimitavano il percorso reale. Solo pochi, con “buon cuore”, mi hanno lasciata passare. Ma uno di loro ha tenuto a precisare che mi stavano facendo passare «per concessione straordinaria». Una frase, questa, che mi porto ancora addosso come un macigno. Come se chiedere accessibilità fosse una richiesta fuori luogo, un favore personale, quando invece dovrebbe essere un diritto garantito per tutti.
L’impressione è stata quella di essere “un’eccezione tollerata”, non una cittadina con diritti. Una sensazione, purtroppo, familiare a molte persone con disabilità.

Non è tollerabile né giusto che la gentilezza venga usata per coprire diritti negati. L’accessibilità non è una cortesia, non è un favore, è un diritto. Lo dice la Costituzione Italiana, all’articolo 3, quando stabilisce il principio di uguaglianza e impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini. Lo ribadisce la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (ratificata in Italia con la Legge 18/09), che impone agli Stati di garantire l’accesso, su base di uguaglianza con gli altri, all’ambiente fisico, ai trasporti, all’informazione e ai servizi pubblici. E in àmbito nazionale, la Legge 104/92, così come il Decreto Ministeriale 236/89, impone criteri precisi per l’eliminazione delle barriere architettoniche in luoghi e manifestazioni pubbliche.
Non prevedere l’accessibilità in un evento pubblico non è solo una dimenticanza: è una violazione, oltre ad essere una ferita alla dignità di chi quotidianamente è costretto a rincorrere un diritto che dovrebbe essere garantito senza elemosine né eccezioni.

Ciò che è mancato a Ravenna, pertanto, non è solo una pedana o una corsia dedicata. È mancata una visione, un’idea di società inclusiva che metta davvero al centro tutte le persone, senza distinzioni.
Accessibilità significa pari opportunità di partecipare alla vita pubblica. È lo specchio del rispetto che una comunità ha per se stessa. E non riguarda solo chi ha una disabilità: riguarda tutti e tutte, perché una città accessibile è una città più giusta, più funzionale, più umana.
Serve un cambio di passo deciso. Serve che istituzioni, organizzatori e cittadini comprendano che l’inclusione non è un “extra” da garantire solo quando possibile. È una responsabilità collettiva. Ed è tempo di smettere di considerare l’accessibilità come una voce da tagliare nei bilanci o da gestire con improvvisazione. Non possiamo più permetterci che eventi pubblici, per quanto prestigiosi, si svolgano nel disinteresse per i diritti fondamentali di una parte della cittadinanza. Perché ogni volta che questo accade, perdiamo tutti!

*Giornalista pubblicista («AboutPeople Magazine»).

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Maltrattamenti nelle strutture su persone con disabilità: non basta più l’indignazione del momento!

«Non possiamo più affidarci solo all’indignazione del momento: malatrattamenti e violenze in strutture assistenziali sono il sintomo di un modello ormai superato, che necessita di essere trasformato per rispondere in modo adeguato ai bisogni, ai diritti e alle potenzialità delle persone con disabilità»: lo dicono dalla Federazione FISH, commentando l’ennesima vicenda di maltrattamenti nei confronti di persone con disabilità, emersa questa volta in un centro diurno di Milano

Proprio pochi minuti fa avevamo dato spazio ad una serie di riflessioni sulle conseguenze di una vicenda di violenze e maltrattamenti emersa un anno fa a Jesi nelle Marche. Il tempo di pubblicare quel testo e dobbiamo registrare un’altra triste situazione, denunciata nelle scorse ore a Milano dagli organi d’informazione.
Come si legge dunque in una nota diffusa dall’ANSA, «un’ordinanza di divieto di esercizio di attività di educatore professionale è stata emessa nei confronti di otto persone che lavoravano in un centro diurno per persone con disabilità a Milano. Tra i colpiti dal provvedimento tre operatrici donne e due responsabili del centro. L’indagine dei carabinieri della Stazione Vigentina è nata dalla denuncia di un’ex dipendente che ha riferito di maltrattamenti ai danni degli ospiti: trattamenti denigratori e violenti come isolamenti punitivi, urla e minacce. Gli episodi sarebbero iniziati nel dicembre 2023 fino all’ottobre 2024. Gli ospiti vessati sono una decina».

Non è la prima volta che la FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie) interviene pubblicamente per denunciare episodi come questo. Lo fa una volta ancora, manifestando «sdegno e profonda preoccupazione», oltre a ricordare in un comunicato che «solo pochi mesi fa, in occasione di un altro caso di violenze in una struttura assistenziale, avevamo sottolineato l’urgenza di un sistema di controlli più efficace, ma soprattutto la necessità di un profondo ripensamento culturale del modo in cui si guarda alla disabilità. Ancora una volta, quindi, chiediamo con forza che le Istituzioni facciano innanzitutto piena luce sull’accaduto, ma si assumano anche la responsabilità di un cambio di paradigma nella governance dei servizi alla persona. Non è più tollerabile, infatti, un sistema che continua a basarsi su logiche assistenzialistiche e verticali, e che troppo spesso esclude le persone con disabilità e le loro famiglie dai processi decisionali».

«Non possiamo più affidarci solo all’indignazione del momento – dichiara il presidente della FISH Vincenzo Falabella –: serve infatti una visione nuova, che parta dai diritti delle persone con disabilità, riconoscendone pienamente la soggettività, la libertà di scelta e la dignità. Dove manca questa consapevolezza, anche le strutture pensate per essere luoghi di protezione possono trasformarsi in luoghi di violenza che non è mai un fatto isolato, ma il sintomo di un modello ormai superato, che necessita di essere trasformato per rispondere in modo adeguato ai bisogni, ai diritti e alle potenzialità delle persone con disabilità». (S.B.)

Per ulteriori informazioni: ufficiostampa@fishonlus.it.

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Quell’appartamento di Jesi proprio nulla aveva a che vedere con la vita indipendente

«Com’è possibile – si chiedono dal Gruppo Solidarietà – che il Dipartimento di Salute Mentale di Jesi (Ancona), pur conoscendo molto bene il funzionamento di quell’appartamento della propria città, avesse parlato di “una coabitazione autogestita”, evidenziando anche la qualità del progetto, fino a scomodare la “vita indipendente”?». Quell’appartamento era stato sequestrato lo scorso anno, con l’arresto di due persone e su di esso si è pronunciato ora anche il Consiglio di Stato

Come aveva raccontato più o meno un anno fa il Gruppo Solidarietà sulle nostre pagine, in quei giorni era stato posto sotto sequestro a Jesi (Ancona) un appartamento in Via del Verziere, che ospitava sei persone con disturbi psichici; una coppia era stata arrestata, con l’accusa per lui di violenza sessuale aggravata, di maltrattamenti per la moglie.
Su tale vicenda lo stesso Gruppo Solidarietà aveva espresso una serie di riflessioni, a partire dai contenuti di una Sentenza del TAR delle Marche (559/2023) prodotta alcuni mesi prima e successiva al ricorso dei soggetti in seguito indagati, dopo un’Ordinanza del Comune di Jesi che, a seguito di un’ispezione, aveva stabilito la cessazione dell’attività, ritenendo che si trattasse, nei fatti, di un “servizio” che per essere erogato richiedesse autorizzazione.
A seguito dunque del ricorso, il TAR aveva ritenuto non trattarsi di una comunità che per operare avesse obbligo di autorizzazione, ai sensi delle norme regionali vigenti, ma di una “servizio” che trovava ispirazione e riferimento alla “Legge Regionale sulla Vita Indipendente” (Legge Regionale 21/18), ossia una sorta di appartamento autogestito e come tale, appunto, non soggetto ad autorizzazione. Aveva conseguentemente accolto il ricorso, annullando l’Ordinanza Comunale, con il supporto delle indicazioni date dal direttore del Dipartimento di Salute Mentale.

Ebbene, il 24 marzo scorso, come informa ora il Gruppo Solidarietà – che ha anche dedicato un approfondimento all’intera vicenda – il Consiglio di Stato, con la Sentenza 2407/25 (disponibile a questo link, insieme a un ulteriore commento), ha riformato il precedente pronunciamento del TAR, stabilendo che l’appartamento di Via del Verziere a Jesi, sequestrato, come detto, nell’aprile dello scorso anno, dopo le accuse di maltrattamenti e l’arresto di due persone, «non era un appartamento autogestito e tantomeno una coabitazione in un progetto di vita indipendente. In sostanza un “servizio residenziale” privo dell’obbligatoria autorizzazione».

«Accogliendo, dunque, la tesi del Comune di Jesi – scrivono dal Gruppo Solidarietà -, il Consiglio di Stato ha stabilito che l’appartamento risultava a tutti gli effetti un “servizio residenziale” privo di autorizzazione. E come tale, se ne deduce, abusivo. Come è stato ripetutamente fatto notare dall’Associazione Tutela Salute Mentale Vallesina, che, sola, ha tenacemente, in questi anni, denunciato e portato all’attenzione la vicenda dell’appartamento di Jesi, è necessario risalire alla filiera delle responsabilità. Si possono dunque riprendere alcune considerazioni la prima delle quali riguarda il Dipartimento di Salute Mentale di Jesi che, pur conoscendo molto bene il funzionamento dell’appartamento, come anche da relazione riportata nella Sentenza del TAR, ha affermato trattarsi di “una coabitazione autogestita”, evidenziandone anche la qualità del progetto (“molto più avanzato di altri”), fino a scomodare la “vita indipendente” e il fatto, ritenuto estremamente positivo, che i costi non gravassero sulle casse pubbliche (Azienda Sanitaria, Regione, Comuni)».

«La seconda considerazione – proseguono dall’organizzazione marchigiana – concerne il quesito su quale protezione giuridica venisse esercitata su quella struttura, evidenziando ancora di più la necessità di una revisione dell’istituto dell’amministrazione di sostegno. E ancora, sarebbe oltremodo interessante capire dove vivano oggi le 5/6 persone che abitavano l’appartamento, se in comunità e in quale tipologia di comunità. E se, nel “livello assistenziale”, in “Comunità alloggio con lievi disturbi mentali”. Pare, infatti, ragionevole dubitare che quella tipologia di “servizio”, di tipo esclusivamente sociale rivolta a persone “con lievi disturbi mentali e con un alto livello di autosufficienza” che “necessitano di sostegno nel percorso di autonomia e inserimento o reinserimento sociale”, sia compatibile con le necessità delle persone che vivevano in quell’appartamento. Livelli di autonomia certificati dallo standard di personale previsto: un operatore per 6 ore alla settimana. Se oggi quelle o alcune di quelle persone vivono, invece, in servizi residenziali sociosanitari cui si accede tramite invio del Centro di Salute Mentale (CSM), occorrerebbe ancor di più chiedere al Dipartimento come le loro necessità potessero essere compatibili con quell’appartamento autogestito».

«C’è dunque da augurarsi – concludono dal Gruppo Solidarietà – che nel processo iniziato a febbraio nei confronti dei due coniugi accusati di violenza sessuale e maltrattamento, si faccia piena luce su nascita, sviluppo ed evoluzione dell’appartamento e sul rapporto, dal 2018, delle persone che lo gestivano con le Istituzioni e in particolare con il Dipartimento di Salute Mentale di Jesi». (S.B.)

Per ulteriori informazioni e approfondimenti: grusol@grusol.it.

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“Sport si può”, punto di riferimento nel panorama educativo e sportivo della Provincia di Varese

È in pieno svolgimento il progetto “Sport si può”, promosso dall’Associazione Sportiva Dilettantistica POLHA-VARESE, che offre corsi gratuiti di nuoto a bambini e ragazzi con disabilità tra i 6 e i 14 anni in orario scolastico. Questa iniziativa, che unisce sport, inclusione, volontariato e socialità, è diventata un punto di riferimento nel panorama educativo e sportivo della Provincia di Varese Alcuni bimbi e bimbe partecipanti al progetto “Sport si può”, qui in piscina insieme all’istruttrice

È in pieno svolgimento il progetto Sport si può, promosso dall’Associazione Polisportiva Dilettantistica POLHA-VARESE, che offre corsi gratuiti di nuoto a bambini e ragazzi con disabilità tra i 6 e i 14 anni in orario scolastico. Questa iniziativa, che unisce sport, inclusione, volontariato e socialità, è diventata un punto di riferimento nel panorama educativo e sportivo della Provincia di Varese.

«Uno dei punti di forza sta nella continuità: nato nel 1997 da un’idea del Tavolo Provinciale Sport Disabili e sostenuto interamente dalla Provincia di Varese fino al 2014, Sport si può è proseguito grazie all’impegno costante, sia organizzativo che economico, della nostra Associazione. Negli anni di maggiore attività, il progetto ha raggiunto numeri straordinari: 320 alunni, 8 piscine, 60 scuole, 35 istruttori specializzati e oltre 200 tra insegnanti ed educatori coinvolti in un solo anno. Dopo il ritiro della Provincia nel 2015, la sostenibilità dell’iniziativa è stata garantita dalla collaborazione con i Comuni delle scuole aderenti, dai gestori delle piscine e da sponsor individuati dalla nostra organizzazione», sottolinea la presidente dell’Associazione, Daniela Colonna-Preti. «Con orgoglio possiamo affermare che, ad oggi, oltre 5.000 alunni con disabilità hanno potuto vivere gratuitamente questa esperienza unica».

Quest’anno il progetto è attivo con POLHA nelle piscine di Caronno Pertusella, Castiglione Olona, Tradate e Varese, grazie al sostegno dei rispettivi Comuni, nonché di quelli di Casciago, Venegono Inferiore e Venegono Superiore.
Gli alunni e alunne partecipano ai corsi durante l’orario scolastico: accompagnati dai loro insegnanti, raggiungono le piscine dove li attendono istruttori esperti nella didattica del nuoto per persone con disabilità e i volontari di POLHA. Grazie a questarete di collaborazioni tra pubblico e privato, anche nel 2025 oltre 300 alunni con disabilità stanno vivendo l’emozione del nuoto, a titolo completamente gratuito per loro, per le famiglie e per le scuole partecipanti. (C.C.)

Per maggiori informazioni: POLHA-VARESE (info@polhavarese.org).

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“Adesso Basta!”, un impegno per il cambiamento

Si chiama “Adesso Basta!”, ossia “Un 2025 accessibile per tutti e tutte” la petizione online lanciata da Working Souls, azienda nata da un’idea dell’artista con disabilità Francesco Canale (“Anima Blu”), iniziativa che si propone in sostanza di essere un manifesto per trasformare le barriere in opportunità, toccando cinque punti: taxi accessibili, auto adattate, voli e treni accessibili, concerti e spettacoli fruibili senza barriere

Adesso Basta!: ha un nome perentorio la petizione lanciata sulla piattaforma Change.org da Working Souls, azienda nata nel 2021 da un’idea dell’artista con disabilità Francesco Canale (noto anche come “Anima Blu”), che sta portando avanti numerose e variegate iniziative a favore dell’inclusione per cambiare il paradigma che vuole la disabilità relegata al mondo non profit, all’attivismo o alle realtà “caritatevoli”.

Adesso Basta! è in sostanza un manifesto per trasformare le barriere in opportunità. Cinque i punti toccati: taxi accessibili, auto adattate, voli e treni accessibili, concerti e spettacoli fruibili senza barriere. Viene ritenuto assurdo, a esempio, che nel 2025 una persona con disabilità debba pagare di più per un taxi solo perché ha bisogno di una pedana. La mobilità, infatti, è un diritto, non un privilegio. La petizione chiede dunque parità nelle tariffe e più veicoli accessibili sulle strade, perché la libertà di movimento non può avere un prezzo diverso. Working Souls si ispira al modello del Regno Unito, dove il Transport for London ha introdotto politiche che garantiscono accessibilità per tutti e tutte, senza costi aggiuntivi, e obbliga i taxi a dotarsi di rampe.

Altro argomento, i costi per modificare e rendere accessibili le automobili che possono essere pari al prezzo dell’auto stessa, se non di più. Per far sì, dunque, che l’autonomia non sia un privilegio per pochi, la petizione propone un sistema di sostegno pubblico-privato per coprire i costi di adattamento dei veicoli per chi non può permetterselo.

Il diritto di viaggiare, del resto, è un ulteriore punto di Adesso Basta!. Prendiamo i voli aerei, per i quali, se l’accompagnatore è indispensabile, il suo biglietto aereo dev’essere gratuito. Come già accade sui treni e in altri Paesi, anche l’Italia deve allinearsi a questo principio di civiltà, perché il diritto a viaggiare non può essere un peso doppio per chi ha una disabilità. E per Working Souls anche la mobilità ferroviaria dev’essere un diritto universale: le pedane sui treni non sono un optional, ma sono necessarie su ogni convoglio. Solo così sarà garantita vera autonomia di movimento, sicurezza e libertà di viaggiare da qualsiasi stazione. Con riferimento poi al Regolamento Europeo 1300/2014, che stabilisce appunto standard di accessibilità per il trasporto ferroviario, la petizione chiede che l’Italia si impegni ad adeguare tutte le proprie infrastrutture, a partire dalle stazioni locali e garantendo formazione al personale per un’assistenza dignitosa e professionale.

Infine, l’accesso alla cultura e agli spettacoli. Oggi, ad esempio, è possibile avere un solo accompagnatore ai concerti, una limitazione alla socialità. Adesso Basta! propone tre accompagnatori ammessi, procedure di prenotazione più semplici e il rispetto delle quote dei posti riservati. Inoltre, pone l’attenzione sull’accessibilità fisica e tecnologica delle strutture, con l’introduzione di sottotitoli, audiodescrizioni e tecnologie assistive per eventi culturali, come già previsto, ad esempio, dalla normativa francese sull’accessibilità.

«Questo manifesto – spiega Francesco Canale – non è solo un appello, è un piano d’azione. Chiediamo infatti a istituzioni, imprese e società civile di sottoscriverlo e impegnarsi concretamente. Il 2025 deve diventare l’anno della svolta per l’accessibilità in Italia. Solo insieme possiamo costruire un futuro dove la disabilità non sia più sinonimo di limitazione, ma di pari opportunità e piena inclusione sociale».
4cFuture, Business Unit di 4C dedicata alla sostenibilità, e Happy Network, rete di imprese impegnata a favore dell’inclusività negli ambienti lavorativi e nella vita di ogni giorno, supportano con convinzione il progetto affinché l’accessibilità diventi la norma, e non l’eccezione.
«Siamo pronti a trasformare il cambiamento in realtà – conclude Canale, invitando a sottoscrivere la petizione -, perché un mondo senza barriere è un mondo più giusto per tutti e tutte». (Stefania Delendati)

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Giovani, disabilità e futuro: incontro tra il Forum Europeo sulla Disabilità e il commissario Micallef

Una delegazione dell’EDF, il Forum Europeo sulla Disabilità, guidata da Lydia Vlagsma, ha incontrato nei giorni scorsi il commissario europeo Glenn Micallef. L’incontro ha evidenziato le difficoltà che i giovani con disabilità affrontano quotidianamente, e si è discusso anche di cyberbullismo nei confronti delle persone con disabilità Il commissario europeo Micallef con Lydia Vlagsma dell’EDF

Una delegazione dell’EDF, il Forum Europeo sulla Disabilità, ha incontrato nei giorni scorsi il maltese Glenn Micallef, commissario europeo per l’Equità Intergenerazionale, la Gioventù, la Cultura e lo Sport. La delegazione del Forum era guidata da Lydia Vlagsma, co-presidente del Comitato Giovani dell’EDF stesso.

Durante l’incontro, la delegazione ha posto l’accento sugli “ostacoli sproporzionati” che i giovani con disabilità devono affrontare in tutti gli àmbiti della vita quotidiana e ha esortato il Commissario a garantire la loro inclusione nelle politiche e nelle iniziative legate alla gioventù. Tra le richieste principali avanzate dalla delegazione dell’EDF:
° Rappresentanza: inserire i giovani con disabilità in tutte le strutture partecipative dell’Unione Europea, come il Consiglio Consultivo Giovani della Presidente della Commissione e il Gruppo per i Giovani dell’Unione Europea.
° Accessibilità culturale: promuovere inclusività nel settore culturale attraverso strumenti come il prossimo Culture Compass e il programma Creative Europe.
° Partecipazione ai programmi di mobilità: migliorare l’accesso dei giovani con disabilità a Erasmus+ e al Corpo Europeo di Solidarietà.

Un ulteriore tema affrontato è stato quello del cyberbullismo nei confronti delle persone con disabilità e le possibili azioni a livello europeo per contrastarlo.

Dal canto suo, quindi, Micallef ha espresso il proprio impegno a portare la voce dei giovani con disabilità in tutte le piattaforme politiche, segnalando un’attenzione particolare per rendere la cultura più accessibile e inclusiva.
«È stato molto incoraggiante – ha dichiarato Vlagsma – confrontarsi con il commissario Micallef e sentire il suo impegno a rafforzare la rappresentanza dei giovani con disabilità nel lavoro della Commissione. I problemi che i giovani con disabilità affrontano – dal cyberbullismo alla salute mentale, dall’istruzione alla mobilità e occupazione – sono interconnessi e meritano di essere affrontati in tutte le politiche e i programmi pertinenti». (C.C. e S.B.)

Per ulteriori informazioni: André Felix (responsabile della Comunicazione dell’EDF), andre.felix@edf-feph.org (cui scrivere in inglese).

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Il “Mare per tutti” di Tiliaventum ha vinto il concorso fotografico del Forum Europeo sulla Disabilità

Siamo particolarmente contenti di annunciare che il primo premio del tradizionale concorso fotografico promosso dal Forum Europeo sulla Disabilità, dedicato quest’anno al tema “Attraverso l’obiettivo dell’accessibilità: storie di barriere, sfide e buone pratiche”, è arrivato in Italia ed esattamente a Daniele Passoni, presidente dell’Associazione Tiliaventum di Lignano Sabbiadoro (Udine), che da anni promuove il programma “Sea4All” (“Mare per tutti”) La foto “Sea4All” di Daniele Passoni, che ha vinto il primo premio nell’edizione di quest’anno del concorso promosso dal Forum Europeo sulla Disabilità

«L’accessibilità va oltre rampe e ascensori: si tratta di rimuovere barriere in ogni àmbito della vita, dagli spazi fisici alle piattaforme digitali e alla comunicazione inclusiva. La vera accessibilità, infatti, significa garantire che tutti possano partecipare pienamente e in autonomia. E tuttavia, per molte persone con disabilità, la vita è un mix di ostacoli, sfide e trionfi, navigando in un mondo che spesso ignora le loro necessità»: era partita da questa premessa l’edizione di quest’anno del tradizionale concorso fotografico promosso dall’EDF, il Forum Europeo sulla Disabilità, dedicato appunto al tema Through the accessibility lens: Stories of barriers, challenges and good practices (“Attraverso l’obiettivo dell’accessibilità: storie di barriere, sfide e buone pratiche”) e rivolto, come sempre, a cittadini/cittadine o residenti dell’Unione Europea di tutte le età.

Siamo dunque particolarmente contenti di annunciare che il primo premio dell’iniziativa è arrivato quest’anno in Italia ed esattamente a Lignano Sabbiadoro (Udine), al Presidente di un’Associazione spesso presente anche sulle nostre pagine, in particolare con il proprio progetto Sea4All (“Mare per tutti”). Si tratta di Daniele Passoni, presidente dell’Associazione Sportiva Dilettantistica Tiliaventum, aggiudicatosi appunto il primo premio del concorso, con la foto qui a fianco pubblicata, intitolata essa stessa Sea4All.
«Si tratta – spiega Passoni – di uno scatto ripreso durante le innumerevoli, continuative e inclusive attività di mare per tutti della nostra Associazione, sulle acque antistanti Lignano Sabbiadoro, a bordo della barca a vela accessibile #Càpita, con gli entusiasti Omar, Antonella e Remo che, sorridenti, navigano, timonano e regolano le vele».
«Questo premio – commenta – è motivo di grande soddisfazione per me, per Tiliaventum e per tutti i Soci e Volontari/e del nostro sodalizio, un esempio, oggi anche fotograficamente riconosciuto a livello europeo, di come si possa condividere, tutti/e insieme, indipendentemente dalle cosiddette “disabilità”, una quotidianità sempre più ricca ed appagante».
Tanti complimenti a Tiliaventum, naturalmente, anche da parte di Superando! (S.B.)

A questo link è disponibile una selezione delle foto che hanno partecipato all’edizione 2025 del concorso promosso dall’EDF.

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Alla teologia manca ancora il capitolo della disabilità

In riferimento al recente convegno di Assisi “A Sua Immagine. ‘Us’ not ‘Them’”, che ha preso spunto dal libro “A Sua immagine? Figli di Dio con disabilità”, traduzione sostanziale di una pubblicazione del gesuita australiano Justin Glyn, dopo avere ospitato gli interventi del vescovo Francesco Antonio Soddu e dello stesso Justin Glyn, diamo oggi spazio a quello della teologa Ilaria Morali Ilaria Morali è docente di Teologia Dogmatica alla Pontificia Università Gregoriana di Roma

Quando alcuni anni orsono venni contattata da Giovanni Merlo esplorando l’ipotesi di un mio intervento a Milano sul tema Fede e Disabilità, confesso di essere rimasta, sulle prime, piuttosto spiazzata dal tema, per me completamente nuovo. In effetti, nella formazione di un teologo generalmente non si prevedono corsi di teologia sulla disabilità, né questa è materia di discussione. Semplicemente non se ne parla.
Nonostante la novità, ero però consapevole di essere cresciuta intellettualmente alla scuola dei grandi teologi gesuiti del Novecento, esponenti di un rinnovamento teologico che si prefiggeva di riportare il tema della condizione storica dell’uomo al centro della riflessione cattolica e di ricostituire il legame tra teologia e vita…, perché la teologia potesse rispondere alla domanda di senso avanzata dagli uomini del proprio tempo. In questo modo essi hanno di fatto preparato col loro impegno la strada del Concilio Vaticano II, cui essi personalmente contribuirono.

L’incontro con gli scritti di Padre Justin Glyn mi ha indubbiamente fornito la bussola per riposizionarmi, aiutandomi a comprendere in una luce nuova anche alcune letture di questi teologi che, pur non affrontando il tema specifico, mostrano tuttavia una spiccata sensibilità per tutte le forme di vulnerabilità che toccano l’esistenza umana. «Assumendo una natura umana – scriveva Henri de Lubac negli Anni Trenta – è la natura umana… che egli ha incluso in lui… tutta intera la porterà dunque al Calvario, tutta intera la resusciterà, tutta intera la salverà…» (1).
È un passo dell’opera Catholicisme che ebbe il merito di porre in rilievo la dimensione sociale del Cristianesimo nei suoi assi portanti.
Due aspetti mi colpiscono di questa affermazione: la sottolineatura circa la «natura tutta intera» che Cristo assume e include in sé e salva. Non si parla di una natura perfetta, ma di una natura tutta intera: l’intero è dato dalle diverse condizioni con le quali questa natura si declina e vive nella storia. Dunque anche la disabilità. Il secondo è la prossimità con quanto leggiamo nella Costituzione Pastorale Gaudium et Spes, al n. 22, testo molto conosciuto: «Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo (cum omni homine quodammodo Se univit).Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo (31) ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché il peccato (32)».
Vorrei qui sottolineare un aspetto circa l’espressione conciliare: «Cristo si è unito ad ogni uomo». Non si specifica un uomo determinato, né ancora una volta un modello perfetto di uomo, ma si usa l’espressione forte «ogni uomo» al quale il Verbo si è unito. E sottolineerei anche quell’«egli si è fatto veramente uno di noi».

Il senso vero di questa affermazione si può cogliere tornando al Credo, a un passo che ci è familiare, ma che non conosciamo nel suo contenuto teologico profondo. Mi riferisco al passo «per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e si è fatto uomo».
Due osservazioni: nella confessione di fede, torna per due volte la parola uomo in riferimento all’incarnazione di Cristo. È un’affermazione dogmatica, dunque normativa, sancita da ben due concili, di Nicea (325) e di Costantinopoli I (381) e tocca «la verità intima di Dio, la salvezza dell’uomo in tutte le sue dimensioni» (2). È però interessante notare come nella versione originale del testo in lingua greca ricorra il termine anthropos, due volte nella stessa frase: la prima, al plurale è riferita a noi, mentre la seconda è resa in forma verbale in riferimento all’incarnazione di Cristo. La traduzione italiana del termine greco, in “uomini”, “si è fatto uomo”, non permette di cogliere appieno il valore della scelta operata dai Padri Conciliari: anthropos, infatti, è il termine che in greco designa l’essere umano, in quanto tale, in tutta la sua ricchezza, non quindi il maschio.
Con quel “per noi uomini”, i Padri Conciliari hanno voluto indicare tutti gli esseri umani, uomini e donne, destinatari della salvezza, mentre il principio che si vuole esprimere con ἐνανθρωπήσαντα (en-anthropesanta), che noi traduciamo con “si è fatto uomo”, equivale ad affermare che il Verbo, nell’incarnazione, si è «inumanato», prendendo veramente tutto ciò che appartiene e fa dell’umanità… l’umanità, eccetto ovviamente il peccato. Un’affermazione forte, dunque, che rende la Rivelazione cristiana unica nell’orizzonte delle proposte religiose della storia.

L’incontro con il pensiero di Padre Glyn mi ha permesso tuttavia di notare come, nonostante l’incredibile attenzione dei teologi e del Magistero per questi temi, non si sia tuttavia giunti a considerare il tema della disabilità parte integrante di questa concretezza e non si sia riconosciuto in queste intuizioni un terreno propizio per una teologia della disabilità.
A proposito di Gaudium et Spes, Justin Glyn sottolinea, tra i vari, tre aspetti che mi sembrano teologicamente significativi in rapporto alla disabilità:
° rispetto a tesi sostenute in passato, il peccato «deriva dalle scelte dell’uomo e non dalla nostra costituzione fisica o mentale. Non è una caratteristica del corpo, che è creato tanto buono quanto limitato»;
° l’assunzione piena dell’umano da parte di Cristo non significa annichilire la natura creata dell’uomo, ma elevarla…» e questa elevazione, secondo la dottrina cristiana, avviene per grazia.
° Di qui una terza fondamentale affermazione: «la grazia è fondata sulla natura, tutta la natura», non una natura modello, ma la natura concreta, appunto in tutte le declinazioni che ne delineano la condizione storica. Per natura qui si intende implicitamente la natura dell’uomo in rapporto al dono della vocazione divina. E la grazia della salvezza è donata a ogni essere umano indipendentemente dalla sua condizione fisica, perché Cristo ha assunto tutto l’essere umano: ossia, in quel «per noi uomini» ci siamo dunque proprio tutti, senza distinzione.
Ora, come lo stesso Glyn afferma con vigore, «la grazia riguarda la relazione costante di Dio con gli uomini, tutti gli uomini… Nessuno è escluso perché nessuno di noi è concepito per essere lasciato fuori» In altri termini, la dispensazione della grazia non dipende certamente dal fatto di essere più normodotati di altri: «un corpo danneggiato, sofferente o menomato – scrive il gesuita neozelandese – è sempre e comunque un corpo creato meraviglioso che mostra l’immagine di Dio in virtù della propria umanità e non in funzione di ciò che può o non può fare» (3).

Vorrei aggiungere che ultimamente in teologia si è affacciato il tema della vulnerabilità di cui la disabilità costituisce uno dei vari capitoli. In un articolo di Catherine Vialle, professore di esegesi, su questo tema, si afferma giustamente che «Dio, in Cristo, viene ad abitare tutte le vulnerabilità», non solo nei momenti cardine della vita di Cristo, nascita e morte, «ma anche lungo tutta la sua esistenza» (4). Di qui qualche riflessione conclusiva.
Rispetto a queste verità incontrovertibili e profondamente dogmatiche, finora mi sembra manchi in teologia e, di riflesso, nello stesso modo di parlare della disabilità da parte cattolica, la consapevolezza di questo principio cristologico: Cristo unito ad ogni uomo, ogni, fattosi realmente uomo ed insieme il fatto che la sua grazia agisce e si relaziona ad una natura concreta, che tra le sue declinazioni conosce nella storia anche quella della condizione della disabilità.
Questa lacuna si riflette sullo stesso linguaggio che in àmbito cattolico si utilizza in riferimento al tema della disabilità. Mi sembra infatti ancora prevalere un’ottica paternalista: quella che vede, da un lato, il “noi” dei normodotati distanziato e distinto da “loro” delle persone con disabilità: noi impegnati perché “loro” si sentano accettati nella comunità. Glyn la definisce «retorica dell’inclusione», lamentando come l’esperienza vissuta della disabilità non sia ancora entrata a fare pienamente «parte dell’autocomprensione della Chiesa» (5).
Questo spiega anche il titolo del libro cui ho partecipato con un piccolo intervento finalizzato appunto a porre in evidenza quello che a mio avviso è ancora un capitolo mancante in teologia dogmatica. Dogmatica perché, come si è visto, i princìpi di riferimento – incarnazione, grazia ecc. – sono parte della dottrina di fede e hanno valore normativo. In tal senso non concordo con quanto scritto da Dominique Foyer, teologo dell’Università Cattolica di Lille, quando afferma che la prima cosa che la teologia deve fare davanti alla disabilità (e qui mi sembra che la sterile distinzione tra noi e loro sia presente) è tacere, senza cadere nella tentazione di parlare a nome di altri (6).
Se passi avanti sono stati nel frattempo compiuti, anche grazie al magistero di Papa Francesco, molti restano da fare sia nella riflessione teologica che nella pastorale e, più in generale, nel modo di affrontare il tema della disabilità nelle nostre parrocchie e comunità.
Ritengo perciò che l’iniziativa di pubblicare il contributo di Justin Glyn in traduzione sia tanto più preziosa: la prospettiva che ci addita, infatti, quella del “noi”, non solo ci apre gli occhi mostrando i limiti degli approcci finora adottati, ma oggettivamente schiude strade nuove. A noi il compito di percorrerle fino in fondo con coraggio, anche da teologi.

Ringraziamo Giovanni Merlo per la collaborazione.

*Docente di Teologia Dogmatica alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. I contenuti del presente contributo corrispondono a quelli dell’intervento pronunciato nel corso del convegno “A Sua Immagine. ‘Us’ not ‘Them’”, tenutosi il 6 marzo 2025 ad Assisi (Perugia) (se ne legga la nostra presentazione). Rispetto al medesimo convegno, segnaliamo anche, sempre sulle nostre pagine, gli interventi di Francesco Antonio Soddu (“Il ruolo della Chiesa e la distruzione di ogni muro di separazione”) e di Justin Glyn (“Le vere necessità delle persone con disabilità cattoliche oggi”), rispettivamente a questo e a questo link.

Note:
(1) H. de Lubac, Catholicisme. Les aspects sociaux du dogme, Oeuvres complètes, VII, Paris, Cerf, 2003.

(2) L.F. Ladaria, Che cos’è un dogma? Il problema del dogma nella teologia attuale, in «Problemi e prospettive di Teologia Dogmatica», Brescia: Queriniana, 1983, p. 101.
(3) J. Glyn, “Noi, non loro”: la disabilità nella Chiesa, in «La Civiltà Cattolica», 1 (2020), p. 43.
(4) C.Vialle, Vulnerabilité humaines dans la Bible, in C. Vialle, M. Castro, P. Rodriguez, L’humain vulnerable face aux crises. 1.Vulnerabilité du vivant, Paris, Cerf, 2023, p. 139.
(5) J. Glyn, “Noi, non loro”: la disabilità nella Chiesa cit., pp. 41-52.
(6) D. Foyer, Quand la vulnerabilité de la personne handicapée dévoile la vulnerabilité de Dieu, in C. Vialle, M. Castro, P. Rodriguez, L’humain vulnerable face aux crises. 1.Vulnerabilité du vivant cit., p. 71.

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Serve estrema attenzione per l’intelligenza artificiale che “feticizza” la disabilità

«Rubano immagini in rete e le “danno in pasto” all’intelligenza artificiale, per creare profili falsi (“deepfake”) di avvenenti ragazze e donne con sindrome di Down: è l’ultima, allarmante moda, che si sta rapidamente diffondendo in rete, specialmente sui social, in particolare su alcune piattaforme, tra cui OnlyFans»: a denunciarlo è l’Associazione AIPD che sottolinea come sia fondamentale porre l’attenzione su questo fenomeno di estrema pericolosità Una delle immagini “deepfake” create con l’intelligenza artificiale per l’allaramante trend “OnlyDown”

«Rubano immagini in rete e le “danno in pasto” all’intelligenza artificiale, per creare profili falsi (tecnicamente, deepfake) di avvenenti ragazze e donne con sindrome di Down: è l’ultima, allarmante moda, che si sta rapidamente diffondendo in rete, specialmente sui social, in particolare su alcune piattaforme, tra cui OnlyFans, con l’obiettivo di catturare l’attenzione di chi, attratto da questi profili, è pronto a pagare per avere loro foto o video»: la denuncia arriva dall’AIPD (già Associazione Italiana Persone Down, ma da qualche settimana divenuta Associazione Italiana Persone con Sindrome di Down), che spiega ancora come «OnlyDown sia il trend diffusosi nelle scorse settimane, dando particolare visibilità ad alcuni di questi profili, tra cui quello di una certa Maria Dopari: i tratti somatici caratteristici della sindrome di Down erano prestati a un corpo che si mostra, provocante, in varie pose e angolazioni. Dal profilo Instagram si viene quindi dirottati a Telegram e di qui viene proposto l’acquisto del relativo account di OnlyFans. I contenuti sono quasi sempre molto espliciti».

A spiegare ancor meglio come funziona il tutto è Matteo Flora, imprenditore, professore in Sicurezza delle Intelligenze Artificiali e delle SuperIntelligenze all’European School of Economics, conduttore televisivo e autore, tra l’altro, di Ciao Internet, il più seguito canale YouTube di Tech Policy in Italia. «Recentemente – spiega Flora nell’introduzione del video in cui illustra il trend OnlyDown – sui social come TikTok e Instagram si è registrato un trend apparentemente positivo legato a ragazze con sindrome di Down che mostrano con naturalezza la propria vita quotidiana. Tuttavia, scavando più a fondo, emerge una realtà molto più inquietante: profili fake generati tramite intelligenza artificiale che sfruttano l’immagine di persone reali (ignare e modificate), per vendere contenuti su piattaforme come OnlyFans. Dietro al fenomeno ci sono problematiche complesse: l’insufficiente regolamentazione legale e tecnologica contro questi abusi; le difficoltà di moderazione da parte delle piattaforme social; il confine molto labile tra inclusione e feticizzazione di persone vulnerabili».Proprio per prevenire e contrastare questi abusi, lo stesso Flora ha segnalato numerosi profili, alcuni dei quali sono stati rimossi, come quello citato di Maria Dopari, che aveva raggiunto quasi 150.000 follower.

Interpellato dall’AIPD, per averne un consiglio da rivolgere alle persone con sindrome di Down e alle loro famiglie, consentendo loro di proteggersi da questi abusi, Matteo Flora ha detto di «avere già fatto rimuovere circa un migliaio di contenuti, ma l’AIPD, come Associazione, potrebbe interfacciarsi direttamente tramite l’AGCOM (Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni), per chiedere le singole rimozioni. Sarebbe ancora una volta l’affermazione di una leadership nel campo, che secondo me l’AIPD deve reclamare a gran voce».
Il suggerimento è stato accolto con favore da Gianfranco Salbini, presidente nazionale dell’AIPD, consapevole di quanto il problema richieda attenzione: «La ricerca di visibilità attraverso l’esposizione dei propri figli – afferma – è diventata, purtroppo, una pratica comune. Tuttavia, è fondamentale porre l’attenzione su questo fenomeno, ancora più allarmante: l’utilizzo dei deepfake per sfruttare l’immagine delle persone con disabilità. Anche se parlarne potrebbe generare un effetto di emulazione, è essenziale sensibilizzare le famiglie sull’estrema pericolosità di queste pratiche. Il mercato dell’immagine umana, quando non regolamentato, può diventare uno strumento diabolico di sfruttamento, soprattutto per le comunità più vulnerabili».
«In Italia – aggiunge Salbini -, la legge prevede pene detentive da uno a cinque anni per chi crea e diffonde contenuti deepfake che causano danni ingiusti. Tuttavia, la rapidità con cui queste tecnologie si evolvono richiede un costante aggiornamento delle normative e una maggiore consapevolezza da parte del pubblico. Ritengo quindi fondamentale approfondire e diffondere queste informazioni, per proteggere le persone con disabilità e prevenire ulteriori abusi». (S.B.)

Per ulteriori informazioni: ufficiostampaaipd@gmail.com.

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La fase formativa del progetto “For All – Roma una città fruibile per tutti”

Tra ieri 14 aprile, e oggi, 15 aprile, si è svolta la fase formativa del progetto “For All – Roma una città fruibile per tutti”, rivolta agli operatori di Protezione Civile e Croce Rossa impegnati nell’accoglienza delle persone con disabilità per il “Giubileo 2025”. Realizzato con il contributo del Fondo Carta Etica di UniCredit, il progetto ha quale capofila la Federazione FISH, in partenariato con l’ANFFAS Nazionale, la FAIP, Pedius, il Consorzio La Rosa Blu e il MAV L’intervento del presidente della FISH Falabella alla due giorni di formazione del progetto “For All – Roma una città fruibile per tutti”

In attesa della data riguardante il lancio ufficiale del progetto, che verrà annunciata entro breve, è già pienamente in corso la due giorni di formazione di For All – Roma una città fruibile per tutti, rivolta, tra ieri 14 aprile, e oggi, 15 aprile, agli operatori di Protezione Civile e Croce Rossa impegnati nell’accoglienza delle persone con disabilità per il Giubileo 2025.

Titolo della due giorni di formazione è Il nuovo concetto di disabilità: come accogliere le persone con disabilità, che ha visto nella giornata di ieri l’intervento di Stefania Leone, presidente dell’ADV (Associazione Disabili Visivi), Gabriele Favagrossa, esperto della FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie) e Michele Adamo, consigliere nazionale della UILDMM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare).
Oggi, invece, sono intervenuti Vincenzo Falabella, presidente della FISH e consigliere del CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro), ancora Gabriele Favagrossa e Alessandro Parisi dell’ANFFAS Nazionale (Associazione Nazionale di Famiglie e Persone con Disabilità Intellettive e Disturbi del Neurosviluppo).

Realizzato con il contributo del Fondo Carta Etica di UniCredit, For All – Roma una città fruibile per tutti, che dopo la formazione si articolerà su altre iniziative generatrici di accessibilità, ha quale capofila la FISH, in partenariato con l’ANFFAS Nazionale, la FAIP (Federazione delle Associazioni Italiane di Persone con Lesione al Midollo Spinale), Pedius, il Consorzio La Rosa Blu e il MAV. (S.B.)

Per ulteriori informazioni: ufficiostampa@fishonlus.it.

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Oggi l’angioedema ereditario fa meno paura: lo racconta anche un cortometraggio

Oggi l’angioedema ereditario, malattia rara disabilitante e potenzialmente letale, fa decisamente meno paura, grazie all’innovazione terapeutica e alla possibilità di una profilassi preventiva. Lo racconta anche il cortometraggio “Il Colloquio”, che il 16 aprile verrà ufficialmente presentato alla stampa italiana, durante l’incontro online denominato “Angioedema ereditario: oggi fa meno paura”

Malattia rara disabilitante e potenzialmente letale, attualmente l’angioedema ereditario (HAE), grazie all’innovazione terapeutica e alla possibilità di una profilassi preventiva, fa decisamente meno paura di prima: una buona gestione della malattia, infatti, permette alle persone che ne sono affette e ai loro caregiver la prospettiva di una vita senza limitazioni.

Per celebrare questo importante passaggio epocale e continuare a diffondere conoscenza sulla condizione di vita con la malattia, la Società BioCryst, impegnata nell’area terapeutica dell’angioedema ereditario, ha realizzato il cortometraggio denominato Il Colloquio, presentato recentemente anche durante l’81^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, nell’àmbito del Premio Son of a Pitch Award.

Il Colloquio verrà ufficialmente presentato alla stampa italiana nel pomeriggio del 16 aprile (ore 16.30-18), durante l’incontro online denominato Angioedema ereditario: oggi fa meno paura, organizzato dalla stessa BioCryst, in occasione dell’apertura del Mese dedicato alla consapevolezza su questa malattia (la cui Giornata Mondiale ricade a maggio).
L’evento si avvarrà della media partnership dell’OMaR (Osservatorio Malattie Rare), nonché del patrocinio dell’AAEE (Associazione volontaria per l’Angioedema Ereditario ed altre forme rare di angioedema) e di ITACA (Italian Network for Hereditary and Acquired Angioedema). (S.B.)

Per ulteriori informazioni: melchionna@rarelab.eu (Rossella Melchionna).

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