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Una nuova edizione del progetto lombardo “Tessiamo reti, generiamo valore”

«Il nucleo della nuova edizione del progetto “Tessiamo reti, generiamo valore” – spiegano i promotori dello stesso -, che si svolgerà nel territorio del Bollatese (Milano), consisterà nel creare un gruppo di lavoro territoriale composto da persone con e senza disabilità, che si dedichi a co-progettare eventi inclusivi da presentare alla manifestazione “Civil Week 2025” del maggio prossimo». L’iniziativa prederà il via con due incontri formativi, il 25 gennaio e il 1° febbraio

La nuova edizione del progetto lombardo Tessiamo reti, generiamo valore, di cui ci siamo già occupati a suo tempo sulle nostre pagine, ha spostato la propria centralità sul territorio del Bollatese (Milano), ponendosi quale obiettivo la Milano Civil Week 2025, manifestazione dedicata all’impegno civico nella Città Metropolitana di Milano che si svolgerà dall’8 all’11 maggio prossimo. Quest’ultimo evento, infatti, sin dal 2022 si è proposto, da una parte, di raccontare il senso civico dei cittadini, delle associazioni, delle organizzazioni, delle aziende e di tutti quelli che partecipano alla costruzione del bene comune e, dall’altra, di promuovere il senso civico per costruire comunità più coese, inclusive, accoglienti e attente ai bisogni dei più fragili.

Tessiamo reti, generiamo valore, lo ricordiamo, è un progetto nato nel 2020 e le prime due edizioni hanno avuto come fulcro il territorio di Solaro (Milano), mentre questa terza edizione, come detto inizialmente, avrà quale centro di riferimento il territorio di Bollate.
«Il nucleo della nuova edizione – spiegano i promotori – consiste nel creare un gruppo di lavoro territoriale composto da persone con e senza disabilità, che si dedichi a co-progettare eventi inclusivi da presentare alla Civil Week 2025, un’occasione ideale per lanciare nuovi stimoli in termini di convivenza delle differenze e, soprattutto, per sperimentare nel concreto nuovi modelli di partecipazione e di cittadinanza attiva».

Il progetto di cui i parla è stato ideato nell’àmbito della Rete Terzo Tempo, di cui si può leggere anche sulle nostre pagine, attiva nell’Ambito territoriale di Garbagnate Milanese al fine di promuovere l’inclusione sociale delle persone con disabilità e di cui fanno parte associazioni, persone con disabilità e loro familiari, cooperative sociali ed operatori degli enti pubblici, con la governance dell’Azienda Speciale Consortile Comuni Insieme di Bollate.
Il progetto è sostenuto dal Fondo Sirio, fondo patrimoniale costituito nel 2011 in seno alla Fondazione Comunitaria Nord Milano, allo scopo di agevolare e supportare i percorsi di vita inclusivi delle persone con disabilità che vivono nel territorio del Nord-Ovest milanese. Più precisamente, questa terza edizione è stata selezionata nell’ambito della Call 2024 di Fondo Sirio, denominata La condivisione fa la forza.

Il progetto 2025 prenderà dunque il via con due incontri formativi, il primo dei quali sabato 25 gennaio con Maurizio Colleoni della rete di Immaginabili Risorse, sul tema Convivere nelle differenze e far crescere il territorio, mentre il successivo è in programma per sabato 1° febbraio e vedrà la testimonianza della squadra integrata che, nella seconda edizione del progetto, è stata protagonista a Solaro delle visite guidate intitolate Vieni che ti raccontiamo Regina Elena.
Entrambi gli incontri si terranno in mattinata (ore 9.30-12.30), presso la Biblioteca Comunale di Bollate (Piazza Carlo Alberto Dalla Chiesa, 30). (S.B.)

Per informazioni ed iscrizioni: call24tessiamoreti@gmail.com; comunicazione@fondosirio.it (Maurizio Ferrari).
Tessiamo reti, generiamo valore (terza edizione), è frutto della collaborazione tra la Società Cooperativa Sociale Larcobaleno Onlus (capofila), Duepuntiacapo Cooperativa Sociale Onlus, Coordinamento Promozione e Solidarietà, Universal Web Radio e il Comune di Bollate.

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Tra memoria e attualità: il mondo sanitario nel programma di eutanasia nazista

In vista del Giorno della Memoria del 27 gennaio, presentiamo un approfondimento dedicato alle figure del mondo sanitario che parteciparono al “Programma di eutanasia” in cui, tra il 1939 e il 1945, trovarono la morte circa 200.000 persone con disabilità o con disturbi psichici. «Crimini – scrive Domenico Massano – che bisogna continuare a studiare e a ricordare, per riconoscere, prevenire e contrastare il rischio del riemergere di logiche discriminatorie e delle loro pericolose ricadute umane, sociali e politiche» Emmi G., di soli 16 anni, fu una delle migliaia di vittime con disabilità durante il nazismo. Giudicata “schizofrenica”, venne sterilizzata e successivamente inviata a Meseritz-Obrawalde, dove venne uccisa il 7 dicembre 1942 con un’overdose di tranquillanti

Nel 1947 si concluse il processo dei medici nazisti a Norimberga. Tra i crimini contestati ai 23 imputati (20 i medici), vi erano anche quelli legati al cosiddetto Programma di eutanasia in cui, tra il 1939 e il 1945, trovarono la morte circa 200.000 persone con disabilità o con disturbi psichici (oltre 70.000 nell’ambito del solo programma Aktion T4). Tutti gli imputati si dichiararono non colpevoli. Al termine del processo sette di loro furono assolti, sette furono condannati a morte, gli altri a pene detentive di diversa durata.
L’Ordine dei medici della Germania Occidentale inviò al processo una Commissione di Osservatori, il cui presidente era il dottor Alexander Mitscherlich e di cui facevano parte anche il dottor Fred Mielke e la psichiatra Alice Ricciardi von Platen. Mitscherlich successivamente documentò il lavoro svolto nel testo Medicina disumana: documenti del “Processo dei medici” di Norimberga (a cura di A. Mitscherlich e F. Mielke, Milano, Feltrinelli, 1967), in cui esprimeva la sua contrarietà al tentativo che fu attuato, a seguito e nel corso del processo, di risolvere le responsabilità collettive del sistema sanitario nella condanna di pochi colpevoli “patologici”: «È innegabile che la dittatura di Hitler fu criminale, tanto al vertice quanto al gradino più basso, quello degli aguzzini, ignoranti o istruiti che fossero. Di un’oscurità sconcertante è la funzione svolta dal grande strato intermedio; ma è chiaro che senza la complicità di questo, senza la sua tolleranza e indifferenza, i progetti delittuosi non avrebbero mai potuto tradursi in azione. […] Dei circa 90.000 medici che esercitavano in Germania in quell’epoca, circa 350 si macchiarono di crimini. […] Ma il nocciolo della questione è un altro. Se 350 furono coloro che commisero direttamente dei crimini, c’era tutto un apparato [sanitario, N.d.R.] che li mise in condizione ed offrì loro la possibilità di degenerare. Essi non uccisero pazienti che avevano in cura. L’analisi del caso patologico particolare è necessaria, naturalmente, ma non sviscera il rapporto tra causa ed effetto, non sviscera la catena di motivi che rende possibili simili delitti» (pagine 13-14).

È quindi opportuno ed utile, anche per l’oggi, provare ad approfondire non solo le responsabilità, ma anche i presupposti e le ragioni dell’ampia partecipazione della classe medica e delle professioni sanitarie, che furono centrali sia nella predisposizione e promozione dei programmi eugenetici, sia nella realizzazione del programma di eutanasia e dello sterminio delle persone con disabilità.
Il comportamento e l’adesione al progetto da parte dei medici, secondo R.J. Lifton, evidenziano come la «partecipazione all’eccidio di massa non richiede necessariamente emozioni così estreme o demoniache quali sembrerebbero appropriate ad un progetto così malvagio. O, per esprimerci in un altro modo, persone normali possono commettere atti demoniaci» (Robert Jay Lifton, I medici nazisti, Milano, Rizzoli, 2016, p. 17).
La responsabilità di tali comportamenti, la cui dimensione individuale non può essere ignorata, è da far risalire, secondo Lifton, principalmente ai rapporti e alle reciproche e progressive influenze tra ideologia nazista e ideologia biomedica e dalle pressioni “psicologiche” che entrambe esercitavano sui singoli. La chiave di volta della sua lettura è individuata nel principio psicologico dello sdoppiamento, ossia la divisione del sé individuale in due parti funzionanti e autonome di cui una ebbe il sopravvento sull’altra (Lifton cit., p. 542). Tale lettura lo porta ad affermare che il personale medico e sanitario, nel compiere i propri crimini, era animato quasi esclusivamente da motivazioni ideologiche, sentendosi nel giusto, e le singole persone divennero assassini perseguendo rigorosamente la concezione biomedica nazista ed eseguendo il loro compito come un “imperativo terapeutico” (Lifton cit., p. 17).
Dal loro contributo attivo al genocidio i medici ricevevano oltre al beneficio psicologico derivante da questa giustificazione “terapeutica” degli omicidi, anche benefìci materiali, in termini di riconoscimenti, possibilità di studi e carriera, che contribuirono alla loro scelta di questa posizione.
Ciò che essi avevano ripudiato non era la realtà stessa e le atrocità commesse, bensì il loro significato e la loro interpretazione (Lifton cit., p. 546). Avevano, in altri termini, elevato una scelta individuale, suffragata da un’ideologia dominante e accompagnata da diversi “benefìci”, al rango di verità assoluta, assumendosi il compito “professionale” di metterla in pratica.

Anche secondo H. Friedlander il ruolo di medici e scienziati fu centrale. In un primo tempo i vertici nazisti usarono gli scienziati per legittimare la propria ideologia: «Medici e scienziati prestarono servizio per lo Stato in qualità di teorici e periti». Successivamente, dal 1939 in poi, quando si passò all’uccisione delle persone con disabilità, «i medici contribuirono a gestire l’operazione omicida, mentre gli scienziati non esitarono a trarre profitto dall’impresa. Fu così che scienziati e medici proposero, giustificarono e amministrarono le uccisioni. […] Il passaggio dalla teoria alla pratica, dalla perorazione della causa dell’eliminazione delle vite indegne di essere vissute, al concreto assassinio di esseri umani costituì, anche per i teorici, un passo gigantesco» (Henry Friedlander, Le origini del genocidio nazista: dall’eutanasia alla soluzione finale, Roma, Editori Riuniti, 1997, p. 300).
La presenza di diverse figure carismatiche ai vertici dell’operazione, inoltre, assolveva anche a un’altra funzione: nelle testimonianze rese al processo di Norimberga, infatti, molti giovani medici affermarono di avere accettato il coinvolgimento e di avere prestato il loro servizio, superando alcuni dubbi e resistenze iniziali, grazie alla consapevolezza che a capo dell’operazione vi erano stimati “medici e professori”.
Nel concludere la sua analisi, Friedlander apre una questione: i diversi elementi, scientifici, professionali, sociali e politici che contribuirono alla realizzazione dello sterminio delle persone con disabilità, sono di per sé sufficienti per spiegare l’adesione delle singole persone al programma stesso? Nel provare a dare una risposta si dissocia, però, da Lifton e dalla sua lettura dello sterminio come “assassinio medicalizzato”, che sembra relativizzare la responsabilità della classe medica. Il fatto che diversi medici, come si è visto, si dissociarono dal programma e che molti altri non accettarono di prendere direttamente parte alle uccisioni, dimostrerebbe che i singoli medici, qualunque fosse la loro posizione in merito alla purezza razziale e fisica, scelsero consapevolmente se uccidere o no, ben sapendo che si usciva dai confini della scienza medica.
Benché le motivazioni fossero le più svariate e differenti da caso a caso, sicuramente non solo di natura ideologica, nel momento in cui si sceglieva di uccidere, tutti erano consapevoli di essere semplici assassini; la qualifica professionale (medico, infermiere ecc.) non aveva alcuna importanza, ed era perfino superflua rispetto alle selezioni e, in molti casi, alla procedura di uccisione. Nessun medico fu obbligato direttamente, potevano dissociarsi e/o chiedere dispense dal servizio, ma «a quanto pare, questi giovani medici furono spinti ad agire dal profitto personale e da ambizioni professionali» (Friedlander cit., p. 314).
Questo tipo di analisi, che può essere estesa a tutto il personale coinvolto (infermieri, assistenti, personale amministrativo e ausiliario), tuttavia non sembra soddisfare completamente Friedlander, che conclude in modo molto rassegnato le sue riflessioni: «Dopo aver detto e fatto tutto il possibile, non siamo ancora in grado di cogliere le ragioni per le quali uomini e donne apparentemente normali furono in grado di commettere crimini così straordinari» (Friedlander cit., p. 278).

La specificità e al contempo la complessità dell’organizzazione dello sterminio delle persone con disabilità e delle implicazioni personali, professionali e sociali che lo accompagnarono, può essere letta anche attraverso l’analisi di un percorso “personale” ed “organizzativo” che si è sviluppato al suo interno e che appare particolarmente significativo.
Dalla lettura del rapporto inviato dal colonnello di cavalleria americano W.H. Kurtz ai suoi superiori, dopo la visita effettuata nel luglio del 1945, due mesi dopo la fine della guerra, alla clinica di Kaufbeuren, emerge la seguente situazione: «Un impianto adibito all’omicidio di massa ha continuato a funzionare fino ad oggi a meno di mezzo miglio dal reparto di controspionaggio del Governo militare e dal quartier generale della Polizia militare in questa idilliaca cittadina della Svevia e praticamente tutti gli abitanti erano consapevoli del fatto che gli esseri umani venivano usati come cavie e sistematicamente massacrati. Gli esecutori o i collaboratori coinvolti non erano in nessun modo consci dei propri crimini, essi erano tedeschi e non nazisti. Tra di loro vi erano suore cattoliche. La capo infermiera dopo aver spontaneamente confessato di aver assassinato per mezzo di iniezioni intramuscolari circa 210 bambini nel corso di due anni, ha chiesto semplicemente “mi accadrà qualcosa?” […]. Gli osservatori hanno trovato in un obitorio non raffreddato corpi maleodoranti di uomini e donne che erano morti dalle dodici ore ai tre giorni prima. Il loro peso era tra i ventisei e i trentatré chili. Tra i bambini ancora in vita vi era un ragazzo di dieci anni che pesava meno di dieci chili e le cui gambe avevano all’altezza del polpaccio un diametro di due pollici e mezzo. […] Il dottor Valentin Falthauser, alto consigliere medico, grado civile comparabile a quello di Colonnello, era direttore dell’ospedale sin dal 1919, dall’età di ventisei anni ed è stato arrestato. Il dottor Lothar Gartner, suo vice, dall’età di quarantatré anni in servizio presso l’istituto dal primo gennaio 1930, si è suicidato impiccandosi con il filo elettrico di una lampada da comodino. […] La capo infermiera del reparto infantile, sorella Porle, ha ammesso di aver avvelenato o ucciso, con iniezioni intramuscolari, almeno duecentoundici bambini, e di aver ricevuto per quest’attività un’indennità mensile di trentacinque marchi tedeschi. Anche la sorella Olga Rittler è stata arrestata: con un gelido ghigno stampato sul viso, ha ammesso di aver avvelenato almeno dalle trenta alle quaranta persone. Alla domanda se fosse cristiana e credente ha risposto sfrontata: sono Luterana e questa è una faccenda privata che non vi riguarda affatto. L’ultimo bambino è stato ucciso da Worle il 29 maggio 1945, trentatré giorni dopo che le truppe americane ebbero occupato Kaufbeuren. La cartella clinica di questo bambino di quattro anni, Richard Jenne, è allegata. La causa di morte ufficialmente dichiarata fu la polmonite. Dai registri la polmonite è risultata come la più frequente causa di morte» (Associazione Olokaustos, Progetto eutanasia: sterminate i disabili”, Venezia, D’Assain Editore, 2008, pp. 84-87).

Il dottor Falthauser era l’ideatore della dieta “senza grassi” promossa e adottata in diversi istituti per far morire d’inedia i pazienti. Il fatto che con la fine della guerra né il dottore, né il personale dell’ospedale si siano posti il problema di interrompere le proprie attività criminose impone alcune riflessioni. Pare che il mandato terapeutico di cui si faceva carico la clinica non fosse più collegato alle direttive “naziste”, ma che ormai fosse diventato “patrimonio terapeutico” dell’istituto che continuava a portarlo avanti con perizia professionale. Uccidere vite “non degne di essere vissute” era un compito di rilevanza sanitaria e sociale, l’essersi dotati di un metodo scientificamente validato ed efficace era la cornice deontologica entro cui le azioni dei singoli operatori trovavano senso e giustificazione. Neppure la vicinanza delle sedi dei comandi americani scalfì queste convinzioni, che non s’incrinarono fino a quando non vi furono i primi arresti e le attività furono interrotte.
Quel che inquieta è l’apparente mancanza di una qualsiasi forma di pensiero ad accompagnare le diverse persone nella loro attività. Persone che alla fine del proprio turno di lavoro tornavano a casa, erano consapevoli della fine della guerra, della sconfitta della Germania, degli arresti e della chiusura di diversi istituti (almeno il personale medico dirigente che non poteva non esserne informato), eppure continuarono a portare avanti il proprio mandato con perizia e metodo, quasi a voler negare la realtà e a voler mantenere intatto il proprio spazio di “diabolica normalità”. Non vi erano più direttive, obblighi e/o costrizioni che imponevano lo svolgimento di un compito criminoso. Interrompere le proprie attività, probabilmente, avrebbe significato doversi soffermare per pensare a quel che si stava facendo e che si era fatto, confrontarsi con la propria coscienza e ammetterne l’intrinseca malvagità, il “non pensarci” era, come ben descrive Hannah Arendt, l’ulteriore prova della “normalità” di questi assassini, prova della «possibilità, sempre latente in ciascuno di noi, di mancare l’appuntamento con sé stessi. Il problema che ci interessava qui non era la malvagità, […] ma il chiunque non malvagio che nel suo comportamento non è mosso da ragioni particolari e proprio per questo è capace di male infinito. Al contrario del grande malvagio costui non si presenta mai all’appuntamento notturno con sé stesso» (Hannah Arendt, responsabilità e giudizio, Torino, Einaudi, 2004, p. 162).

Mitscherlich, a distanza di oltre un decennio dalla fine del processo, nell’introduzione alla seconda edizione del suo lavoro nel 1960, esprimeva il preoccupante sentore che ancora non fosse stato colto l’insegnamento e il monito legato a tali crimini, che non potevano essere semplicemente relegati in un passato ormai superato e chiuso: «Questa documentazione non riguarda storia morta, ma avvenimenti verificatisi nei nostri tempi. […] E perciò non basta aver paura che certe cose possano ripetersi; bisogna anche capire che quelle cose sono state fatte da uomini che, quando vennero al mondo, non erano mostri, ma spesso in maniera del tutto normale, grazie a doti normali, arrivarono a farsi un’istruzione e ad occupare posti importanti nella società, prima di narcotizzare e paralizzare le facoltà umane che avevano acquisito e di risprofondare nelle bassezze degli istinti bestiali distruttivi. […] Alla base di queste azioni c’è tutta una gamma di atteggiamenti che vanno dalla perversione congenita e dalle peggiori forme di degenerazione alla tolleranza servile, quella forma minore di disumanità che da un lato è caratterizzata dall’egoismo dell’istinto di conservazione e dalla vile sopravvalutazione di superiori, e dall’altro da una capacità enorme, che sconfina nel virtuosismo, di tacitare la voce della coscienza» (A. Mitscherlich e F. Mielke, Medicina disumana cit., p. 6).
L’avere riconosciuto la preoccupante attualità di alcuni degli aspetti più “comuni” e “normali” degli atteggiamenti e dei comportamenti che furono sfondo e, soprattutto, presupposto del “Programma eutanasia”, rappresentava per Mitscherlich un potenziale pericolo di riproposta, magari in modi e forme diversi, di tali crimini e violenze.

Alle sue considerazioni facevano eco quelle dell’altra componente della Commissione degli Osservatori, la psichiatra Alice Ricciardi von Platen (autrice di Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente, Firenze, Le Lettere, 2000), che nel corso di un intervento tenuto parecchi anni dopo, nel 1995, evidenziava con preoccupazione come «di fronte agli enormi costi del sistema sanitario, i valori economici balzano nuovamente e pericolosamente (poiché spesso espressi senza alcuna ponderazione) in primo piano», interrogandosi così: «L’uomo comune o il professionista saprà opporsi e/o protestare se si trovasse di nuovo di fronte alle pretese umanamente inaccettabili di uno stato suffragate dal mondo scientifico?” (in Follia e pulizia etnica in Alto Adige, a cura di V. Perwanger e G. Vallazza, Atti del Convegno di Bolzano del 10/03/1995, “Collana Fogli di Informazione”, n. 20, Centro di Documentazione di Pistoia Editrice, 1998).

Le considerazioni di Alexander Mitscherlich e di Alice Ricciardi von Platen mantengono aperti alcuni interrogativi e intatta tutta la loro preoccupante attualità, soprattutto in relazione al perdurare della tendenza a presentare la vita e il rispetto dei diritti delle persone con disabilità, con disturbi psichici, anziane, quasi esclusivamente in termini di costi per la società (con tutti i rischi che questo comporta, soprattutto in periodi di crisi economica e/o nel corso di emergenze) e portano in primo piano la necessità di continuare a studiare, a ricordare questi tragici fatti, per riconoscere, prevenire e contrastare il rischio del riemergere di logiche discriminatorie e delle loro pericolose ricadute umane, sociali e politiche.

Sull’Olocausto delle persone con disabilità durante il regime nazista e la seconda guerra mondiale e sul programma Aktion T4, suggeriamo senz’altro la lettura sulle nostre pagine dell’approfondimento di Stefania Delendati intitolato Quel primo Olocausto (a questo link).

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La Giornata Internazionale dell’Educazione, l’intelligenza artificiale e la disabilità

Oggi, 24 gennaio, è la Giornata Internazionale dell’Educazione, dedicata all’intelligenza artificiale. «L’intelligenza artificiale – ha scritto sulle nostre pagine Roberto Scano – può essere utile solo se è accessibile», e questo è per noi un punto fermo. In una Giornata Internazionale dell’Educazione, tuttavia, non si può non ricordare quanti Stati del mondo abbiano tuttora mancato di applicare quanto prescritto dalla Convenzione ONU sui Diritti per le Persone con Disabilità anche in tema di istruzione Una realizzazione grafica dell’UNESCO dedicata all’intelligenza artificiale quale tema della Giornata Internazionale dell’Educazione 2025 (©UNESCO/Weiwei KANG)

Oggi, 24 gennaio, si celebra la Giornata Internazionale dell’Educazione, istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2018, per riconoscere l’educazione come diritto umano fondamentale e leva indispensabile per lo sviluppo sostenibile. Un evento in cui invitare governi, organizzazioni e cittadini a riflettere sull’importanza dell’istruzione nell’affrontare sfide globali come la povertà, l’uguaglianza e il cambiamento climatico.
Quest’anno, la direttrice generale dell’UNESCO Audrey Azoulay ha deciso di dedicare la Giornata alle opportunità e alle sfide dell’intelligenza artificiale. «L’intelligenza artificiale – ha dichiarato -offre grandi opportunità per l’istruzione, a condizione che il suo impiego nelle scuole sia guidato da chiari princìpi etici. Per raggiungere infatti il suo pieno potenziale, questa tecnologia deve integrare le dimensioni umane e sociali dell’apprendimento, piuttosto che sostituirle. Deve diventare uno strumento al servizio di insegnanti e alunni, con l’obiettivo principale della loro autonomia e del loro benessere».

Negli ultimi anni ci siamo occupati spesso, sulle pagine di Superando, dell’intelligenza artificiale in riferimento alla disabilità e in tal senso, il nostro punto fermo restano le parole di Roberto Scano, un’autorità a livello internazionale sui temi dell’accessibilità informatica, che in un articolo da noi pubblicato nel 2023 (L’intelligenza artificiale è utile se è accessibile) ha scritto: «Per definizione l’intelligenza artificiale è l’abilità di una macchina di mostrare capacità umane quali il ragionamento, l’apprendimento, la pianificazione e la creatività. Alcuni tipi di intelligenza artificiale esistono da più di cinquant’anni, ma i progressi nella potenza dei computer, la disponibilità di enormi quantità di dati e lo sviluppo di nuovi algoritmi hanno portato a grandi balzi in avanti nella tecnologia negli ultimi anni. E tuttavia l’intelligenza artificiale può essere utile solo se è accessibile».

Nello specifico dell’istruzione, poi, è utile fare riferimento alla guida A disability-inclusive Artificial Intelligence Act (AI Act): A guide to monitor implementation in your country (“Direttiva sull’intelligenza artificiale che includa la disabilità: una guida per monitorare l’attuazione nel tuo Paese”), lanciata nell’ottobre dello scorso anno dall’EDF, il Forum Europeo sulla Disabilità (disponibile in inglese a questo link), che analizza appunto le sezioni della Direttiva Europea sull’intelligenza artificiale più rilevanti per i diritti delle persone con disabilità, offrendo consigli pratici per la difesa e l’impegno nello sviluppo delle politiche nazionali sull’intelligenza artificiale.
In essa si sottolinea tra l’altro, e con estrema chiarezza, come «alcune applicazioni di intelligenza artificiale nell’istruzione siano considerate ad alto rischio perché possono avere un impatto significativo sul futuro degli studenti e possono perpetuare pregiudizi o invadere la privacy».
A tal proposito, la Raccomandazione presente nella medesima guida pone «la richiesta di linee guida sull’uso sicuro ed etico dell’intelligenza artificiale nell’istruzione, per garantire che le esigenze delle persone con disabilità siano incluse negli sforzi nazionali per l’uso dell’intelligenza artificiale stessa nell’istruzione».

Grandi opportunità, dunque, ma anche possibili rischi non certo trascurabili, come ha scritto pochi giorni fa sulle nostre pagine Anna Maria Gioria, a partire dalla seguente riflessione: «L’intelligenza artificiale può realmente aiutare a creare un mondo più inclusivo? La risposta è alquanto complessa».

Come concludere, dunque, queste brevi considerazioni? Ricordando che al di là delle stesse opportunità e dei rischi connessi all’applicazione dell’intelligenza artificiale in modo inclusivo o meno, quando si parla di una Giornata Internazionale dell’Educazione, come quella di oggi, non si può non ricordare l’articolo 24 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, Convenzione che – almeno in teoria – è Legge in più di 190 Stati (in Italia lo è dal 2009).
Ebbene, quell’articolo inizia così: «Gli Stati riconoscono il diritto all’istruzione delle persone con disabilità. Allo scopo di realizzare tale diritto senza discriminazioni e su base di pari opportunità, gli Stati Parti garantiscono un sistema di istruzione inclusivo a tutti i livelli ed un apprendimento continuo lungo tutto l’arco della vita». In quanti di quegli oltre 190 Stati che hanno ratificato la Convenzione succede effettivamente questo? E le criticità sul piano dell’istruzione non mancano nemmeno in Paesi come il nostro che ormai da decenni hanno intrapreso la strada della “scuola di tutti per tutti”.

Bene, dunque, centrare l’attenzione sull’intelligenza artificiale, ricordando sempre le parole di Scano, che essa cioè è utile solo se accessibile, senza però mai dimenticare che ben 19 anni dopo l’approvazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, «quel sistema di istruzione inclusivo a tutti i livelli» e «quell’apprendimento continuo lungo tutto l’arco della vita» sono risultati ancora assai lontani dall’essere raggiunti in molte parti del mondo. (Stefano Borgato)

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Un corso di difesa personale per le donne caregiver

L’ASP Sant’Alessio Margherita di Savoia di Roma, storica istituzione che realizza attività volte all’autonomia e all’inclusione sociale dei ciechi e degli ipovedenti in tutta la Regione Lazio, organizza un “Open Day” gratuito, dedicato alla difesa personale delle donne caregiver, per il prossimo 1° febbraio

«Potersi difendere è un diritto di tutti, non un privilegio di pochi!»: l’ASP Sant’Alessio Margherita di Savoia di Roma, storica istituzione che realizza attività volte all’autonomia e all’inclusione sociale dei ciechi e degli ipovedenti in tutta la Regione Lazio, organizza un Open Day gratuito, dedicato alla difesa personale delle donne caregiver, per il prossimo sabato 1° febbraio (ore 10-13).
Il Krav Maga, oggetto dell’Open Day, è un sistema di combattimento per la difesa personale e con Daniele Stazi, presidente dell’Associazione My Self Accademy, verranno tracciate le basi di un percorso che darà strumenti concreti alle donne per riconoscere e prevenire, attraverso questa disciplina, potenziali situazioni di rischio o aggressione.
Il corso è a numero chiuso, per un massimo di 30 partecipanti. La prenotazione è obbligatoria. (C.C.)

Per informazioni e prenotazioni: servizisportivi@santalessio.org.

 

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Giorno della Memoria: mai dimenticare, ma anche agire per una società che non lasci indietro nessuno

«Il Giorno della Memoria del 27 gennaio – scrivono dall’Associazione sammarinese Attiva-Mente – ci ricorda che non possiamo permettere che le lezioni del passato vengano dimenticate, ma è anche giunto il tempo di mettere da parte la retorica e agire per creare una società che davvero non lasci nessuno indietro. E rispetto alle persone con disabilità di riconoscerle concretamente come cittadini attivi, con diritti e potenzialità da esprimere pienamente» Il memoriale dell’Olocausto delle persone con disabilità, denominato “Gegenueber” (“di fronte”), inaugurato il 2 settembre 2014, nella Tiergartenstrasse di Berlino

La storia ci insegna che quando le persone con disabilità vengono considerate un onere, si rischia di intraprendere percorsi pericolosi. Il programma Aktion T4, avviato nella Germania nazista, mirava all’eliminazione sistematica di individui con disabilità, considerati “inutili alla società”.
Come noto, questo programma, mascherato da iniziativa sanitaria, pose le basi per atrocità ben più ampie. La logica era crudele e distorta: ridurre i costi eliminando chi veniva ritenuto non produttivo, negando così la dignità umana.

La disabilità non è una condanna, ma una condizione di vita che la società deve saper accogliere e valorizzare. Troppo spesso, ancora oggi, le persone con disabilità vengono percepite come un peso economico e sociale, alimentando discriminazioni che limitano il loro accesso a opportunità e diritti fondamentali.
Sebbene le condizioni economiche e sociali siano diverse da allora, questa percezione errata, se non contrastata, rischia di aprire nuovamente la strada a pratiche disumanizzanti.
Basti ricordare la recente pandemia da Covid, durante la quale le persone con disabilità sono state spesso tra le prime a subire le conseguenze più gravi, a conferma di quanto la società le consideri ancora marginali e meno prioritarie.

Il Giorno della Memoria del 27 gennaio, tuttavia, offre lo spunto per un’ulteriore riflessione sugli approcci contemporanei, abilisti e oppressivi, che, sebbene oggi non siano espliciti, si manifestano in forme subdole e insidiose.
Quando un sistema discrimina costantemente le persone con disabilità, negando loro il pari accesso alla sanità, all’istruzione, al lavoro, al tempo libero e all’autonomia, rischia di portare inevitabilmente alcuni a percepire la morte come unica via d’uscita. In queste condizioni, le decisioni personali di porre fine alla propria vita non possono essere considerate libere scelte, ma piuttosto il risultato indotto da un contesto sociale e politico che nega sistematicamente diritti e opportunità. E guarda caso, proprio laddove tali sistemi prosperano, sembra un tabù parlare di leggi sul fine vita rispettose della dignità della persona.
Proclami e demagogia a fiumi, ma all’atto pratico si fa poco o nulla, per garantire alle persone con disabilità il diritto all’autodeterminazione e a una vita degna di essere vissuta.

Quando le persone fragili vengono percepite come un costo, tanto più in una società sempre orientata a investire in favore dei più abbienti e potenti, la società stessa tende a ridurre, nell’indifferenza generale, il loro accesso a cure, istruzione e servizi essenziali, incrementando l’emarginazione e la discriminazione.
Per costruire una comunità che si definisca veramente civile e inclusiva, è necessario cambiare prospettiva: le persone con disabilità devono essere riconosciute come cittadini attivi, con diritti e potenzialità da esprimere pienamente. Solo investendo in politiche di sostegno coerenti possiamo garantire una qualità della vita dignitosa per tutti.

Il Giorno della Memoria ci ricorda dunque che non possiamo permettere che le lezioni del passato vengano dimenticate, ma è anche giunto il tempo di mettere da parte la retorica e agire per creare una società che davvero non lasci nessuno indietro.

*Attiva-Mente è un’Associazione della Repubblica di San Marino (contatto@attiva-mente.info).

Sull’Olocausto delle persone con disabilità durante il regime nazista e la seconda guerra mondiale e sul programma Aktion T4, suggeriamo senz’altro la lettura sulle nostre pagine dell’approfondimento di Stefania Delendati intitolato Quel primo Olocausto (a questo link).

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Sardegna: chiediamo tariffe agevolate per chi accompagna le persone con disabilità

Fare il punto della situazione e capire come muoversi su questioni fondamentali come progetto di vita e autonomia personale, lavoro, mobilità e accessibilità. In Sardegna, gli “Stati Generali Sulla Disabilità”, promossi dalla Federazione FISH Regionale, hanno rappresentato un’importante opportunità per discutere e promuovere iniziative volte a migliorare la qualità della vita delle persone con disabilità
Un momento degli “Stati Generali sulla Disabilità in Sardegna”

Fare il punto della situazione e capire come muoversi su questioni fondamentali, quali il progetto di vita e autonomia personale, lavoro, mobilità e accessibilità: in Sardegna, gli Stati Generali Sulla Disabilità promossi dalla FISH Regionale (già Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap, oggi Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie) nello scorso mese di novembre a Cagliari, sono stati essenziali per fare emergere criticità, darsi degli obiettivi specifici da perseguire in questi mesi e avanzare richieste precise alle Istituzioni regionali, presenti al dibattito.
L’evento ha rappresentato pertanto un’importante opportunità per discutere e promuovere iniziative volte a migliorare la qualità della vita delle persone con disabilità.

Pierangelo Cappai, presidente di FISH Sardegna, ai microfoni di Radio FISH, ha raccontato tra l’altro: «Essendo un’isola, la Sardegna ha grossi problemi di trasporti con il resto dell’Italia e una criticità molto importante, emersa durante gli Stati Generali, ha riguardato le tariffe in continuità territoriale. Spesso le persone con disabilità hanno necessità di un accompagnatore e quindi devono farsi carico per qualsiasi spostamento di due quote anziché una. Chiediamo quindi che si intervenga, garantendo alle persone che necessitano dell’accompagnatore almeno una gratuità».

«Un’altra criticità – ha sottolineato ancora Cappai – è sul budget previsto per ogni singolo progetto personalizzato: in Sardegna è fermo da oltre dieci anni e quindi occorre quanto prima adeguarlo appunto ai costi attuali. E da ultimo, ma non ultimo, c’è un’importantissima Legge Regionale riguardante le persone autistiche [Legge Regionale 14/22, N.d.R.], approvata nel 2022: una Legge molto bella, che però ad oggi non ha trovato ancora applicazione». (C.C.)

L’intervista integrale a Pierangelo Cappai, episodio 68 del podcast di Radio FISH, è disponibile a questo link.

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Oltre la diagnosi: supporto e solidarietà a chi ha una malattia metabolica ereditaria

Sostegno psicologico per le persone con malattie metaboliche ereditarie e i loro familiari all’interno e all’esterno della struttura ospedaliera, e attività con i bimbi in corsia e con i pazienti adulti, i bambini e le famiglie sul territorio, grazie all’aiuto di volontari: sono le azioni previste dal nuovo progetto denominato “Oltre la diagnosi: supporto e solidarietà MME”, promosso dall’AISMME (Associazione Italiana Sostegno Malattie Metaboliche Ereditarie)

Sostegno psicologico per le persone con malattie metaboliche ereditarie e i loro familiari all’interno e all’esterno della struttura ospedaliera, e attività con i bimbi in corsia e con i pazienti adulti, i bambini e le famiglie sul territorio, grazie all’aiuto di volontari: sono le azioni previste dal nuovo progetto Oltre la diagnosi: supporto e solidarietà MME, promosso dall’AISMME (Associazione Italiana Sostegno Malattie Metaboliche Ereditarie), che grazie al cofinanziamento della Regione Veneto, permetterà di dare continuità e potenziare fino alla fine del 2025 l’assistenza, già disponibile per i pazienti pediatrici, agli adulti con malattia metabolica ereditaria e ai loro familiari e caregiver, seguiti dal Centro Regionale di Cura e Screening delle Malattie Metaboliche Ereditarie dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona, struttura che l’AISMME sostiene sin dal 2012.

«Il progetto Oltre la Diagnosi – spiegano dall’AISMME – nasce per rispondere a una crescente domanda di supporto psicologico per le persone con malattia metabolica ereditaria, una necessità particolarmente sentita in ospedale e difficile da sostenere a livello privato». «Negli ultimi anni – sottolinea infatti Manuela Vaccarotto, vicepresidente dell’Associazione – abbiamo ricevuto molte richieste di aiuto specifico, sia da pazienti sia dai loro familiari, di un sostegno psicologico. Si tratta di un servizio che all’interno degli ospedali non è sempre disponibile e che a livello privato risulta molto costoso. Dal 2020 offriamo assistenza psicologica gratuita all’esterno dell’ospedale, un servizio che ha già raggiunto circa 150 pazienti e familiari, che lo hanno molto apprezzato. Con questo nuovo progetto, non solo proseguiremo l’assistenza, ma introdurremo una psicologa all’interno della struttura ospedaliera, per essere ancora più presenti in un momento così delicato come la comunicazione della diagnosi».

«Una diagnosi di malattia metabolica ereditaria – proseguono dall’AISMME – può rivoluzionare la vita del paziente e della sua famiglia, causando spesso sensazioni di smarrimento e isolamento, particolarmente acute nelle malattie rare. La presenza di uno psicologo in ospedale è fondamentale per accompagnare il paziente a livello emotivo e promuovere un adattamento psicosociale che favorisca la qualità della vita e l’aderenza ai trattamenti medici. Successivamente, poi, la patologia può portare a una sensazione di smarrimento e di isolamento data anche dal fatto che molte malattie metaboliche ereditarie sono patologie rare con pochi pazienti».
«Il supporto psicologico – ricorda Vaccarotto – consente di affrontare l’angoscia e la tristezza durante il percorso ospedaliero e nella vita quotidiana ed è importante anche per l’efficacia della terapia. La gestione della crisi emotiva successiva a una diagnosi inaspettata influenza infatti l’adattamento psicosociale alla malattia, fondamentale per la qualità della vita e per la compliance [adesione] ai trattamenti medici. Non solo. Lo psicologo offre ascolto, empatia e supporto per tutta la durata della vita, evitando che il paziente sprofondi nell’angoscia e nella tristezza durante il percorso ospedaliero e al di fuori, nella sua quotidianità».

Come ricordato prima dalla Vicepresidente dell’AISMME, molto importanti, per aiutare le famiglie e i pazienti a evitare il senso di abbandono dopo la dimissione dall’ospedale, sono le attività di sostegno psicologico fornite dall’Associazione anche al di fuori della struttura ospedaliera, avviate, gratuitamente, dal 2020, sia in presenza che online.

Un ulteriore obiettivo chiave del progetto è poi quello di non lasciare sole le famiglie e i pazienti adulti nel loro quotidiano, coinvolgendoli in varie attività e per fare questo l’AISMME si avvale del supporto di volontari formati, essi stessi pazienti o familiari di pazienti.
Tra le attività proposte, vi sono letture per bambini negli ambulatori e nelle sale d’attesa, mentre al di fuori dell’ospedale una volontaria, paziente adulta ed educatrice, è attiva in progetti legati allo sport, promuove l’attività fisica, spesso trascurata ma importante nella gestione della malattia e un altro volontario organizza attività sportive e ludiche, come la Color Run, coinvolgendo famiglie e pazienti adulti per promuovere l’attività fisica e la socializzazione; un’altra volontaria, infine, madre di una piccola paziente, fornisce informazioni su aspetti legati alla malattia, ai diritti esigibili e alle procedure burocratiche, organizzando incontri di gruppo rivolti ai genitori. (S.B.)

Per ulteriori informazioni: info@aismme.org.

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La “Crocifissione bianca” di Chagall accessibile anche al pubblico con disabilità visive e uditive

Esposta fino al 27 gennaio al Museo del Corso – Polo Museale di Roma, la “Crocifissione bianca” di Marc Chagall è accessibile anche al pubblico con disabilità visive e uditive, grazie all’installazione tattile, parlante e in lingua dei segni, frutto di un lavoro interdisciplinare di diversi mesi, presente accanto all’originale. La riproduzione verrà poi donata in aprile a Papa Francesco, 28 aprile prossimo, in occasione del “Giubileo delle Persone con Disabilità” La riproduzione accessibile della “Crocifissione bianca” di Chagall

Esposta fino al 27 gennaio al Museo del Corso – Polo Museale di Roma (Palazzo Cipolla, Via del Corso, 320, ingresso gratuito), la Crocifissione bianca di Marc Chagall è accessibile anche al pubblico con disabilità visive e uditive. Accanto infatti all’originale, è presente, in tale sede espositiva, un’installazione tattile, parlante e in lingua dei segni, frutto di un lavoro interdisciplinare di diversi mesi.

L’iniziativa è stata voluta dalla Fondazione Roma ed è stata presentata nei giorni scorsi durante un incontro aperto dai saluti istituzionali di Franco Parasassi, presidente della Fondazione stessa, e una lettera di saluto di Alessandra Locatelli, ministra per le Disabilità, con gli interventi di don Alessio Geretti, curatore degli eventi d’arte del Giubileo; suor Veronica Donatello, responsabile del Servizio Nazionale per la Pastorale delle Persone con Disabilità della CEI (Conferenza Episcopale Italiana) e Consultore del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede; Dino Angelaccio e Odette Mbuyi, progettisti; Gabriella Cetorelli del Ministero della Cultura (Accessibilità dei Siti Unesco); Camilla Capitani del MAC (Movimento Apostolico Ciechi); Miriam Mandosi dell’ENS (Ente Nazionale Sordi).

Il 28 aprile prossimo, in occasione del Giubileo delle Persone con Disabilità, la riproduzione dell’opera sarà donata a Papa Francesco, dal gruppo interdisciplinare che l’ha realizzata, come simbolo dell’impegno per un’arte senza barriere. (S.B.)

A questo link è disponibile un testo di ulteriore, ampio approfondimento sull’iniziativa. Per altre informazioni: Michela Rossetti (info@gdgpress.com).

 

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Consigli pratici per essere più veloci e fluidi con il Braille

Un Gruppo di Lavoro dell’EBU, l’Unione Europea dei Ciechi, ha recentemente elaborato un documento dedicato alla fluidità e alla velocità nell’utilizzo del sistema di letto-scrittura Braille, fattori ritenuti fondamentali per l’alfabetizzazione delle persone con disabilità visive, con un impatto diretto sui loro risultati accademici, sulle opportunità di lavoro e sulla qualità della loro vita

La fluidità nell’utilizzo del metodo di letto-scrittura Braille è fondamentale per l’alfabetizzazione delle persone con disabilità visive, con un impatto diretto sui loro risultati accademici, sulle opportunità di lavoro e sulla qualità della loro vita.
Vi è un Gruppo di Lavoro dell’EBU, l’Unione Europea dei Ciechi, che si occupa proprio di velocità di lettura e di fluidità nell’utilizzo del Braille e che ha recentemente elaborato il documento dal titolo Braille Fluency in Individuals with Visual Impairments: An Integrated Analysis of Cognitive Processes, Educational Strategies, and Technological Interventions, ossia, letteralmente “La fluidità nel Braille per le persone con disabilità visive: un’analisi integrata dei processi cognitivi, strategie educative e interventi tecnologici” (è disponibile integralmente in inglese a questo link e si può attuarne una traduzione in italiano letterale, anche se ovviamente non ufficiale, tramite Deepl, a quest’altro link).

Il testo sintetizza le ricerche esistenti sui processi cognitivi coinvolti nella lettura del Braille, i fattori che influenzano la fluidità e le strategie educative e tecnologiche progettate per migliorare l’alfabetizzazione in Braille. Si tratta di un breve saggio che, passando in rassegna i risultati di vari studi, mira a fornire una comprensione complessiva di come ottimizzare la fluidità nel Braille per i diversi apprendenti. L’analisi si conclude con una serie di raccomandazioni per future ricerche e pratiche educative per supportare i lettori di Braille.

Le implicazioni di questi risultati per educatori, politici e ricercatori evidenziano la necessità di continuare a investire nell’alfabetizzazione in Braille, per garantire un accesso equo all’informazione e all’educazione.
Da segnalare che, per quanti cerchino principalmente consigli pratici per migliorare la velocità di lettura Braille, la Sezione 6 del documento (Consigli pratici per migliorare la velocità di lettura Braille) consolida le strategie chiave adattate ai lettori di tutti i livelli di abilità. (C.C. e S.B.)

Per maggiori informazioni: Nacho Lopez (nacho.lopez@euroblind.org).

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Mara, donna “effervescente naturale”, cui la sclerosi multipla ha “cambiato lo sguardo”

Fisioterapista, donna espansiva, con una vivacità “effervescente naturale” e una mente libera e aperta, Mara Violani ha avuto alcuni anni fa una diagnosi di sclerosi multipla. «Dopo la scoperta della malattia – racconta – mi è cambiato “l’occhio”, cioè lo sguardo sulle cose, sugli altri, su me stessa». Andiamo a conoscerla meglio Mara Violani

Oggi mi accingo a presentarvi Mara Violani, fisioterapista di Bergamo, donna espansiva, con una vivacità all’ennesima potenza, con una mente libera e aperta, affetta da sclerosi multipla.
Ho avuto modo di ascoltarla in un’intervista fattale dall’amico Marco Farina, all’interno del suo canale YouTube, e subito l’ho sentita familiare, come se ci conoscessimo da tempo, perché Mara ha una comunicabilità coinvolgente e avvolgente. Decido così di proporle un’intervista telefonica, una bella chiacchierata disinvolta, com’è lei, perché sono convinta che la sua testimonianza di vita possa veramente essere un “balsamo” per molti di noi.
Cara Mara, grazie per avere accolto la mia proposta di farti intervistare senza avermi mai conosciuta, quindi grazie anche per la fiducia.

Come ti descriveresti, Mara? Fammi un tuo profilo.
«Mi definisco fondamentalmente come una persona frizzante, una persona quindi che non passa inosservata, proprio come energia. Poi a partire dal 2024, da quando ho voluto iniziare a diffondere il mio messaggio di speranza, di fiducia nella medicina, nella ricerca, mi sento ancora più energica di quanto non fossi in precedenza.
Per assurdo il modo in cui io racconto me stessa con l’obiettivo chiaro e definito di volere arrivare a portare un po’ di luce, speranza, positività, mi ricarica di energia. Poiché più mi racconto, più condivido, più mi ricarico.
Sono una donna molto amante dello sport, del padel in modo particolare, sono appassionata di mostre, di eventi artistici, concerti, sono una persona sanamente curiosa e soprattutto amante della propria libertà. Dal punto di vista professionale sono un’operatrice sanitaria, svolgo la mia attività come fisioterapista dal 1995 all’interno di una struttura convenzionata con il Servizio Sanitario Nazionale».

Quando è arrivata la diagnosi di sclerosi multipla?
«Nel 2018. Mi è stata diagnosticata nella struttura in cui io lavoro, grazie ad una risonanza magnetica. Chiaramente è qualcosa che non mi aspettavo, perché io avevo altri progetti, altri sogni… Oggi posso dire, paradossalmente, che quella diagnosi è stata in un certo senso la mia “fortuna”».

Quali erano i tuoi desideri, i tuoi sogni, fino al momento della diagnosi?
«A me interessava fare bene il mio lavoro, il mio sport, niente di particolare. I miei interessi per l’arte, la cultura, li ho sempre avuti. Posso dire che dopo la scoperta della malattia mi è cambiato “l’occhio”, cioè lo sguardo sulle cose, sugli altri, su me stessa. Oggi, rispetto a sette anni fa, sono più incline ad ascoltarmi e ad ascoltare gli altri. Dovendo poi passare dall’altra parte della barricata, come paziente, è cambiato parecchio il mio punto di vista, ma soprattutto è cambiata la mia qualità di vita».

In che modo, esattamente, è cambiata la tua qualità di vita?
«Beh, prima ero molto presa dal lavoro, sempre di corsa, tentando di fare e dare il massimo. Adesso la prospettiva è cambiata, sono più attenta a me stessa, al mio benessere e anche alle modalità di trascorrere il tempo libero, come serate e aperitivi… Ho smesso di fumare, oltreché di correre freneticamente…».

Ma qual è stato il tuo primo pensiero dopo avere ricevuto la diagnosi?
«Nel periodo precedente alla diagnosi facevo pole dance (“ginnastica sul palo”), che è proprio una disciplina sportiva, e in questa c’è una figura che si chiama butterfly, in cui si sta a testa in giù. Ecco, nel momento in cui mi è stata restituita la diagnosi di sclerosi multipla, è come se mi avessero ribaltato a testa in giù. Una metafora forte, efficace e immediata nel descrivere quel che si prova. Se in quel momento avessi trovato qualcuno che mi avesse parlato come io ora parlo a me stessa, cioè con pacatezza, contenimento, con parole semplici e non tecniche, dicendomi che avrei potuto andare avanti nella vita, che non mi era precluso nulla e che avrei dovuto semplicemente seguire le direttive dei medici, beh, forse sarebbe stato meno difficile digerire quel boccone. Io sto bene, va tutto bene, ma non nego che in quel momento l’idea della carrozzina mi ha preoccupata.
Ringraziando Dio, mi muovo bene, faccio tutti i giorni attività sportiva, fra palestra e padel, e più faccio attività, più sento di star bene. Per me non è solo un discorso di allenamento fisico e della coordinazione, ma è proprio uno spazio di tempo che dedico a me, stando anche con persone con cui mi sento a mio agio. Io mi sento felice quando gioco e soprattutto quando posso fare ciò che desidero».

L’essere una fisioterapista che ricaduta ha avuto sulla tua malattia, sul tuo stato di preoccupazione e su quello di reattività?
«Mi piace questa domanda perché nessuno me l’ha mai fatta ed è un importante spunto di riflessione. Io non mi sono mai fatta prendere dal panico, ma da uno stato un po’ di confusione, sì. Conoscevo la sclerosi multipla, proprio per gli studi che avevo effettuato, quando era vista come un limite e richiedeva tanto riposo. Nella settimana in cui sono stata ricoverata, prima della diagnosi definitiva, nella mia testa è passato di tutto. La possibile perdita di libertà, di non poter fare ciò che volevo, mi ha molto turbata. Si tratta di una malattia molto imprevedibile e nel momento in cui te la senti dire, come operatore sanitaria, è veramente dura.
Poi, quando sono stata dimessa mi sentivo più serena perché in qualche modo mi ero tolta un peso: mi era stata data una diagnosi. I neurologi, però, mi hanno confermato che la medicina aveva fatto progressi, che il farmaco che mi stavano dando era di ultima generazione e che, cosa più bella e importante, avrei potuto fare tutto quello che avessi voluto. Certamente erano previsti controlli, all’inizio ogni tre mesi, poi a cadenza semestrale, e così, pian piano, mi si è aperto un mondo di positività. Ma già dopo avere parlato con il neurologo, prima della dimissione, ero serena.
Il giorno dopo essere uscita dall’ospedale ero a fare spinning e mentre pedalavo mi dicevo: “Ce la posso fare, la vita va avanti! Penso a quel che mi è rimasto e non a ciò che mi è stato tolto, perché in realtà non mi è stato tolto nulla”».

Quindi questa diagnosi non ti ha sottratto quel che era la tua indole, il tuo modo di affrontare la vita?
«Per assurdo, e lo sottolineo, mi ha liberata. Cioè ancora di più mi godo quello che la vita mi dà tutti i giorni. Precedentemente le cose belle che avevo intorno, presa com’ero dal correre, non ero in grado di assaporarle. Adesso riesco a percepire e a vivere la vita come un dono proprio giorno per giorno, momento per momento. E a mio parere, se non avessi passato il percorso della diagnosi, del dover star ferma a riflettere, non sarei riuscita a maturare questa visione della vita che ora mi accompagna.
Medici validi ce ne sono, io li ho trovati, questo è molto importante per tranquillizzarsi e vivere la quotidianità sentendosi accompagnati. Quando vado ai controlli mi porto la lista delle domande, così sono sicura che se ho dubbi posso subito togliermeli e non resto con ansie e ruminazioni. I medici sono super pazienti e rispondono alle mie domande, anche questa è terapia, in un certo senso.
Una cosa assai bella e importante è che in seguito a questa diagnosi ho ritrovato tre amiche che lavorano con me e che ci tengo moltissimo a ringraziare, che io ho ribattezzato come le “tre grazie”, Paola, Carla e Daniela».

Pensi che dovrai rinunciare a qualcosa a causa di questa malattia?
«Grazie anche per questa domanda che mi dà lo spunto per raccontarti dell’incontro con una dottoressa non proprio positiva, diciamo. Questa persona mi disse se io fossi consapevole che non esistevano cure per guarire da questa malattia, e che nel tempo avrei potuto anche peggiorare. Io so che per ora non esiste una cura per guarire, ma so anche che la ricerca va avanti e poi pensare di poter peggiorare non può essere un pensiero idoneo con cui convivere e precludermi le possibilità di vita che ora ho davanti. Non voglio pormi limiti: se mi sento di poter fare qualcosa, voglio farlo. Tutto può succedere, ma perché pormi in modo negativo? Non mi aiuta».

Il rapporto con la tua famiglia è cambiato dopo la diagnosi?
«Sì, in meglio. Con i miei genitori e mio fratello eravamo già in buoni rapporti, ma le cose sono andate migliorando, siamo ancora più uniti, il legame fra noi è ancora più forte e solido. All’inizio loro si sono spaventati, molto più di me. La conoscevano pochissimo questa malattia, solo per sentito dire. Io invece, che l’avevo studiata, avevo una prospettiva diversa. Comunque molte persone ancora ignorano cosa sia la sclerosi multipla».

Dicci qualcosa tu…
«È una patologia autoimmune che colpisce il sistema nervoso centrale e di cui ancora sono sconosciute le cause. È un’infiammazione e ancora non si sa da cosa possa essere scatenata. Si sa che è una malattia genetica, che non è ereditaria, che non è assolutamente contagiosa e che la qualità di vita, rispetto a una volta, è decisamente migliorata, grazie all’utilizzo di questi farmaci di nuova generazione. Io assumo una terapia orale e mi trovo bene con questo farmaco. Qualcuno ha avuto disturbi gastroenterici, rossori, vampate, ma la medicina è così progredita che esistono tante altre forme di possibilità di somministrazione della terapia, per cui, anche se dovessi avere problemi in merito, mi sento serena».

Cosa vorresti comunicare, Mara, con queste tue parole?
«Da quando ho iniziato questa mia “campagna divulgativa” fatta di interviste varie, articoli ecc., ossia dal mese di maggio dello scorso anno, ho come obiettivo quello di portare luce in un momento buio, di parlare di speranza a chi può non averne più e di fiducia nel presente, nel futuro e nella medicina, ma in generale nella vita.
Sento in giro tanta energia negativa e, a mio parere, il mio può essere un esempio di persona normalissima che vive la quotidianità con positività. Una serie di circostanze mi hanno portata a reagire costruttivamente nei confronti di una diagnosi che avrebbe potuto gettarmi in un baratro, farmi cadere in depressione, farmi perdere quella luce e quella positività che io ho di natura».

Tu hai fede, coltivi la fede?
«Credo a modo mio, non sono praticante. Io amo la vita e la vita a volte mi sottopone a delle prove, perché comunque c’è un segno, c’è un messaggio che qualcuno mi vuole mandare, per aiutarmi a riflettere. Questa diagnosi è un po’ uno stop che – sia il mio organismo che qualcuno dall’aldilà che mi vuol bene – mi ha mandato per farmi riflettere su ciò che poteva veramente essere importante per me e sul valore profondo della vita, che va goduta e non sprecata, nel quotidiano delle piccole cose. Prima me la prendevo per sciocchezze, ora sto imparando a lasciar correre, a dare il giusto valore alle cose che meritano. Ho imparato la resilienza, cioè a guardare qualcosa che inizialmente è negativo, ma poi, se mi fermo e lo osservo bene, può avere risvolti positivi».

Progetti per il futuro?
«Dal punto di vista professionale, continuare la mia attività che mi porta a stare in contatto con le persone, mi piace e mi stimola. Dal punto di vista personale, coltivare i miei interessi, sport, eventi culturali, concerti, mostre. E poi mi piacerebbe continuare a divulgare il mio messaggio. È una cosa che mi sta molto a cuore e mi sto organizzando in merito. Ci tengo molto a condividere la mia esperienza, perché penso possa servire a dare coraggio nel momento in cui ti senti disperato. È un coraggio, una forza che nasce da dentro di noi. Il mio può essere uno spunto, la prima nota di una composizione meravigliosa che però sta alla singola persona realizzare. A volte dobbiamo solo spostarci e cambiare punto di vista.
La sclerosi multipla non l’ho voluta io, non me la sono andata a cercare, ma visto che ci dovremo “portare per mano” sino alla fine, allora cerchiamo un compromesso per sopportarci a vicenda. Con me la sclerosi multipla non si annoia ma… e allora forse ha deciso di stare un po’ quieta!».

Come vorresti concludere questa intervista?
«Sicuramente ringraziando te, che hai avuto il tempo e la pazienza di ascoltarmi. Ma vorrei ringraziare anche me, per come ho reagito, vorrei ringraziare le persone che mi sono state vicino e vorrei ringraziare la vita che mi ha messo di fronte a una prova che mi ha fatto maturare e che mi ha fatto scoprire una Mara migliore di quella che ho lasciato andare. Spero di potere andare avanti nel fare tutto ciò che mi emoziona il più a lungo possibile, recuperando, in questo modo, la bambina che è in me e che è la sorgente della mia energia».

*Laura Bonanni è psicologa psicoterapeuta specialista in Analisi Transazionale; Mara Violani è presente in Instagram (marviolani@libero.it).

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L’accessibilità dell’infobus sui nuovi tram di Torino

Come riferisce l’APRI di Torino (Associazione Pro Retinopatici e Ipovedenti), nel corso di un incontro coordinato dal Comune di Torino tra la FISH Piemonte e la disability manager del GTT (Gruppo Torinese Trasporti), quest’ultima ha aggiornato i partecipanti sullo stato di accessibilità dell’infobus sui nuovi tram Hitachi del capoluogo piemontese Uno dei nuovi tram Hitachi della città di Torino

Il 13 gennaio scorso la delegata per la FISH Piemonte (già Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap, oggi Federazione Italiana per i Diritti delle Persone co Disabilità e Famiglie) della nostra Associazione [APRI-Associazione Pro Retinopatici e Ipovedenti, N.d.R.]  Dajana Gioffrè e il nostro consigliere Valter Primo hanno partecipato ad un incontro coordinato dal Comune di Torino nella persona di Elena Ceretto, con la disability manager di GTT (Gruppo Torinese Trasporti) Rita Gambino.
L’incontro è stato centrato su un momento di aggiornamento circa lo stato di accessibilità dell’infobus sui nuovi tram Hitachi ora collocati soprattutto sulla linea 9 della città di Torino.

La disability manager ha informato le persone con disabilità visiva sui lavori di aggiornamento del software che consente il buon funzionamento dell’infobus e che tali lavori sono al momento in corso sui tram già in funzione, ciò che avverrà con i nuovi mezzi in arrivo.
L’azienda di trasporti ha invitato comunque i nostri soci a segnalare eventuali malfunzionamenti dell’infobus, scrivendo a gambino.r@gtt.to.it.
A tal proposito, è stato anche reso noto che verranno avviate alcune campagne di sensibilizzazione per la segnalazione dei malfunzionamenti sui mezzi pubblici torinesi. (APRI-Associazione Pro Retinopatici e Ipovedenti di Torino)

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Alcune proposte per contrastare la violenza sulle donne con disabilità

Attraverso i propri strumenti informativi, l’ANMIC ha illustrato il lavoro svolto sul tema della violenza nei confronti delle donne con disabilità e per contrastare tale fenomeno, sta raccogliendo i dati sui casi pervenuti al proprio Ufficio Antidiscriminazione, sta organizzando un prossimo evento divulgativo e sta predisponendo percorsi formativi mirati a divulgare la cultura nonviolenta nelle scuole, nonché tra gli operatori e le operatrici sociali

Il 15 gennaio scorso l’ANMIC (Associazione Nazionale a tutela delle Persone con Disabilità, già Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi Civili) ha messo online una puntata di ANMIC Informa (la rubrica informativa curata dall’Associazione), interamente dedicata al tema Violenza sulle donne con disabilità: analisi, riflessioni e proposte per il cambiamento. Il filmato (della durata di 13.17 minuti) è liberamente fruibile sul canale YouTube ANMIC 24 a questo link.

La puntata di cui si tratta è stata condotta dal presidente nazionale dell’ANMIC Nazaro Pagano, il quale ha evidenziato come in àmbito associativo la riflessione su questi temi si sia sviluppata già da qualche tempo quale conseguenza delle frequenti segnalazioni di casi di violenza ai danni delle donne con disabilità pervenute al proprio Ufficio Antidiscriminazione.
«Purtroppo – spiegano dall’Associazione -, i dati e le segnalazioni raccolti mostrano come le donne con disabilità siano spesso vittime di abusi e discriminazioni multiple, aggravate dalla loro condizione e da un contesto sociale che, in molti casi, non fornisce adeguati strumenti di protezione e supporto. Questa violenza non è solo fisica, ma spesso si manifesta attraverso forme più subdole, come l’abuso psicologico, economico e sociale, rendendo il fenomeno ancora più complesso da affrontare».

Dunque l’ANMIC è impegnata a raccogliere i dati e le notizie su questo fenomeno, ad individuare gli strumenti da mettere in campo per contrastarlo e ad organizzare per il prossimo mese di marzo un evento divulgativo in cui verranno illustrate le evidenze riscontrate. Tale evento, attualmente ancora in fase di definizione, sarà organizzato in collaborazione con altri enti, con l’Ordine dei Medici e alcune Società Scientifiche.

Quello della violenza nei confronti delle donne con disabilità, ha sottolineato Pagano, è un tema significativo cui l’ANMIC intende rispondere anche con la predisposizione di interventi formativi (online e in presenza) mirati a divulgare la cultura nonviolenta nelle scuole, nonché tra gli operatori e le operatrici sociali. La violenza va condannata a prescindere dal soggetto a cui è rivolta, e tuttavia l’Associazione sta riscontrando le maggiori criticità proprio in relazione alle donne con disabilità, essendo esse esposte a discriminazione multipla, quella che deriva dalla compresenza nella stessa persona di più caratteristiche suscettibili di produrre discriminazione (in questo caso l’essere donne e persone con disabilità). Va poi tenuto presente che solitamente le donne con disabilità hanno, rispetto alle altre donne, minori possibilità di difesa, e spesso si trovano immerse in relazioni di prevaricazione, senza avere, specie nei casi di donne con disabilità intellettiva, la possibilità di contrastarle o di sottrarsi ad esse.

L’approccio a queste tematiche, ha chiarito ancora Pagano, deve essere trasversale agli schieramenti politici, deve proporre, come accennato, interventi culturali, ma deve anche prevedere azioni coercitive da parte di chi è istituzionalmente preposto a preservare la sicurezza di tutti i cittadini e le cittadine. (Simona Lancioni)

L’Ufficio Antidiscriminazione dell’ANMIC si può contattare attraverso il numero verde 800 572775 (lunedì, mercoledì e venerdì, ore 9-12), oppure utilizzando il recapito antidiscriminazione@anmic.it.
Il presente contributo è già apparso nel sito di Informare un’h-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa) e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti dovuti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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L’audiodescrizione del film “Sei nell’anima”, che racconta l’ascesa di Gianna Nannini

«Audiodescrivere un’opera come questa mi ha dato la possibilità di apportare alla voce di un’artista qualcosa di nuovo nell’immaginario collettivo di chi non vede, che ovviamente conosce i cantanti solo per la loro voce»: lo scrive tra l’altro Laura Giordani, adattatrice di dialoghi, audiodescrittrice e docente universitaria, nel raccontare il suo lavoro di audiodescrizione per il film Netflix “Sei nell’anima”, che racconta l’ascesa iniziale della rockstar Gianna Nannini L’attrice Letizia Toni nei panni di Gianna Nannini, in una scena del film “Sei nell’anima”

Uno dei poteri dell’arte, si sa, è quello di essere “onnipervasiva”: arriva ovunque e tocca tutto, anche altre forme d’arte. Per esempio, il cinema può farci vedere più da vicino un artista appartenente al mondo delle arti visive o della musica. È il caso del film Netflix Sei nell’anima (2024), successo nazionale che ha raccontato l’incredibile avventura che è stata l’ascesa della regina indiscussa del rock italiano, Gianna Nannini.
Diretta da Cinzia TH Torrini, la pellicola è tratta dall’autobiografia Cazzi miei (2016) e vede l’attrice Letizia Toni nei panni della rockstar a cavallo tra gli Anni Settanta e Ottanta.
Il film si avvale inoltre della partecipazione della conduttrice televisiva e radiofonica Andrea Delogu nei panni di una giovane Mara Maionchi, la produttrice che “scoprì” la regina del rock italiano.
Alla sottoscritta è stata affidata l’audiodescrizione di questo film Netflix, con l’obiettivo di renderlo accessibile a tutte le persone con disabilità visiva.

D’ora in poi abbreviata in AD, l’audiodescrizione, com’è noto, traduce in parole le azioni che, in un’opera audiovisiva, non possono essere percepite dalla vista. Uno speaker ne legge poi il testo descrittivo, la cui traccia viene “missata” a quella originale del film, che si compone di dialoghi, rumori, musiche e suoni.
Ma oltre agli aspetti più tecnici, un’AD dovrebbe rendere visibile ciò che non lo è agli occhi dei fruitori, trasponendone il senso artistico desiderato e ideato dal regista. Prendendo in prestito i versi iniziali di Ragazzo dell’Europa (1982) – canzone che compare nel film – l’audiodescrittore dovrebbe “stare negli occhidel fruitore e “raccontargli gli inganni” del gran bel sogno che è il cinema.

La natura particolare di questa lavorazione ha suscitato in me delle riflessioni: audiodescrivere l’intrigante esperienza di vita di Gianna Nannini significa fondere una descrizione “in prosa” alla poesia delle sue canzoni, ma non solo. Da vedente, sono abituata ad associare la voce graffiante della Nannini alla sua immagine, che è riconoscibilissima. Ma l’audiodescrizione di un’opera del genere si carica della responsabilità di creare nella mente del fruitore l’immagine della sorgente di quella voce: nel concreto, si tratta di attribuirle un qualcosa che non le era mai stato attribuito: è un’operazione che comunque va a cambiare la concezione mentale di quel personaggio nella mente del fruitore.

La musica, dal punto di vista di una persona con disabilità visiva, è sicuramente l’arte più inclusiva di tutte: bastano l’udito e il sentimento, un po’ come per l’AD di un’opera audiovisiva. Entrambe, inoltre, mirano a un’armonia che fonda magistralmente tutte le componenti. Va da sé che quando l’AD tocca l’ambito musicale ci si aspetti la quintessenza dell’armonia. È stato dunque di vitale importanza accostare un testo descrittivo che si unisse bene con il carattere indomito della protagonista e con i suoi grandi successi, senza rinunciare ad adattarsi alle varie tematiche trattate nel film: la ribellione giovanile, la tenacia dei propri sogni, lo scontro padre-figlia, ma anche la droga, il disagio, la pressione lavorativa.
La protagonista, inoltre, viene anche connotata a fondo per la sua provenienza senese: «Gianna entra in una camera. Appoggia il borsone sul letto e lo apre. Estrae il fazzoletto di seta della Contrada dell’Oca, quartiere di Siena, e lo posiziona accanto alla custodia della chitarra. Poi tira fuori un poster di Janis Joplin […] e lo appende alla porta. […] Afferra una scatola di Ricciarelli, biscotti tipici di Siena e ne mangia uno. Chitarra alla mano, si siede in poltrona e canta».
In questo caso, elementi tipici quali oggetti, luoghi e prodotti gastronomici, hanno richiesto l’aggiunta di incisi che ne giustificassero la presenza o che ne spiegassero la natura.

Il testo descrittivo di quest’opera si è poi dovuto fare particolarmente cupo laddove toccava temi aspri come la morte dell’amica Tina per overdose: «Alla pensione, fa per entrare in camera sua ma desiste sentendo la musica provenire dalla stanza accanto. Fruga nelle tasche dei jeans. Apre con la sua chiave. Il sorriso sul suo volto scompare. Il registratore continua a girare a vuoto. Gli occhi azzurri di Gianna si posano sconvolti sul corpo inerme di Tina riverso sul letto disfatto, seminuda, con gli occhi spalancati. Sul braccio destro, i lividi intorno ai buchi e un laccio emostatico. Accanto a lei una siringa insanguinata. Gianna indietreggia atterrita ed esce dalla stanza. Con una barella, due uomini portano via il corpo senza vita di Tina, ricoperto da un lenzuolo bianco».
Come sempre accade nelle opere audiovisive, è il linguaggio filmico a “mostrarci la via”. La musica che proveniva dalla stanza è finita: l’inquadratura sul registratore che continua a girare a vuoto è metafora di ciò che stiamo per vedere, ovvero una giovane vita stroncata dal mostro che è la droga. Certi segnali vanno colti e messi in risalto: solo così si evita un’AD vuota, piatta e noncurante del senso artistico dell’opera.

Una scena “di famiglia” del film “Sei nell’anima”

Altre scene potenti all’interno del film sono quelle di sesso: l’irrequietezza di un’anima ribelle come quella della protagonista passa anche da clip che sottolineano la natura sfrenata e improvvisa degli episodi amorosi, in un climax di passione: «Nel cuore della notte, a casa di Gianna, lei e Mark si baciano, si spogliano. Addossati alla parete, si toccano. A letto, lui affonda la bocca tra le cosce di lei che si contrae dal piacere. Poi le scivola dentro, i corpi nudi a contatto, travolti dalla passione».
Lo stesso vale per la scena in cui Gianna fa la conoscenza di “Undici”, una ragazza leccese con cui nascerà un’intensa storia d’amore: «Bevono entrambe un sorso di vino. La ragazza posa il calice e si tocca il collo con espressione dolorante. Gianna le prende la mano e le fa scorrere il pollice lungo le vene dal polso al gomito. […] La ragazza la scruta con un sorrisetto ammiccante. La mano di Gianna le sfiora il braccio in una lenta carezza fino a un bracciale rigido d’argento sul bicipite. […] Più tardi, in un bosco. La ragazza dai capelli corti è appoggiata al cofano di un’auto con i fari accesi. Gianna strappa un filo d’erba. Lo annoda e crea un anello. Lo infila all’anulare sinistro della ragazza. […] I loro visi si fanno più vicini. Le loro bocche si cercano. Si assaporano. Gianna le sfiora le labbra con le dita. Poi la bacia con passione. Undici le sfila il giubbotto di pelle. Gianna le apre la zip dei jeans e le sfiora la pelle del ventre. Si baciano toccandosi…».
Il sorrisetto ammiccante e la lenta carezza sono elementi che innescano un corteggiamento serrato. L’esperienza omosessuale – l’ennesimo aspetto che caratterizza una rockstar che antepone il sentimento ai precetti sociali di quegli anni – viene presentata come un assaporamento. Sono temi vitali per un’artista che ha fatto della sua stessa vita un’espressione di rottura con i retaggi di un Paese ancora troppo vincolato al passato.

A incarnare la generazione precedente alla sua, perbenista e osservante di quei canoni sociali, il padre, che la voleva una tennista di successo, anziché una rockstar dissoluta. L’audiodescrizione di un ricordo della giovane Gianna rende bene il loro scontro generazionale: «Gianna cammina nella foschia notturna e ricorda: da adolescente gioca una partita di tennis sotto lo sguardo attento del padre, seduto sugli spalti a bordo campo. Gianna, seduta in panchina con espressione combattuta, guarda il padre che la incita. La partita ricomincia. Gianna e la sua avversaria tornano in campo. Gianna, immobile, non risponde al servizio. Si volta verso il padre e lo guarda con aria di sfida. Il cielo imbrunisce e il viso del padre si contrae dalla rabbia. I due, sotto la pioggia battente, si scrutano a lungo. Il pubblico lascia gli spalti. Padre e figlia continuano a fissarsi. Lui, rassegnato e fradicio, abbassa le braccia lungo i fianchi; lei è irremovibile».

In conclusione, audiodescrivere un’opera del genere mi ha dato la possibilità di apportare alla voce di un’artista qualcosa di nuovo nell’immaginario collettivo di chi non vede, che ovviamente conosce i cantanti solo per la loro voce. Ma nel caso di quest’opera, l’inclusione non sta solo nell’averla resa accessibile, ma anche nell’averla impreziosita con la voce di Mario Loreti, speaker professionista cieco che, proprio per questa lavorazione, lo scorso 1° dicembre ha vinto il Premio Speciale Accessibilità al Festival del Doppiaggio Voci nell’Ombra. E pensare che lui stesso si era detto “dubbioso” della sua performance: con sua grande sorpresa – ma non la nostra – questa lavorazione gli è valsa un importante riconoscimento. Con la sua voce, è davvero riuscito a entrare “nell’anima” del testo descrittivo [nei prossimi giorni daremo spazio a una nostra intervista esclusiva a Mario Loreti, N.d.R.].

*Adattatrice di dialoghi, audiodescrittrice, docente universitaria. Ne segnaliamo anche, sempre sulle nostre pagine (a questo link), il recente contributo intitolato “La buona audiodescrizione di un ‘teen drama’”.

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Il concorso di idee “Cortina per Tutti”: si può partecipare fino al 31 gennaio

Come segnala la rete Village for all (V4A®), è ancora aperta fino al 31 gennaio la possibilità di partecipare al concorso “Cortina per Tutti”, rivolto dal Comune di Cortina a cittadini/cittadine, associazioni e a chiunque abbia un’idea innovativa per favorire l’inclusione e l’accessibilità nei settori dell’ospitalità, dei servizi, delle infrastrutture e delle attrazioni turistiche. Il tutto con un occhio puntato in particolare ai Giochi Olimpici e Paralimpici Invernali Milano-Cortina del 2026 Roberta Alverà, vicesindaca di Cortina d’Ampezzo con Deleghe al Turismo e all’Accessibilità, promotrice del concorso d’idee “Cortina per Tutti”

Come avevamo riferito nell’estate dello scorso anno, durante un incontro organizzato dal Comune di Cortina d’Ampezzo, per far conoscere alle realtà territoriali gli strumenti operativi introdotti per preparare la località delle Dolomiti ad offrire un’ospitalità accessibile in vista dei prossimi Giochi Olimpici e Paralimpici Invernali del 2026 (Milano-Cortina 2026), era stato presentato agli imprenditori Destination4All, percorso pluriennale messo a punto da Village for all (V4A®), la nota rete impegnata da molti anni sul tema dell’innovazione turistica specializzata in ospitalità accessibile, per migliorare appunto l’ospitalità accessibile di Cortina, progetto partito già da tempo, che intende portare innanzitutto a migliorare la qualità delle informazioni sull’accessibilità, coinvolgendo tutti gli attori della filiera turistica (ospitalità, commercio, ristorazione, servizi e altro).
Ora la stessa Village for all ricorda che è ancora aperta fino al 31 gennaio la possibilità di partecipare al concorso Cortina per Tutti, rivolto dal Comune di Cortina a cittadini/cittadine, associazioni e a chiunque abbia un’idea innovativa per favorire l’inclusione e l’accessibilità nei settori dell’ospitalità, dei servizi, delle infrastrutture e delle attrazioni turistiche. (S.B.)

A questo link sono disponibili tutte le informazioni sul concorso di idee Cortina per Tutti.

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Una mostra per sfidare la narrazione dominante sulla disabilità

A Torino, nell’ambito del progetto “Inclusione 6.0.”, in mostra dal 24 gennaio al 28 febbraio i quaranta poster vincitori del concorso internazionale “Posterheroes”. L’ingresso è gratuito
Particolare di uno dei poster in mostra a Torino

Torna a Torino la mostra Beautifully Diverse, che ospita i quaranta poster vincitori del concorso Posterheroes, edizione 2023, nell’àmbito del progetto Inclusione 6.0, portato avanti dalla Città di Torino, finanziato dal Fondo per le Periferie Inclusive e avente quale capofila la CPD (Consulta per le Persone in Difficoltà), in partenariato con “Liberitutti”, Weco Impresa Sociale, l’Associazione Hackability, Vol.To (Volontariato Torino) e la Fondazione Time2.

Posterheroes è un concorso internazionale il cui obiettivo è quello di alimentare la discussione su tematiche di interesse sociale e ambientale attraverso la comunicazione visiva. L’edizione 2023 dell’iniziativa, denominata, come detto, Beautifully Diverse, è il risultato della collaborazione tra l’Associazione PLUG Creativity, la Fondazione Time2, la Società Favini e ITC-ILO e ha avuto per tema la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.
Il concorso ha proposto alla comunità creativa internazionale di sfidare la narrazione dominante sulla disabilità, al fine di promuovere una cultura della diversità priva di stereotipi e di valorizzare narrazioni autentiche e trasformative.

La mostra raccoglie dunque i quaranta poster vincitori che, selezionati da una giuria internazionale di persone esperte nell’àmbito della comunicazione visiva e sociale, intendono promuovere una nuova narrazione della disabilità, come semplice espressione della diversità che caratterizza il genere umano.
Nel pomeriggio del 24 gennaio (ore 17.30), presso i Bagni Pubblici di Via Aglié a Torino (Rete delle Case del Quartiere), si terrà il vernissage della mostra e l’evento sarà un’occasione per celebrare il superamento degli stigmi e delle rappresentazioni discriminatorie verso le diversità, anche in occasione del Giorno della Memoria 2025.
Per l’occasione dialogheranno sui temi dei diritti, della democrazia e della cittadinanza Samuele Pigoni, segretario generale della Fondazione Time2, Erika Mattarella, direttrice dei Bagni Pubblici di Via Agliè e Francesca Bisacco, presidente della CPD. Inoltre, è stato invitato a portare i saluti istituzionali Jacopo Rosatelli, assessore alle Politiche Sociali della Città di Torino. (C.C.)

Gli spazi della mostra sono accessibili alle persone in carrozzina mediante ascensore da cortile interno. Le opere vincitrici della menzione Fondazione Time2 sono fornite di audiodescrizioni, a cura dell’Associazione Forword. Dieci delle opere in mostra hanno a disposizione riproduzioni tattili. Sono disponibili delle cuffie anti-rumore per chi ne avesse bisogno. I bagni sono accessibili e gender neutral. Per supporti specifici all’accesso alla mostra è possibile fare riferimento al personale dei Bagni Pubblici di Via Aglié e/o scrivere a bagnipubblici@coopliberitutti.it. Per ogni ulteriore informazione: Fabrizio Vespa (fabrizio.vespa@cpdconsulta.it).

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“Di passo in passo”: storia di vita, storia di vite

“Di passo in passo” di Donata Scannavini è un’autobiografia che ci ricorda cosa è successo alla vita delle persone con disabilità negli ultimi decenni, nel tanto bene e anche nel tanto male. Una lettura facile, ma non banale, che permette di emozionarsi e di ragionare nello stesso tempo

Ogni vita è unica, preziosa, dignitosa e interessante. Ma non è detto che tutte le storie di vita siano altrettanti interessanti, soprattutto quando si parla di vite delle persone con disabilità o dei loro familiari.
Negli anni che abbiamo alle spalle le condizioni esistenziali sono molto cambiate: tante sono state le conquiste ottenute, sia dal punto di vista normativo, sia per quanto riguarda i supporti concreti su cui le persone con disabilità possono contare rispetto a non molti anni fa. Il risultato è che le persone con disabilità di oggi vivono di più e meglio rispetto a quelle del passato, anche se la condizione di discriminazione resta ancora evidente: le persone con disabilità, infatti, studiano e lavorano meno delle altre, sono maggiormente dipendenti dai propri familiari, hanno meno relazioni amicali e meno opportunità di partecipare alla vita sociale. In tal senso, l’obiettivo di una società accessibile e priva di stigmi e pregiudizi è così lontano che, a volte appare quasi un sogno, un’utopia.
Quella che è senz’altra cresciuta è la consapevolezza dei propri diritti e della propria dignità da parte delle stesse persone con disabilità e dei loro familiari. Una crescita di consapevolezza che riguarda anche il valore e l’importanza della propria voce, del proprio punto di vista sulla propria esistenza e anche sul mondo in cui ci si trova a vivere.
Forse, come reazione ad una società che invece fatica ancora (e molto) ad ascoltare e a dare il giusto valore alla voce delle persone con disabilità che, in questi ultimi anni, molte fra loro hanno iniziato a scrivere.
Il genere dell’autobiografia è certamente quello che raccoglie oggi il maggior numero di titoli riguardanti la disabilità: vanno forte le storie di successo, ma anche quelle di dolore e fatica o una combinazione dei due fattori, ovvero le storie di successo conseguito attraverso il dolore e la fatica.

Di passo in passo di Donata Scannavini (Armando Editore, 2024), che è certamente un’autobiografia, ha il merito di discostarsi da questo cliché: si parla di successi e fallimenti, di gioie e di dolori, di relazioni, interessi e di tanto altro ancora. Ma in fondo si tratta di situazioni ordinarie della vita comuni a gran parte delle persone: in fondo non troverete niente di “speciale”, niente di “eccezionale” e anche niente di particolarmente “coraggioso”.
Il merito di Scannavini è quello di approfittare del suo desiderio di raccontare la sua vita per ricordarci cosa sia successo alla vita delle persone con disabilità negli ultimi decenni, nel tanto bene e anche nel tanto male. Un bene e un male feriale e quotidiano che ha contrassegnato la sua esistenza come quella di milioni di altre persone con disabilità nel nostro Paese.
È un racconto che procede in ordine cronologico, facilitando quindi il compito del lettore e che, di tanto in tanto, si ferma per dare spazio a delle considerazioni di carattere generale, che aiutano a cogliere quanto questa semplice e interessante storia di vita possa aiutarci a capire quanto sia importante il punto di vista, anche nel senso del punto di osservazione, delle persone con disabilità sulla vita loro, di chi li circonda e di come funzioni la società.
Una lettura facile, ma non banale, durante la quale è possibile emozionarsi e ragionare, nello stesso tempo.

*Direttore della LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità, componente lombarda della FISH-Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie).

Donata Scannavini, Di passo in passo, Armando Editore, 2024 (collana “Testimonianze”).

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Chi è malato guarisce solo se qualcuno lo abbraccia

L’abbraccio come concetto che unisce, sostanziato nello slogan Chi è malato guarisce solo se qualcuno lo abbraccia: sono le parole chiave scelte dall’AIFO (Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau) per la 72^ Giornata Mondiale dei malati di Lebbra del 26 gennaio, ponendo l’accento sulla centralità della persona e non della malattia e sottolineando l’importanza dell’inclusione, della cura e del sostegno per chi è malato L’immagine-simbolo scelta dall’AIFO per la 72^ Giornata Mondiale dei malati di Lebbra del 26 gennaio

L’abbraccio come concetto che unisce, sostanziato nello slogan Chi è malato guarisce solo se qualcuno lo abbraccia: sono queste le parole chiave scelte dall’AIFO (Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau) per la 72^ Giornata Mondiale dei malati di Lebbra del 26 gennaio, ponendo l’accento sulla centralità della persona e non della malattia e sottolineando l’importanza dell’inclusione, della cura e del sostegno per chi è malato, a partire dalle persone colpite dalla lebbra e per tutti coloro che vivono ai margini.

Istituita da Raoul Follereau, la Giornata Mondiale è promossa appunto nel nostro Paese dall’AIFO, Associazione che da oltre sessant’anni è in prima linea nel mondo per la lotta alla lebbra, per garantire il diritto alla cura e all’inclusione per tutti. In occasione dell’evento, dunque, la stessa AIFO organizzerà in numerose Regioni italiane varie iniziative per informare e sensibilizzare le persone su una malattia che, pur essendo curabile, rappresenta ancora un problema sanitario importante in diversi paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, dove persistono condizioni socioeconomiche precarie che ne favoriscono la trasmissione.
Per promuovere dunque il tema del diritto alla salute globale, centinaia di volontari AIFO saranno nelle piazze e nelle parrocchie d’Italia con il Miele della solidarietà e il Kit – Stare bene è un diritto il cui ricavato finanzierà i progetti sociosanitari dell’AIFO nel mondo, e in particolare quelli per la lotta alla lebbra, oltreché per le altre malattie tropicali neglette.
Accanto all’AIFO vi saranno l’Agesci, il GI.FRA (Gioventù Francescana), il SISM (Segretariato Italiano Studenti in Medicina) e alcune Diocesi, oltre all’importante Alto Patronato del Presidente della Repubblica.

«Nonostante appaia molto distante dall’Occidente – spiegano dall’AIFO -, la lebbra esiste ancora e rimane un problema di salute pubblica in vari Paesi del mondo. Oggi si trova nella lista delle malattie tropicali neglette dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e chi ne è malato ne è ancora emblema dell’esclusione sociale, di un isolamento che spesso li condanna alla povertà e alla disabilità. Rispetto ai dati più recenti prodotti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel corso del 2023 erano stati registrati in totale 182.815 casi globali di lebbra con un aumento del 5% rispetto all’anno precedente. La concentrazione delle persone diagnosticate era soprattutto in India, Brasile e Indonesia e tra i nuovi casi il 5,7% erano bambini/e (minori di 15 anni), mentre il 39,9% dei casi globali si riscontravano tra le donne. Dai dati raccolti si evince che è ancora in crescita il numero delle persone che presentano gravi disabilità al momento della diagnosi: nel 2023, tra le persone diagnosticate, il 5,3 % presentavano disabilità gravi, di cui il 2,7 %, bambini/e. Ciò indica che, ancora oggi, a causa della scarsa conoscenza dei sintomi della malattia all’interno delle comunità, delle difficoltà di accesso e della carenza di qualità dei servizi di trattamento, la diagnosi avviene tardivamente e in molti casi la persona colpita dalla malattia si presenta già con disabilità fisiche irreversibili e la malattia può essersi già diffusa anche tra i contatti familiari».

«Nei progetti da noi gestiti – aggiungono dall’AIFO – seguiamo la Road Map 2021-2030 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per il controllo delle malattie tropicali neglette, a sua volta in linea con la Strategia Globale per l’Eliminazione della Lebbra (Towards zero leprosy, 2021-2030). Il cammino verso un mondo senza lebbra è lungo e presuppone azioni integrate verso l’obiettivo dei “Tre Zeri”, ossia zero trasmissione, zero disabilità e zero discriminazione. A questo si aggiunge l’importanza della ricerca scientifica, fondamentale per superare le lacune ancora presenti».
«Il cammino verso “zero lebbra” – conferma Giovanni Gazzoli, medico AIFO specializzato in malattie tropicali – comprende la promozione della ricerca scientifica, costruendo il consenso sulle priorità di ricerca della comunità mondiale: si veda il vaccino attualmente nell’ultima fase di sperimentazione e l’identificazione di nuovi farmaci, come il Telacebec program for leprosy sostenuto anche dall’AIFO».

«Per fermare la diffusione della malattia – sottolineano ancora dall’AIFO – e affinché l’impatto dei programmi di controllo sia duraturo, è necessario migliorare la situazione socioeconomica dei Paesi endemici attraverso un approccio globale che agisca non solo sugli aspetti sanitari, ma anche sui determinanti sociali come l’istruzione e l’occupazione stabile. Nello specifico, oltre alla sensibilizzazione e all’informazione della popolazione, promuoviamo un approccio multisettoriale che include la riabilitazione fisica e socioeconomica delle persone con una disabilità causata dalla malattia e dei loro familiari».

«L’AIFO – dichiara Antonio Lissoni, presidente dell’Associazione – lavora prevalentemente in Paesi dove non esistono diritti, figuriamoci le opportunità, ma il nostro impegno è volto a creare consapevolezza sui propri diritti, umani e sociali e a cercare con ostinata determinazione di dare vita a condizioni di crescita, di autonomia, mostrando a chi è più vulnerabile che ce la può fare. È proprio questo il significato della Giornata Mondiale del 26 gennaio: cura, ma non solo, formazione, ma non solo, soprattutto capacità di creare opportunità, perché chi non lo è mai stato possa sentirsi persona, in grado di gestire la propria vita».

«In Mozambico – concludono dall’AIFO – Stato dell’Africa classificato al 183° posto tra i 198 Paesi più poveri al mondo, abbiamo incontrato Dario, la cui vita è stata segnata dalla lebbra, perché la malattia non è solo fisica, se è vero che l’esclusione e la discriminazione causano profonde ferite nella psiche delle persone colpite. Ma Dario, fortunatamente, è stato diagnosticato per tempo e ha potuto iniziare il suo percorso di cura e di speranza grazie all’aiuto della nostra Associazione». (S.B.)

A questo link, nel sito dell’AIFA, sono presenti tutte le notizie e gli approfondimenti sulla Giornata Mondiale del 26 gennaio. Per altre informazioni: Ufficio Stampa AIFO (Simona Marotta), s.marotta@bovindo.it.

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Si è insediato il nuovo Consiglio Nazionale del Terzo Settore

«Presieduto dalla viceministra del Lavoro e delle Politiche Sociali Bellucci, il nuovo Consiglio Nazionale del Terzo Settore, composto da 74 membri e insediatosi nei giorni scorsi, avrà quale vicepresidente, il direttore del Forum Nazionale del Terzo Settore Maurizio Mumolo. L’organismo resterà in carica per i prossimi tre anni, attraversando una fase ritenuta assolutamente cruciale per il Terzo Settore Il direttore del Forum Nazionale del Terzo Settore Maurizio Mumolo è stato eletto alla Vicepresidenza del Consiglio Nazionale del Terzo Settore

Durante la seduta di insediamento del nuovo Consiglio Nazionale del Terzo Settore, composto da 74 membri, è stato eletto all’unanimità, in qualità di vicepresidente, il direttore del Forum Nazionale del Terzo Settore Maurizio Mumolo.
«Presieduto dalla viceministra del Lavoro e delle Politiche Sociali Maria Teresa Bellucci, il nuovo Consiglio resterà in carica per i prossimi tre anni, attraversando una fase assolutamente cruciale per il Terzo Settore – commentano dal Forum – che, dopo quasi dieci anni dall’inizio del percorso di riforma, attende a breve, come ci auguriamo, il via libera dell’Unione Europea al nuovo impianto fiscale, passaggio molto delicato, che potrà comportare grandi cambiamenti nella vita delle organizzazioni, e che necessita quindi di massima attenzione e impegno. A tal proposito, anche il Consiglio Nazionale del Terzo Settore dovrà svolgere un ruolo importante».
«Auspichiamo inoltre – aggiungono dal Forum – che l’insediamento del nuovo Consiglio Nazionale del Terzo Settore – favorisca innanzitutto l’apertura di una nuova stagione di implementazione e manutenzione della riforma, ma anche l’inizio di una fase di costruzione di strumenti efficaci di sviluppo e sostegno per il Terzo Settore, alla stregua di quanto accade per altri pezzi importanti dell’economia italiana, e in grado di valorizzare il contributo insostituibile di questo comparto anche per la coesione sociale del Paese». (S.B.)

A questo link è disponibile l’elenco dei soci e degli aderenti al Forum Nazionale del Terzo Settore, tra cui anche la FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie). Per ulteriori informazioni: stampa@forumterzosettore.it.

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Lavoro e disabilità: una chimera anche per chi studia e ha un’alta formazione

«Vorrei centrare la mia attenzione – scrive Enrichetta Alimena – sulle persone con disabilità che hanno alti livelli di formazione, ma che pure non riescono ad avere un lavoro stabile, che possa garantire loro un progetto di vita dignitoso. Una situazione non più sostenibile, perché il lavoro, un lavoro che segua le aspirazioni della persona, è l’unico strumento per un percorso di vita dignitoso»

Sulle pagine di Superando nelle ultime settimane si è sviluppato nuovamente il dibattito sul lavoro per le persone con disabilità; ricordo ad esempio l’articolo scritto da Marino Bottà, direttore generale dell’ANDEL (Agenzia Nazionale Disabilità e Lavoro) che si concentra sulle scarse opportunità lavorative per chi ha una disabilità ad alta necessità di supporto e bassi livelli di istruzione e formazione [“Lavoro e disabilità: serve un cambio totale di strategia”, N.d.R.].
Io vorrei invece spendere qui la mia attenzione sulle persone con disabilità che hanno alti livelli di formazione, ma che pure non riescono ad avere un lavoro stabile, che possa garantire loro un progetto di vita dignitoso.

Se guardiamo i dati dell’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca) del 2022 abbiamo una rappresentazione chiara della situazione. Dall’anno accademico 1999-2000 il numero di studenti con disabilità è quadruplicato da 4.443 a 17.073 nell’anno accademico 2019-2020. In particolare l’81% degli studenti con DSA (disturbi specifici dell’apprendimento) risulta iscritto ad un corso di laurea triennale, contro il 63 % degli studenti con disabilità; per quanto poi riguarda le lauree magistrali e magistrali a ciclo unico, le percentuali degli studenti con DSA si fermano all’8-9% e sono invece più alte quelle degli studenti con disabilità. Gli studenti con disabilità che accedono al dottorato, infine, sono una novantina in tutta Italia.
Questi dati ci dimostrano dunque che il sistema di istruzione e formazione italiano inclusivo, pur con tutti i limiti che conosciamo, riesce ad offrire una prospettiva di futuro a tante ragazze e ragazzi con disabilità, qualcosa che solo qualche decennio fa era impensabile.
Le Università si stanno attrezzando, offrendo i supporti e gli accomodamenti ragionevoli necessari a rendere l’ambiente universitario accogliente per chi abbia a una disabilità o diverse situazioni di svantaggio.
Tutto risolto, quindi? Certo che no, ci sono ancora diverse barriere da abbattere, ma la strada è stata intrapresa con una certa convinzione e sistematicità. E penso anche alle Linee Guida da poco rese pubbliche sull’inclusione degli studenti con disabilità nelle Università [su di esse si legga un nostro ampio approfondimento a questo link, N.d.R.], dove si descrivono tutte le strategie e metodologie da mettere in campo, il monitoraggio delle barriere, la diversificazione degli strumenti e dei supporti didattici ecc.

Si fa poi riferimento al tema dell’autonomia e indipendenza delle persone con disabilità per puntare ad un percorso di vita soddisfacente, ed è qui che torniamo al tema del lavoro. Sì, perché nonostante gli alti livelli di scolarizzazione e formazione, i livelli di occupazione sono ancora molto bassi, se è vero che secondo gli ultimi dati ISTAT, solo il 32% delle persone con disabilità ha un lavoro e le donne, tanto per cambiare, sono le più penalizzate. A lavorare, infatti, sono solo il 26% delle donne, e questo anche se, come dimostrano i dati dell’ANVUR, le donne studiano di più degli uomini: ad esempio, tra il totale delle persone con disabilità che studiano in università, il 52,9% sono donne e il 47,1% uomini; per quanto poi riguarda la frequenza di Master di Primo e Secondo Livello, il 70,3% sono donne con disabilità, mentre tra gli uomini la percentuale si ferma al 29,7% e il divario tra donne e uomini con disabilità c’è anche tra chi frequenta i corsi di laurea triennale, magistrale e le scuole di specializzazione; le percentuali vanno di nuovo a vantaggio degli uomini con disabilità, solo quando si parla di dottorato. Dunque, si torna qui al tema della doppia e multipla discriminazione delle donne con disabilità.

Tornando a quel 32% di persone con disabilità occupate, il dato prodotto non distingue tra i livelli di formazione, ma non è difficile sapere quanto il lavoro, per chi ha una disabilità, se arriva, arriva molto più tardi rispetto agli atri, è precario e spesso non rispondente agli studi conseguiti.
Dobbiamo quindi lavorare tutti insieme per colmare questi divari tra donne e uomini con disabilità ma anche tra persone con disabilità che si formano, ma che non trovano uno sbocco lavorativo.
Le cause di questi divari sono tante. Prima di tutto vi è un fattore culturale che vede le persone con disabilità come “eterni bambini e ragazzi” che devono sempre imparare, e non sono mai pronte a prendersi delle responsabilità, verso se stessi e gli altri, coltivando un fenomeno di infantilizzazione davvero mortificante. In questo i giovani con disabilità pagano il pregiudizio di essere giovani, che in Italia vuol dire non crescere mai, figuriamoci se hanno una disabilità…
Ma il fatto che il problema dell’occupazione in Italia sia generale, non ci deve fornire l’alibi per non agire, perché nel caso delle persone con disabilità la situazione non è più sostenibile e di questa situazione devono essere consapevoli tutti, persone con disabilità, politici, associazioni di categoria e Terzo Settore, tenendo conto anche del fatto che molte persone con disabilità lavorano e si impegnano all’interno di Associazioni ed Enti del Terzo Settore, ma svolgono spesso attività di volontariato.
Abbiamo bisogno inoltre dell’alleanza con le Università, con il mondo della formazione e naturalmente degli enti pubblici e privati, e dobbiamo agire presto, perché le persone con disabilità non possono aspettare ancora, perché anche il loro tempo, come quello di tutti, ha un valore. Senza mai dimenticare che il lavoro, un lavoro che segua le aspirazioni della persona, è l’unico strumento per un percorso di vita dignitoso; altrimenti, quando si parla di inclusione sociale e di percorso di vita, si rischia di fare solo retorica.

*Attivista per i diritti delle persone con disabilità, docente e formatrice sui temi della disabilità e disability manager. Autrice del libro “Lotta per l’inclusione. Il movimento delle persone con disabilità negli anni Settanta in Italia”, ha realizzato due radio-documentari con Rai Radio 3 (“Il confino. Disabilità e lockdown” e “Tutto normale. Un altro sguardo sulla disabilità”). Fa parte della RIDS (Rete Italiana Disabilità e Sviluppo) ed è “esperta junior” in Cooperazione Inclusiva. Nel 2024 ha ricevuto il Premio AIFO “Donne per l’inclusione”.

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Cosa piace fare a una persona? Questa dev’essere la domanda!

«Un vero progetto di vita – scrive Liana Cappato – deve partire da una domanda fondamentale: “Cosa piace fare a questa persona?”, “Cosa la appaga e la rende felice?”. Come non capire che la motivazione è ciò che muove ciascuno di noi, e che questo vale anche per chi ha una disabilità?» Una realizzazione grafica dedicata ai concetti di esclusione, segregazione, integrazione e inclusione

Leggendo su queste stesse pagine il recente contributo di Gianfranco Vitale sull’inclusione [“Per far sì che l’inclusione non sia solo uno slogan”, N.d.R.], non ho potuto non soffermarmi, come mi succede spesso in occasione dei suoi articoli mai banali, sui tanti spunti contenuti nell’intervento.
Sono mamma di un ragazzo autistico di 21 anni e anch’io, sebbene l’idea che mio figlio trascorra molte ore del giorno da solo in camera mi dia i brividi, penso che confinare le persone con disabilità in eventi cosiddetti “dedicati” e ristretti alimenti l’esclusione anziché contrastarla.
Proprio mentre leggevo lo scritto di Vitale, il mio telefono ha iniziato a riempirsi di notifiche: erano le mamme di un gruppo frequentato da mio figlio, Mattia. Con entusiasmo, stavano confermando la partecipazione dei loro ragazzi a una Giornata in discoteca, a loro dedicata. Si tratta di un appuntamento mensile, due ore da trascorrere nel pomeriggio a discoteca chiusa. Potranno ballare, sì, ma tra di loro, senza gli altri!
Come si può definire inclusiva una pratica del genere? Dove sta l’inclusione? Eppure, tanti accolgono queste iniziative con gioia, quasi con un senso di liberazione, mentre in realtà siamo davanti a un meccanismo perverso: chi organizza questo genere di eventi strumentalizza per altri fini (magari politici) la disperazione delle famiglie, offrendo soluzioni che non abbattono barriere, ma le rafforzano.
Invece di creare momenti davvero condivisi, dove i cosiddetti “normali” possano interagire e divertirsi con le persone con disabilità, si preferisce optare per momenti separati, che appaiono solidali, ma che in realtà alimentano l’esclusione. Siamo noi familiari, troppo spesso, a essere complici di queste dinamiche perverse. Anziché accontentarci di un sorriso effimero, dovremmo avere il coraggio di rifiutare questo genere di iniziative.
Intendiamoci: trovo che non vi sia nulla di sbagliato nel formare gruppi di persone con disabilità che condividono interessi e obiettivi comuni. Tuttavia questi obiettivi non possono essere limitati a un paio d’ore in discoteca o una giornata al luna park, camuffata da Disability Day. L’inclusione è qualcosa di ben più profondo: significa creare spazi e opportunità in cui tutti possano davvero convivere e crescere insieme.

Nella città in cui vivo sono stati messi in campo progetti e risorse alternative che hanno dimostrato quanto l’inclusione possa essere concreta e significativa. Un esempio sono le tazzine chiamate Smodellate, create da persone con disabilità. Ogni tazzina è unica, diversa dalle altre, e proprio per questa loro magnifica imperfezione sono apprezzate e vendute. I loro creatori trovano in questa attività un senso di appartenenza, perché l’inclusione vera consiste nel dare un lavoro che sia gratificante e, soprattutto, vario. Se non si persegue questo obiettivo si rischia di trasformare tutto in una monotona catena di montaggio, proprio come accadeva durante la Rivoluzione Industriale.
Mi è capitato di ascoltare persone che promuovevano progetti apparentemente inclusivi, ma che in realtà sfioravano lo sfruttamento. Una frase che mi ferisce profondamente è questa: «Se metti una persona normale a sgranare dieci chili di fagioli, si lamenterà, ma se lo fai fare a un autistico, lui non protesterà. Perfetto, cosa vogliamo di più?». Secondo questa logica aberrante, il fatto che una persona con autismo compia un’attività senza ribellarsi significherebbe che gli piace farlo. Ma com’è possibile essere d’accordo con questa idea vergognosa?
Se parliamo di “progetto di vita”, non possiamo proporre alle famiglie soluzioni standardizzate, contenitori vuoti in cui inserire i figli per condannarli a una vita monotona fatta di mansioni ripetitive, come sgranare fagioli, assemblare pezzi di protesi dentali o preparare tortellini. Un vero progetto di vita deve partire da una domanda fondamentale: «Cosa piace fare a questa persona?», «Cosa la appaga e la rende felice?». Come non capire che la motivazione è ciò che muove ciascuno di noi, e che questo vale anche per chi ha una disabilità?
Non possiamo limitarci a dire: «Lui è autistico, obbedisce, quindi tanto meglio». È inaccettabile che progetti così spersonalizzati prosciughino le risorse economiche persino delle famiglie, che spesso si trovano con le tasche vuote, ma si sentono dire: «Andrà tutto bene». Questa frase, tristemente ricorrente, non ha mai portato nulla di buono, e noi dobbiamo rimanere vigili.

Le famiglie, con figli ormai adulti, vivono nella costante ansia del futuro. Sentono il peso del tempo che passa e la paura di non essere più in grado di garantire un domani dignitoso ai propri cari. È per questo che, talvolta, accettano qualsiasi proposta, pur di vedere i loro figli fare “qualcosa”. Alla fine qualcosa ci inventeremo, diceva il titolo discutibilissimo di un libro che ho letto qualche anno fa. No: non è “qualcosa” da inventare la soluzione del problema. ma ciò che occorre trovare è la soluzione “giusta”!
Ci chiediamo mai davvero cosa vogliano fare questi ragazzi? Cosa li interessa? Quali sono le loro attitudini? Se non partiamo da queste domande, il progetto di vita sarà sempre qualcosa di imposto, e i nostri figli si troveranno a subirlo, costretti a fare attività che non li appassionano, come impastare pizze, pulire cozze o altre mansioni che possono (forse) essere utili a qualcun altro, ma non a loro.
L’esclusione, purtroppo, inizia molto presto, già dall’infanzia, e prosegue e si allarga nella società col trascorrere degli anni. È ancora vivo in molti di noi il ricordo a scuola di quell’armadietto vuoto, mentre gli altri avevano attaccati gli inviti alle feste di compleanno. È ancora viva la ferita di quelle recite in cui per nostro figlio non c’era spazio, perché sembrava rovinare il momento. È ancora vivo il ricordo di quelle gite considerate pericolose o inutili per lui.
L’inclusione vera non è solo una parola, ma un impegno che deve partire da una profonda comprensione delle persone, dei loro desideri, delle loro passioni. Perché solo così potremo costruire per loro, e con loro, un futuro che sia davvero su misura.

Abbiamo lottato invano per garantire ai nostri figli il diritto allo studio. Durante le prove INVALSI [Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione, N.d.R.] ci veniva suggerito di tenerli a casa, per non disturbare il normale svolgimento di test standardizzati che dovrebbero rappresentare la qualità della scuola italiana. Ma come si può avere un quadro completo della scuola, se dalle statistiche vengono esclusi centinaia di migliaia di studenti, compresi quelli con DSA (disturbi specifici dell’apprendimento)? Questi ultimi, pur partecipando alle prove come gli altri, non vengono considerati ai fini statistici. Ancora peggio, gli alunni con disabilità cognitiva non le sostengono affatto. Per il “signor INVALSI”, è come se non esistessero.
La normativa attuale prevede che per accedere agli studi universitari sia necessario ottenere un diploma di scuola secondaria di secondo grado. Tuttavia, gli studenti con programmazione differenziata ottengono solo un attestato delle competenze, anche se sostengono l’esame calibrato sulle loro capacità. Questo documento, come ho appena ricordato, è standardizzato e non mette in evidenza né valorizza le competenze acquisite. Il risultato? Molte persone con disabilità non hanno accesso a percorsi universitari progettati su misura per loro. Altro che inclusione!

Dopo la scuola superiore, le famiglie sono ancor più abbandonate a se stesse. Si trovano a gridare nel deserto. È come abbaiare alla luna. Le uniche prospettive sono rappresentate dal confinamento dei propri figli in centri di formazione, che ricordano da vicino le vecchie scuole speciali, o in centri diurni difficilmente accessibili. Un vero fallimento.
Il Ministero per le Disabilità, anziché pensare solo ad autopromuoversi, spesso con la passiva complicità di Associazioni del tutto incapaci di incalzarlo sul terreno del rispetto dei diritti, dovrebbe riflettere su queste problematiche e agire per restituire dignità alle persone con disabilità e alle loro famiglie. Allo stesso modo, Regioni e Comuni dovrebbero tenere a mente che il loro dovere (ho detto DOVERE) è impegnarsi quotidianamente per costruire una società inclusiva e aperta, con opportunità reali e concrete per tutti.
Bisognerebbe abbattere le barriere che iniziano dai marciapiedi delle nostre città, dove i cosiddetti “normali” si voltano. Non di rado, verso noi e i nostri figli con un sorriso che ferisce.
È necessario fornire alle famiglie un supporto concreto per uscire dall’isolamento sociale. Ma questo richiede il coinvolgimento di tutti, a partire dalla prima infanzia, in un processo di crescita culturale ed emotiva. Solo così potremo sperare di costruire una società davvero inclusiva, ogni giorno dell’anno e non solo in occasione di ricorrenze e momenti simbolici che non lasciano traccia.

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