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“Sport si può”, punto di riferimento nel panorama educativo e sportivo della Provincia di Varese

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È in pieno svolgimento il progetto “Sport si può”, promosso dall’Associazione Sportiva Dilettantistica POLHA-VARESE, che offre corsi gratuiti di nuoto a bambini e ragazzi con disabilità tra i 6 e i 14 anni in orario scolastico. Questa iniziativa, che unisce sport, inclusione, volontariato e socialità, è diventata un punto di riferimento nel panorama educativo e sportivo della Provincia di Varese Alcuni bimbi e bimbe partecipanti al progetto “Sport si può”, qui in piscina insieme all’istruttrice

È in pieno svolgimento il progetto Sport si può, promosso dall’Associazione Polisportiva Dilettantistica POLHA-VARESE, che offre corsi gratuiti di nuoto a bambini e ragazzi con disabilità tra i 6 e i 14 anni in orario scolastico. Questa iniziativa, che unisce sport, inclusione, volontariato e socialità, è diventata un punto di riferimento nel panorama educativo e sportivo della Provincia di Varese.

«Uno dei punti di forza sta nella continuità: nato nel 1997 da un’idea del Tavolo Provinciale Sport Disabili e sostenuto interamente dalla Provincia di Varese fino al 2014, Sport si può è proseguito grazie all’impegno costante, sia organizzativo che economico, della nostra Associazione. Negli anni di maggiore attività, il progetto ha raggiunto numeri straordinari: 320 alunni, 8 piscine, 60 scuole, 35 istruttori specializzati e oltre 200 tra insegnanti ed educatori coinvolti in un solo anno. Dopo il ritiro della Provincia nel 2015, la sostenibilità dell’iniziativa è stata garantita dalla collaborazione con i Comuni delle scuole aderenti, dai gestori delle piscine e da sponsor individuati dalla nostra organizzazione», sottolinea la presidente dell’Associazione, Daniela Colonna-Preti. «Con orgoglio possiamo affermare che, ad oggi, oltre 5.000 alunni con disabilità hanno potuto vivere gratuitamente questa esperienza unica».

Quest’anno il progetto è attivo con POLHA nelle piscine di Caronno Pertusella, Castiglione Olona, Tradate e Varese, grazie al sostegno dei rispettivi Comuni, nonché di quelli di Casciago, Venegono Inferiore e Venegono Superiore.
Gli alunni e alunne partecipano ai corsi durante l’orario scolastico: accompagnati dai loro insegnanti, raggiungono le piscine dove li attendono istruttori esperti nella didattica del nuoto per persone con disabilità e i volontari di POLHA. Grazie a questarete di collaborazioni tra pubblico e privato, anche nel 2025 oltre 300 alunni con disabilità stanno vivendo l’emozione del nuoto, a titolo completamente gratuito per loro, per le famiglie e per le scuole partecipanti. (C.C.)

Per maggiori informazioni: POLHA-VARESE (info@polhavarese.org).

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“Adesso Basta!”, un impegno per il cambiamento

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Si chiama “Adesso Basta!”, ossia “Un 2025 accessibile per tutti e tutte” la petizione online lanciata da Working Souls, azienda nata da un’idea dell’artista con disabilità Francesco Canale (“Anima Blu”), iniziativa che si propone in sostanza di essere un manifesto per trasformare le barriere in opportunità, toccando cinque punti: taxi accessibili, auto adattate, voli e treni accessibili, concerti e spettacoli fruibili senza barriere

Adesso Basta!: ha un nome perentorio la petizione lanciata sulla piattaforma Change.org da Working Souls, azienda nata nel 2021 da un’idea dell’artista con disabilità Francesco Canale (noto anche come “Anima Blu”), che sta portando avanti numerose e variegate iniziative a favore dell’inclusione per cambiare il paradigma che vuole la disabilità relegata al mondo non profit, all’attivismo o alle realtà “caritatevoli”.

Adesso Basta! è in sostanza un manifesto per trasformare le barriere in opportunità. Cinque i punti toccati: taxi accessibili, auto adattate, voli e treni accessibili, concerti e spettacoli fruibili senza barriere. Viene ritenuto assurdo, a esempio, che nel 2025 una persona con disabilità debba pagare di più per un taxi solo perché ha bisogno di una pedana. La mobilità, infatti, è un diritto, non un privilegio. La petizione chiede dunque parità nelle tariffe e più veicoli accessibili sulle strade, perché la libertà di movimento non può avere un prezzo diverso. Working Souls si ispira al modello del Regno Unito, dove il Transport for London ha introdotto politiche che garantiscono accessibilità per tutti e tutte, senza costi aggiuntivi, e obbliga i taxi a dotarsi di rampe.

Altro argomento, i costi per modificare e rendere accessibili le automobili che possono essere pari al prezzo dell’auto stessa, se non di più. Per far sì, dunque, che l’autonomia non sia un privilegio per pochi, la petizione propone un sistema di sostegno pubblico-privato per coprire i costi di adattamento dei veicoli per chi non può permetterselo.

Il diritto di viaggiare, del resto, è un ulteriore punto di Adesso Basta!. Prendiamo i voli aerei, per i quali, se l’accompagnatore è indispensabile, il suo biglietto aereo dev’essere gratuito. Come già accade sui treni e in altri Paesi, anche l’Italia deve allinearsi a questo principio di civiltà, perché il diritto a viaggiare non può essere un peso doppio per chi ha una disabilità. E per Working Souls anche la mobilità ferroviaria dev’essere un diritto universale: le pedane sui treni non sono un optional, ma sono necessarie su ogni convoglio. Solo così sarà garantita vera autonomia di movimento, sicurezza e libertà di viaggiare da qualsiasi stazione. Con riferimento poi al Regolamento Europeo 1300/2014, che stabilisce appunto standard di accessibilità per il trasporto ferroviario, la petizione chiede che l’Italia si impegni ad adeguare tutte le proprie infrastrutture, a partire dalle stazioni locali e garantendo formazione al personale per un’assistenza dignitosa e professionale.

Infine, l’accesso alla cultura e agli spettacoli. Oggi, ad esempio, è possibile avere un solo accompagnatore ai concerti, una limitazione alla socialità. Adesso Basta! propone tre accompagnatori ammessi, procedure di prenotazione più semplici e il rispetto delle quote dei posti riservati. Inoltre, pone l’attenzione sull’accessibilità fisica e tecnologica delle strutture, con l’introduzione di sottotitoli, audiodescrizioni e tecnologie assistive per eventi culturali, come già previsto, ad esempio, dalla normativa francese sull’accessibilità.

«Questo manifesto – spiega Francesco Canale – non è solo un appello, è un piano d’azione. Chiediamo infatti a istituzioni, imprese e società civile di sottoscriverlo e impegnarsi concretamente. Il 2025 deve diventare l’anno della svolta per l’accessibilità in Italia. Solo insieme possiamo costruire un futuro dove la disabilità non sia più sinonimo di limitazione, ma di pari opportunità e piena inclusione sociale».
4cFuture, Business Unit di 4C dedicata alla sostenibilità, e Happy Network, rete di imprese impegnata a favore dell’inclusività negli ambienti lavorativi e nella vita di ogni giorno, supportano con convinzione il progetto affinché l’accessibilità diventi la norma, e non l’eccezione.
«Siamo pronti a trasformare il cambiamento in realtà – conclude Canale, invitando a sottoscrivere la petizione -, perché un mondo senza barriere è un mondo più giusto per tutti e tutte». (Stefania Delendati)

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Giovani, disabilità e futuro: incontro tra il Forum Europeo sulla Disabilità e il commissario Micallef

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Una delegazione dell’EDF, il Forum Europeo sulla Disabilità, guidata da Lydia Vlagsma, ha incontrato nei giorni scorsi il commissario europeo Glenn Micallef. L’incontro ha evidenziato le difficoltà che i giovani con disabilità affrontano quotidianamente, e si è discusso anche di cyberbullismo nei confronti delle persone con disabilità Il commissario europeo Micallef con Lydia Vlagsma dell’EDF

Una delegazione dell’EDF, il Forum Europeo sulla Disabilità, ha incontrato nei giorni scorsi il maltese Glenn Micallef, commissario europeo per l’Equità Intergenerazionale, la Gioventù, la Cultura e lo Sport. La delegazione del Forum era guidata da Lydia Vlagsma, co-presidente del Comitato Giovani dell’EDF stesso.

Durante l’incontro, la delegazione ha posto l’accento sugli “ostacoli sproporzionati” che i giovani con disabilità devono affrontare in tutti gli àmbiti della vita quotidiana e ha esortato il Commissario a garantire la loro inclusione nelle politiche e nelle iniziative legate alla gioventù. Tra le richieste principali avanzate dalla delegazione dell’EDF:
° Rappresentanza: inserire i giovani con disabilità in tutte le strutture partecipative dell’Unione Europea, come il Consiglio Consultivo Giovani della Presidente della Commissione e il Gruppo per i Giovani dell’Unione Europea.
° Accessibilità culturale: promuovere inclusività nel settore culturale attraverso strumenti come il prossimo Culture Compass e il programma Creative Europe.
° Partecipazione ai programmi di mobilità: migliorare l’accesso dei giovani con disabilità a Erasmus+ e al Corpo Europeo di Solidarietà.

Un ulteriore tema affrontato è stato quello del cyberbullismo nei confronti delle persone con disabilità e le possibili azioni a livello europeo per contrastarlo.

Dal canto suo, quindi, Micallef ha espresso il proprio impegno a portare la voce dei giovani con disabilità in tutte le piattaforme politiche, segnalando un’attenzione particolare per rendere la cultura più accessibile e inclusiva.
«È stato molto incoraggiante – ha dichiarato Vlagsma – confrontarsi con il commissario Micallef e sentire il suo impegno a rafforzare la rappresentanza dei giovani con disabilità nel lavoro della Commissione. I problemi che i giovani con disabilità affrontano – dal cyberbullismo alla salute mentale, dall’istruzione alla mobilità e occupazione – sono interconnessi e meritano di essere affrontati in tutte le politiche e i programmi pertinenti». (C.C. e S.B.)

Per ulteriori informazioni: André Felix (responsabile della Comunicazione dell’EDF), andre.felix@edf-feph.org (cui scrivere in inglese).

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Il “Mare per tutti” di Tiliaventum ha vinto il concorso fotografico del Forum Europeo sulla Disabilità

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Siamo particolarmente contenti di annunciare che il primo premio del tradizionale concorso fotografico promosso dal Forum Europeo sulla Disabilità, dedicato quest’anno al tema “Attraverso l’obiettivo dell’accessibilità: storie di barriere, sfide e buone pratiche”, è arrivato in Italia ed esattamente a Daniele Passoni, presidente dell’Associazione Tiliaventum di Lignano Sabbiadoro (Udine), che da anni promuove il programma “Sea4All” (“Mare per tutti”) La foto “Sea4All” di Daniele Passoni, che ha vinto il primo premio nell’edizione di quest’anno del concorso promosso dal Forum Europeo sulla Disabilità

«L’accessibilità va oltre rampe e ascensori: si tratta di rimuovere barriere in ogni àmbito della vita, dagli spazi fisici alle piattaforme digitali e alla comunicazione inclusiva. La vera accessibilità, infatti, significa garantire che tutti possano partecipare pienamente e in autonomia. E tuttavia, per molte persone con disabilità, la vita è un mix di ostacoli, sfide e trionfi, navigando in un mondo che spesso ignora le loro necessità»: era partita da questa premessa l’edizione di quest’anno del tradizionale concorso fotografico promosso dall’EDF, il Forum Europeo sulla Disabilità, dedicato appunto al tema Through the accessibility lens: Stories of barriers, challenges and good practices (“Attraverso l’obiettivo dell’accessibilità: storie di barriere, sfide e buone pratiche”) e rivolto, come sempre, a cittadini/cittadine o residenti dell’Unione Europea di tutte le età.

Siamo dunque particolarmente contenti di annunciare che il primo premio dell’iniziativa è arrivato quest’anno in Italia ed esattamente a Lignano Sabbiadoro (Udine), al Presidente di un’Associazione spesso presente anche sulle nostre pagine, in particolare con il proprio progetto Sea4All (“Mare per tutti”). Si tratta di Daniele Passoni, presidente dell’Associazione Sportiva Dilettantistica Tiliaventum, aggiudicatosi appunto il primo premio del concorso, con la foto qui a fianco pubblicata, intitolata essa stessa Sea4All.
«Si tratta – spiega Passoni – di uno scatto ripreso durante le innumerevoli, continuative e inclusive attività di mare per tutti della nostra Associazione, sulle acque antistanti Lignano Sabbiadoro, a bordo della barca a vela accessibile #Càpita, con gli entusiasti Omar, Antonella e Remo che, sorridenti, navigano, timonano e regolano le vele».
«Questo premio – commenta – è motivo di grande soddisfazione per me, per Tiliaventum e per tutti i Soci e Volontari/e del nostro sodalizio, un esempio, oggi anche fotograficamente riconosciuto a livello europeo, di come si possa condividere, tutti/e insieme, indipendentemente dalle cosiddette “disabilità”, una quotidianità sempre più ricca ed appagante».
Tanti complimenti a Tiliaventum, naturalmente, anche da parte di Superando! (S.B.)

A questo link è disponibile una selezione delle foto che hanno partecipato all’edizione 2025 del concorso promosso dall’EDF.

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Alla teologia manca ancora il capitolo della disabilità

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In riferimento al recente convegno di Assisi “A Sua Immagine. ‘Us’ not ‘Them’”, che ha preso spunto dal libro “A Sua immagine? Figli di Dio con disabilità”, traduzione sostanziale di una pubblicazione del gesuita australiano Justin Glyn, dopo avere ospitato gli interventi del vescovo Francesco Antonio Soddu e dello stesso Justin Glyn, diamo oggi spazio a quello della teologa Ilaria Morali Ilaria Morali è docente di Teologia Dogmatica alla Pontificia Università Gregoriana di Roma

Quando alcuni anni orsono venni contattata da Giovanni Merlo esplorando l’ipotesi di un mio intervento a Milano sul tema Fede e Disabilità, confesso di essere rimasta, sulle prime, piuttosto spiazzata dal tema, per me completamente nuovo. In effetti, nella formazione di un teologo generalmente non si prevedono corsi di teologia sulla disabilità, né questa è materia di discussione. Semplicemente non se ne parla.
Nonostante la novità, ero però consapevole di essere cresciuta intellettualmente alla scuola dei grandi teologi gesuiti del Novecento, esponenti di un rinnovamento teologico che si prefiggeva di riportare il tema della condizione storica dell’uomo al centro della riflessione cattolica e di ricostituire il legame tra teologia e vita…, perché la teologia potesse rispondere alla domanda di senso avanzata dagli uomini del proprio tempo. In questo modo essi hanno di fatto preparato col loro impegno la strada del Concilio Vaticano II, cui essi personalmente contribuirono.

L’incontro con gli scritti di Padre Justin Glyn mi ha indubbiamente fornito la bussola per riposizionarmi, aiutandomi a comprendere in una luce nuova anche alcune letture di questi teologi che, pur non affrontando il tema specifico, mostrano tuttavia una spiccata sensibilità per tutte le forme di vulnerabilità che toccano l’esistenza umana. «Assumendo una natura umana – scriveva Henri de Lubac negli Anni Trenta – è la natura umana… che egli ha incluso in lui… tutta intera la porterà dunque al Calvario, tutta intera la resusciterà, tutta intera la salverà…» (1).
È un passo dell’opera Catholicisme che ebbe il merito di porre in rilievo la dimensione sociale del Cristianesimo nei suoi assi portanti.
Due aspetti mi colpiscono di questa affermazione: la sottolineatura circa la «natura tutta intera» che Cristo assume e include in sé e salva. Non si parla di una natura perfetta, ma di una natura tutta intera: l’intero è dato dalle diverse condizioni con le quali questa natura si declina e vive nella storia. Dunque anche la disabilità. Il secondo è la prossimità con quanto leggiamo nella Costituzione Pastorale Gaudium et Spes, al n. 22, testo molto conosciuto: «Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo (cum omni homine quodammodo Se univit).Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo (31) ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché il peccato (32)».
Vorrei qui sottolineare un aspetto circa l’espressione conciliare: «Cristo si è unito ad ogni uomo». Non si specifica un uomo determinato, né ancora una volta un modello perfetto di uomo, ma si usa l’espressione forte «ogni uomo» al quale il Verbo si è unito. E sottolineerei anche quell’«egli si è fatto veramente uno di noi».

Il senso vero di questa affermazione si può cogliere tornando al Credo, a un passo che ci è familiare, ma che non conosciamo nel suo contenuto teologico profondo. Mi riferisco al passo «per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e si è fatto uomo».
Due osservazioni: nella confessione di fede, torna per due volte la parola uomo in riferimento all’incarnazione di Cristo. È un’affermazione dogmatica, dunque normativa, sancita da ben due concili, di Nicea (325) e di Costantinopoli I (381) e tocca «la verità intima di Dio, la salvezza dell’uomo in tutte le sue dimensioni» (2). È però interessante notare come nella versione originale del testo in lingua greca ricorra il termine anthropos, due volte nella stessa frase: la prima, al plurale è riferita a noi, mentre la seconda è resa in forma verbale in riferimento all’incarnazione di Cristo. La traduzione italiana del termine greco, in “uomini”, “si è fatto uomo”, non permette di cogliere appieno il valore della scelta operata dai Padri Conciliari: anthropos, infatti, è il termine che in greco designa l’essere umano, in quanto tale, in tutta la sua ricchezza, non quindi il maschio.
Con quel “per noi uomini”, i Padri Conciliari hanno voluto indicare tutti gli esseri umani, uomini e donne, destinatari della salvezza, mentre il principio che si vuole esprimere con ἐνανθρωπήσαντα (en-anthropesanta), che noi traduciamo con “si è fatto uomo”, equivale ad affermare che il Verbo, nell’incarnazione, si è «inumanato», prendendo veramente tutto ciò che appartiene e fa dell’umanità… l’umanità, eccetto ovviamente il peccato. Un’affermazione forte, dunque, che rende la Rivelazione cristiana unica nell’orizzonte delle proposte religiose della storia.

L’incontro con il pensiero di Padre Glyn mi ha permesso tuttavia di notare come, nonostante l’incredibile attenzione dei teologi e del Magistero per questi temi, non si sia tuttavia giunti a considerare il tema della disabilità parte integrante di questa concretezza e non si sia riconosciuto in queste intuizioni un terreno propizio per una teologia della disabilità.
A proposito di Gaudium et Spes, Justin Glyn sottolinea, tra i vari, tre aspetti che mi sembrano teologicamente significativi in rapporto alla disabilità:
° rispetto a tesi sostenute in passato, il peccato «deriva dalle scelte dell’uomo e non dalla nostra costituzione fisica o mentale. Non è una caratteristica del corpo, che è creato tanto buono quanto limitato»;
° l’assunzione piena dell’umano da parte di Cristo non significa annichilire la natura creata dell’uomo, ma elevarla…» e questa elevazione, secondo la dottrina cristiana, avviene per grazia.
° Di qui una terza fondamentale affermazione: «la grazia è fondata sulla natura, tutta la natura», non una natura modello, ma la natura concreta, appunto in tutte le declinazioni che ne delineano la condizione storica. Per natura qui si intende implicitamente la natura dell’uomo in rapporto al dono della vocazione divina. E la grazia della salvezza è donata a ogni essere umano indipendentemente dalla sua condizione fisica, perché Cristo ha assunto tutto l’essere umano: ossia, in quel «per noi uomini» ci siamo dunque proprio tutti, senza distinzione.
Ora, come lo stesso Glyn afferma con vigore, «la grazia riguarda la relazione costante di Dio con gli uomini, tutti gli uomini… Nessuno è escluso perché nessuno di noi è concepito per essere lasciato fuori» In altri termini, la dispensazione della grazia non dipende certamente dal fatto di essere più normodotati di altri: «un corpo danneggiato, sofferente o menomato – scrive il gesuita neozelandese – è sempre e comunque un corpo creato meraviglioso che mostra l’immagine di Dio in virtù della propria umanità e non in funzione di ciò che può o non può fare» (3).

Vorrei aggiungere che ultimamente in teologia si è affacciato il tema della vulnerabilità di cui la disabilità costituisce uno dei vari capitoli. In un articolo di Catherine Vialle, professore di esegesi, su questo tema, si afferma giustamente che «Dio, in Cristo, viene ad abitare tutte le vulnerabilità», non solo nei momenti cardine della vita di Cristo, nascita e morte, «ma anche lungo tutta la sua esistenza» (4). Di qui qualche riflessione conclusiva.
Rispetto a queste verità incontrovertibili e profondamente dogmatiche, finora mi sembra manchi in teologia e, di riflesso, nello stesso modo di parlare della disabilità da parte cattolica, la consapevolezza di questo principio cristologico: Cristo unito ad ogni uomo, ogni, fattosi realmente uomo ed insieme il fatto che la sua grazia agisce e si relaziona ad una natura concreta, che tra le sue declinazioni conosce nella storia anche quella della condizione della disabilità.
Questa lacuna si riflette sullo stesso linguaggio che in àmbito cattolico si utilizza in riferimento al tema della disabilità. Mi sembra infatti ancora prevalere un’ottica paternalista: quella che vede, da un lato, il “noi” dei normodotati distanziato e distinto da “loro” delle persone con disabilità: noi impegnati perché “loro” si sentano accettati nella comunità. Glyn la definisce «retorica dell’inclusione», lamentando come l’esperienza vissuta della disabilità non sia ancora entrata a fare pienamente «parte dell’autocomprensione della Chiesa» (5).
Questo spiega anche il titolo del libro cui ho partecipato con un piccolo intervento finalizzato appunto a porre in evidenza quello che a mio avviso è ancora un capitolo mancante in teologia dogmatica. Dogmatica perché, come si è visto, i princìpi di riferimento – incarnazione, grazia ecc. – sono parte della dottrina di fede e hanno valore normativo. In tal senso non concordo con quanto scritto da Dominique Foyer, teologo dell’Università Cattolica di Lille, quando afferma che la prima cosa che la teologia deve fare davanti alla disabilità (e qui mi sembra che la sterile distinzione tra noi e loro sia presente) è tacere, senza cadere nella tentazione di parlare a nome di altri (6).
Se passi avanti sono stati nel frattempo compiuti, anche grazie al magistero di Papa Francesco, molti restano da fare sia nella riflessione teologica che nella pastorale e, più in generale, nel modo di affrontare il tema della disabilità nelle nostre parrocchie e comunità.
Ritengo perciò che l’iniziativa di pubblicare il contributo di Justin Glyn in traduzione sia tanto più preziosa: la prospettiva che ci addita, infatti, quella del “noi”, non solo ci apre gli occhi mostrando i limiti degli approcci finora adottati, ma oggettivamente schiude strade nuove. A noi il compito di percorrerle fino in fondo con coraggio, anche da teologi.

Ringraziamo Giovanni Merlo per la collaborazione.

*Docente di Teologia Dogmatica alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. I contenuti del presente contributo corrispondono a quelli dell’intervento pronunciato nel corso del convegno “A Sua Immagine. ‘Us’ not ‘Them’”, tenutosi il 6 marzo 2025 ad Assisi (Perugia) (se ne legga la nostra presentazione). Rispetto al medesimo convegno, segnaliamo anche, sempre sulle nostre pagine, gli interventi di Francesco Antonio Soddu (“Il ruolo della Chiesa e la distruzione di ogni muro di separazione”) e di Justin Glyn (“Le vere necessità delle persone con disabilità cattoliche oggi”), rispettivamente a questo e a questo link.

Note:
(1) H. de Lubac, Catholicisme. Les aspects sociaux du dogme, Oeuvres complètes, VII, Paris, Cerf, 2003.

(2) L.F. Ladaria, Che cos’è un dogma? Il problema del dogma nella teologia attuale, in «Problemi e prospettive di Teologia Dogmatica», Brescia: Queriniana, 1983, p. 101.
(3) J. Glyn, “Noi, non loro”: la disabilità nella Chiesa, in «La Civiltà Cattolica», 1 (2020), p. 43.
(4) C.Vialle, Vulnerabilité humaines dans la Bible, in C. Vialle, M. Castro, P. Rodriguez, L’humain vulnerable face aux crises. 1.Vulnerabilité du vivant, Paris, Cerf, 2023, p. 139.
(5) J. Glyn, “Noi, non loro”: la disabilità nella Chiesa cit., pp. 41-52.
(6) D. Foyer, Quand la vulnerabilité de la personne handicapée dévoile la vulnerabilité de Dieu, in C. Vialle, M. Castro, P. Rodriguez, L’humain vulnerable face aux crises. 1.Vulnerabilité du vivant cit., p. 71.

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Serve estrema attenzione per l’intelligenza artificiale che “feticizza” la disabilità

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«Rubano immagini in rete e le “danno in pasto” all’intelligenza artificiale, per creare profili falsi (“deepfake”) di avvenenti ragazze e donne con sindrome di Down: è l’ultima, allarmante moda, che si sta rapidamente diffondendo in rete, specialmente sui social, in particolare su alcune piattaforme, tra cui OnlyFans»: a denunciarlo è l’Associazione AIPD che sottolinea come sia fondamentale porre l’attenzione su questo fenomeno di estrema pericolosità Una delle immagini “deepfake” create con l’intelligenza artificiale per l’allaramante trend “OnlyDown”

«Rubano immagini in rete e le “danno in pasto” all’intelligenza artificiale, per creare profili falsi (tecnicamente, deepfake) di avvenenti ragazze e donne con sindrome di Down: è l’ultima, allarmante moda, che si sta rapidamente diffondendo in rete, specialmente sui social, in particolare su alcune piattaforme, tra cui OnlyFans, con l’obiettivo di catturare l’attenzione di chi, attratto da questi profili, è pronto a pagare per avere loro foto o video»: la denuncia arriva dall’AIPD (già Associazione Italiana Persone Down, ma da qualche settimana divenuta Associazione Italiana Persone con Sindrome di Down), che spiega ancora come «OnlyDown sia il trend diffusosi nelle scorse settimane, dando particolare visibilità ad alcuni di questi profili, tra cui quello di una certa Maria Dopari: i tratti somatici caratteristici della sindrome di Down erano prestati a un corpo che si mostra, provocante, in varie pose e angolazioni. Dal profilo Instagram si viene quindi dirottati a Telegram e di qui viene proposto l’acquisto del relativo account di OnlyFans. I contenuti sono quasi sempre molto espliciti».

A spiegare ancor meglio come funziona il tutto è Matteo Flora, imprenditore, professore in Sicurezza delle Intelligenze Artificiali e delle SuperIntelligenze all’European School of Economics, conduttore televisivo e autore, tra l’altro, di Ciao Internet, il più seguito canale YouTube di Tech Policy in Italia. «Recentemente – spiega Flora nell’introduzione del video in cui illustra il trend OnlyDown – sui social come TikTok e Instagram si è registrato un trend apparentemente positivo legato a ragazze con sindrome di Down che mostrano con naturalezza la propria vita quotidiana. Tuttavia, scavando più a fondo, emerge una realtà molto più inquietante: profili fake generati tramite intelligenza artificiale che sfruttano l’immagine di persone reali (ignare e modificate), per vendere contenuti su piattaforme come OnlyFans. Dietro al fenomeno ci sono problematiche complesse: l’insufficiente regolamentazione legale e tecnologica contro questi abusi; le difficoltà di moderazione da parte delle piattaforme social; il confine molto labile tra inclusione e feticizzazione di persone vulnerabili».Proprio per prevenire e contrastare questi abusi, lo stesso Flora ha segnalato numerosi profili, alcuni dei quali sono stati rimossi, come quello citato di Maria Dopari, che aveva raggiunto quasi 150.000 follower.

Interpellato dall’AIPD, per averne un consiglio da rivolgere alle persone con sindrome di Down e alle loro famiglie, consentendo loro di proteggersi da questi abusi, Matteo Flora ha detto di «avere già fatto rimuovere circa un migliaio di contenuti, ma l’AIPD, come Associazione, potrebbe interfacciarsi direttamente tramite l’AGCOM (Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni), per chiedere le singole rimozioni. Sarebbe ancora una volta l’affermazione di una leadership nel campo, che secondo me l’AIPD deve reclamare a gran voce».
Il suggerimento è stato accolto con favore da Gianfranco Salbini, presidente nazionale dell’AIPD, consapevole di quanto il problema richieda attenzione: «La ricerca di visibilità attraverso l’esposizione dei propri figli – afferma – è diventata, purtroppo, una pratica comune. Tuttavia, è fondamentale porre l’attenzione su questo fenomeno, ancora più allarmante: l’utilizzo dei deepfake per sfruttare l’immagine delle persone con disabilità. Anche se parlarne potrebbe generare un effetto di emulazione, è essenziale sensibilizzare le famiglie sull’estrema pericolosità di queste pratiche. Il mercato dell’immagine umana, quando non regolamentato, può diventare uno strumento diabolico di sfruttamento, soprattutto per le comunità più vulnerabili».
«In Italia – aggiunge Salbini -, la legge prevede pene detentive da uno a cinque anni per chi crea e diffonde contenuti deepfake che causano danni ingiusti. Tuttavia, la rapidità con cui queste tecnologie si evolvono richiede un costante aggiornamento delle normative e una maggiore consapevolezza da parte del pubblico. Ritengo quindi fondamentale approfondire e diffondere queste informazioni, per proteggere le persone con disabilità e prevenire ulteriori abusi». (S.B.)

Per ulteriori informazioni: ufficiostampaaipd@gmail.com.

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La fase formativa del progetto “For All – Roma una città fruibile per tutti”

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Tra ieri 14 aprile, e oggi, 15 aprile, si è svolta la fase formativa del progetto “For All – Roma una città fruibile per tutti”, rivolta agli operatori di Protezione Civile e Croce Rossa impegnati nell’accoglienza delle persone con disabilità per il “Giubileo 2025”. Realizzato con il contributo del Fondo Carta Etica di UniCredit, il progetto ha quale capofila la Federazione FISH, in partenariato con l’ANFFAS Nazionale, la FAIP, Pedius, il Consorzio La Rosa Blu e il MAV L’intervento del presidente della FISH Falabella alla due giorni di formazione del progetto “For All – Roma una città fruibile per tutti”

In attesa della data riguardante il lancio ufficiale del progetto, che verrà annunciata entro breve, è già pienamente in corso la due giorni di formazione di For All – Roma una città fruibile per tutti, rivolta, tra ieri 14 aprile, e oggi, 15 aprile, agli operatori di Protezione Civile e Croce Rossa impegnati nell’accoglienza delle persone con disabilità per il Giubileo 2025.

Titolo della due giorni di formazione è Il nuovo concetto di disabilità: come accogliere le persone con disabilità, che ha visto nella giornata di ieri l’intervento di Stefania Leone, presidente dell’ADV (Associazione Disabili Visivi), Gabriele Favagrossa, esperto della FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie) e Michele Adamo, consigliere nazionale della UILDMM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare).
Oggi, invece, sono intervenuti Vincenzo Falabella, presidente della FISH e consigliere del CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro), ancora Gabriele Favagrossa e Alessandro Parisi dell’ANFFAS Nazionale (Associazione Nazionale di Famiglie e Persone con Disabilità Intellettive e Disturbi del Neurosviluppo).

Realizzato con il contributo del Fondo Carta Etica di UniCredit, For All – Roma una città fruibile per tutti, che dopo la formazione si articolerà su altre iniziative generatrici di accessibilità, ha quale capofila la FISH, in partenariato con l’ANFFAS Nazionale, la FAIP (Federazione delle Associazioni Italiane di Persone con Lesione al Midollo Spinale), Pedius, il Consorzio La Rosa Blu e il MAV. (S.B.)

Per ulteriori informazioni: ufficiostampa@fishonlus.it.

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Oggi l’angioedema ereditario fa meno paura: lo racconta anche un cortometraggio

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Oggi l’angioedema ereditario, malattia rara disabilitante e potenzialmente letale, fa decisamente meno paura, grazie all’innovazione terapeutica e alla possibilità di una profilassi preventiva. Lo racconta anche il cortometraggio “Il Colloquio”, che il 16 aprile verrà ufficialmente presentato alla stampa italiana, durante l’incontro online denominato “Angioedema ereditario: oggi fa meno paura”

Malattia rara disabilitante e potenzialmente letale, attualmente l’angioedema ereditario (HAE), grazie all’innovazione terapeutica e alla possibilità di una profilassi preventiva, fa decisamente meno paura di prima: una buona gestione della malattia, infatti, permette alle persone che ne sono affette e ai loro caregiver la prospettiva di una vita senza limitazioni.

Per celebrare questo importante passaggio epocale e continuare a diffondere conoscenza sulla condizione di vita con la malattia, la Società BioCryst, impegnata nell’area terapeutica dell’angioedema ereditario, ha realizzato il cortometraggio denominato Il Colloquio, presentato recentemente anche durante l’81^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, nell’àmbito del Premio Son of a Pitch Award.

Il Colloquio verrà ufficialmente presentato alla stampa italiana nel pomeriggio del 16 aprile (ore 16.30-18), durante l’incontro online denominato Angioedema ereditario: oggi fa meno paura, organizzato dalla stessa BioCryst, in occasione dell’apertura del Mese dedicato alla consapevolezza su questa malattia (la cui Giornata Mondiale ricade a maggio).
L’evento si avvarrà della media partnership dell’OMaR (Osservatorio Malattie Rare), nonché del patrocinio dell’AAEE (Associazione volontaria per l’Angioedema Ereditario ed altre forme rare di angioedema) e di ITACA (Italian Network for Hereditary and Acquired Angioedema). (S.B.)

Per ulteriori informazioni: melchionna@rarelab.eu (Rossella Melchionna).

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La solitudine dei caregiver

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Verrà presentato oggi, 15 aprile, a Milano, il numero di aprile di «VITA magazine», interamente dedicato a “La solitudine dei caregiver”, volume in cui si dà grande rilievo alle storie dei/delle caregiver, coivolgendo esperti ed esperte del settore, intervistando la Ministra per le Disabilità e proponendo un panorama dei servizi più innovativi messi in campo dal Terzo Settore in questo àmbito. E infine anche interviste a scrittori, artisti, sceneggiatori che hanno messo la cura dell’altro al centro della loro opera

Sarà interamente dedicato a La solitudine dei caregiver il numero di aprile di «VITA magazine» che verrà presentato nel pomeriggio di oggi, 15 aprile (ore 18), nel corso di un evento pubblico che si terrà a Milano (Sala Liberty Il Treno, Via San Gregorio, 46).
«In Italia i caregiver familiari sono più di 7 milioni, per il 60% donne. In prospettiva aumenteranno. È un destino che ci attende tutti: prenderci cura dei nostri padri e delle nostre madri quando “diventeranno piccoli”. Solitudine, disorientamento, stanchezza, impotenza sono dimensioni che i caregiver sperimentano quotidianamente: tutto quel bianco nella bellissima copertina firmata da Magda Azab lo restituisce in maniera impattante», spiega la giornalista Sara De Carli in un articolo di presentazione del numero monografico.

L’opera è articolata in tre capitoli. Il primo di questi sarà dedicato alle storie. Sono cinque le famiglie che hanno deciso di raccontare la propria quotidianità. Cinque testimonianze molto diverse tra loro per età dei protagonisti e delle protagoniste e per il tipo di relazione che li/le lega.
Si va dalla cosiddetta “generazione sandwich” (ossia le donne impegnate sia nella cura di figli adolescenti che di persone anziane) «al giovane caregiver, dal genitore a cui la nascita di un figlio con una disabilità complessa ha cambiato la vita fino a chi si prende cura di qualcuno avendo lui stesso bisogno di cura. Le difficoltà quotidiane si toccano con mano, i buchi del sistema pure. Il tempo per sé è la risorsa che più manca, l’amore la ricchezza più grande», racconta sempre De Carli.
C’è poi la storia dei Terconauti, due fratelli divenuti influencer sui social, quella di Margherita Tercon, sorella e caregiver di Damiano, un giovane nello spettro autistico, che si raccontano in chiave ironica. La vita da grandi, il film di diretto da Greta Scarano, attualmente al cinema, è ispirato al loro libro autobiografico Mia sorella mi rompe le balle. Una storia di autismo normale (Mondadori, 2020).
Si parlerà inoltre della Legge che dovrebbe introdurre specifiche tutele per loro, giacché in Italia, pur avendo conseguito un primo riconoscimento formale con la Legge 205/17 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020) e un modesto fondo dedicato, non hanno ancora una norma nazionale che disciplini la materia.
In merito a questo profilo, nel magazine viene riportata l’indicazione della misura ritenuta più urgente da portare alla politica secondo il parere espresso da venti esperti ed esperte del settore appositamente interpellate sulla questione. Risposte che la ministra per le Disabilità Alessandra Locatelli ha commentato in un’intervista inclusa nella monografia.

Il secondo capitolo è dedicato quindi a “curare chi cura” e propone un panorama dei servizi più innovativi messi in campo dal Terzo Settore in questo campo. Spiega De Carli: «I caregiver ancora troppo spesso navigano senza bussola, lasciati soli ad orientarsi tra i tanti bisogni e i servizi esistenti. La cura di sé, in particolare, diventa quasi un lusso. L’innovazione? Sta nei dettagli: collocando lo sportello informativo dentro un mercato rionale; portando lo psicologo sulla strada, con un pullmino; chiamando in aiuto dei mediatori culturali. C’è chi fa leva sulla musica, chi sul camminare insieme, chi usa dei visori e chi ha inventato un palinsesto per la tv».

L’ultimo capitolo, infine, ospita delle interviste a scrittori, artisti, sceneggiatori che hanno messo la cura dell’altro al centro della loro opera: Daniele Mencarelli, Emma Ciceri, Roy Chen, Luca Doninelli, Ilaria Turba, Mariapia Veladiano, Fosco e Sirio Bertani. «Interviste sorprendenti, in cui i caregiver possono rileggere i loro gesti di cura e trovare nell’arte una forma di resistenza esistenziale», conclude De Carli. (Simona Lancioni)

A questo link è disponibile il programma dettagliato dell’evento di presentazione del numero monografico a Milano. Il presente contributo è già apparso nel sito di Informare un’H – Centro “Gabriele Giuntinelli” di Peccioli (Pisa) e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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Scioglimento della riserva relativa al possesso della certificazione internazionale di alfabetizzazione digitale – Allegato A CCNL Istruzione e Ricerca 2019/2021 – Graduatorie di circolo e di istituto di terza fascia del personale Ata per il...

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Ipofosfatasia: tutti coloro che collaborano alla presa in carico dei pazienti

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Durante l’incontro online del 15 aprile sul tema “Ipofosfatasia – Il ruolo della cooperazione multistakeholder nella gestione del paziente”, si approfondiranno aspetti fondamentali della presa in carico di persone affette da ipofosfatasia (HPP), malattia rara i cui sintomi, diversi e spesso comuni ad altre patologie, ne ritardano la diagnosi

Organizzato da ISHEO, con il contributo non condizionante di Alexion, è in programma per il pomeriggio del 15 aprile (ore 15) l’incontro online sul tema Ipofosfatasia – Il ruolo della cooperazione multistakeholder nella gestione del paziente, in cui si approfondiranno aspetti fondamentali della presa in carico di persone affette da ipofosfatasia (HPP), malattia rara i cui sintomi, diversi e spesso comuni ad altre patologie, ne ritardano la diagnosi. Per questo è fondamentale che tutti coloro che a vario titolo entrano in gioco nella presa in carico dei pazienti, cooperino al fine di diagnosticarla in maniera appropriata e tempestiva.
Durante il webinar, sarà presentato tra l’altro l’ISHEO Report, testo divulgativo e di approfondimento, con dati di recente letteratura e il punto di vista di professionisti che si occupano di ipofosfatasia. Verranno inoltre evidenziati i maggiori bisogni non soddisfatti di pazienti e caregiver. (S.B.)

Per iscriversi al webinar accedere a questo link. Per ulteriori informazioni: Anita Fiaschetti (anitafiaschetti@gmail.com).

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Quel paradigma culturale che deve cambiare per avere una giusta legge sui caregiver familiari

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Pensando anche all’opportunità di avviare un costruttivo e approfondito dibattito sul tema, diamo spazio al presente contributo di riflessione, firmato da tre donne caregiver familiari, componenti del “Tavolo tecnico per l’analisi e la definizione di elementi utili per una legge statale sui caregiver familiari”, istituito dai Ministeri del Lavoro e delle Politiche Sociali e per le Disabilità

Siamo esperte su nomina della ministra per le Disabilità Alessandra Locatelli nel Tavolo tecnico per l’analisi e la definizione di elementi utili per una legge statale sui caregiver familiari, istituito dai Ministeri del Lavoro e delle Politiche Sociali e per le Disabilità.
Costituito con Decreto nell’ottobre 2023 e insediatosi a gennaio 2024, il Tavolo avrebbe dovuto, in un lasso di tempo di sei mesi, lavorare per formulare proposte ai fini dell’elaborazione di un Disegno di Legge volto al riconoscimento del ruolo svolto dal caregiver familiare. Pochi incontri in plenaria e la divisione dei lavori in gruppi tematici che avevano il compito di analizzare aspetti precisi della redigenda norma: Finalità e definizione della figura; Procedura di riconoscimento; Tutele e sistemi di sostegno; quest’ultimo il gruppo che ha lavorato in maniera più serrata e approfondita. Siamo tuttora in attesa delle risultanze del lavoro svolto e della sintesi conclusiva degli Uffici Legislativi dei Ministeri coinvolti.

L’entusiasmo di poter finalmente lavorare in maniera fattiva e specifica su questa materia, che dava risposta all’attesa annosa di noi caregiver familiari impegnati in un percorso di consapevolezza ed emancipazione dal ruolo che la vita ci ha assegnato e nel quale la società ci ha rinchiuso, ha lasciato ben presto in noi posto alla frustrazione. La volontà politica di coinvolgere nel Tavolo la più ampia gamma di attori non ha seguito un principio elementare di distinzione, né di equilibrio numerico, delle rappresentanze dei caregiver familiari, individui con diritti soggettivi propri, dalle rappresentanze delle persone con disabilità, professionisti e persone che della rappresentanza hanno fatto una professione; a questo si aggiunge il principio adottato di valutare la validità delle istanze secondo il volere della maggioranza dei partecipanti.
Da subito si è evidenziato un disallineamento fra chi, abituato a difendere i diritti delle persone con disabilità, spesso anche da professionista, non riesce a comprendere il dovere e l’urgenza di considerare il caregiver familiare nella sua individualità, dando importanza al ruolo sociale che, obtorto collo, si assume, e che al momento, nella nostra società, gli comporta di scomparire come cittadino al pari. Tra chi, considerando chiunque caregiver familiare, punta ad ottenere ulteriori servizi per la persona con disabilità e chi chiede un’analisi attenta sull’incidenza che il caregiving ha nella vita di un caregiver familiare, ben consapevole dell’impatto che ha la convivenza con il proprio congiunto con disabilità. Tra chi dà per scontato che il caregiver familiare possa essere scelto dimenticando la realtà delle persone con disabilità che non hanno capacità giuridica di effettuare scelte e chi si ribella alla possibilità di soggiogare alcuni cittadini al bisogno dei loro congiunti con disabilità, perché alla condizione di disabilità dal punto di vista assistenziale e sanitario deve corrispondere un sistema di servizi e non un caregiver familiare. E ancora, tra chi si rifiuta di accettare il distinguo fra persone con disabilità intellettivo relazionali, del neurosviluppo o con decadimento cognitivo, che per la natura stessa della loro condizione di disabilità abbisognano che un adulto del nucleo familiare convivente assuma la responsabilità di quella vita e quindi il ruolo di caregiver familiare, e persone che vivono in condizioni di disabilità che non intacca la loro capacità cognitiva ed autodeterminativa, e per ciò stesso hanno bisogno di un sistema di servizi e non di un caregiver familiare, perché i rapporti familiari seguono un principio di reciprocità, e non si può ne dovrebbe consentire loro di assoggettare un proprio congiunto alle loro necessità.

Contemporaneamente, in Commissione Sanità alla Camera dei Deputati è stato avviato l’iter per arrivare ad una norma nazionale per il Riconoscimento del ruolo svolto dal caregiver familiare, all’interno del quale la Commissione stessa ha svolto, la scorsa estate, le audizioni cui abbiamo avuto la possibilità di partecipare, ognuna in rappresentanza del proprio organismo di riferimento.
Anche in Parlamento è stato riproposto lo stesso schema di auditi, mettendo cioè assieme, senza alcun rispetto di un equilibrio almeno numerico, le rappresentanze dei caregiver familiari alle rappresentanze delle persone con disabilità che da decenni parlano indistintamente a nome di ogni tipo di disabilità, quando non le rappresentanze di individui con specifiche patologie.
A febbraio la Commissione Parlamentare Affari Sociali ha svolto l’audizione della ministra per le Disabilità Locatelli sul tema. In quell’occasione, mentre ascoltavamo i lavori della Commissione Parlamentare, con l’esperienza accumulata al Tavolo Nazionale, ci passavano davanti agli occhi le nostre vite e quelle innumerevoli di quelli come noi, caregiver familiari, cioè coloro che al sopraggiungere di una disabilità che compromette la capacità autodeterminativa di una persona del proprio nucleo familiare convivente, si sono dovuti assumere la responsabilità di quella vita.
La nascita dei nostri figli con una disabilità intellettivo relazionale e del neurosviluppo, la complessità e la numerosità delle cose da affrontare fin da subito e la necessità di una presenza continua per comprendere, valutare e operare scelte sulla loro vita, sulla loro crescita, la necessità di interfacciare con i professionisti e i servizi, di gestirli e metterli a sistema, di scegliere le équipe e le strategie utili, nell’incapacità e impossibilità dei nostri stessi figli di fornire il proprio apporto puntuale e consapevole, ci hanno costrette a ridurre drasticamente quando non ad abbandonare il lavoro e ad affrontare una condizione di dipendenza economica da altri che certo non era nella nostra indole e formazione culturale.
Non abbiamo avuto modo di scegliere, perché non ce n’è la possibilità; fin dal primo momento la vita della persona con disabilità deve essere costruita e sostenuta, in suo nome e conto bisognava costantemente decidere, su esigenze quotidiane di poco conto, come su esigenze sanitarie, come sulla costruzione del suo progetto di vita.

Noi caregiver familiari, noi che conviviamo con i nostri figli e congiunti che hanno una compromissione o alterazione della capacità cognitiva e percettiva della realtà, con i nostri cari che non distinguono le proprie emozioni e sensazioni, che non hanno un canale comunicativo utile a relazionarsi con il mondo che li circonda, che non sono in grado di interfacciare autonomamente con i servizi e di gestirli, che non sanno organizzare la giornata, ma necessitano di attività e stimoli continui a scandire il tempo di cui non hanno contezza, che abbisognano di anticipatori e continuità nei luoghi e nelle relazioni per non incorrere in comportamenti-problema, noi ben conosciamo la condizione unica e solitaria del caregiver familiare, ossia di chi assume, per responsabilità e senza alcuna possibilità di scelta o evasione, il compito di portare avanti la vita del proprio congiunto convivente, organizzandogli il quotidiano così come il futuro, e rappresentando la memoria storica del suo percorso di vita.
La complessità, la stanchezza, la solitudine quotidiana e nelle scelte, l’impossibilità di cedere, la paura per il futuro dopo di noi, questi sono i nostri compagni di vita, in una previsione di 20, 30, 40, 50 anni, quando non sine die, sempre in allerta e affrontando ogni accadimento imprevisto per rispondervi in maniera adeguata, sostenendo una vita sotto continuo ricatto affettivo, nella consapevolezza che dalla propria lucidità in ogni situazione dipende tutto il ménage quotidiano e in tutto questo costruire la vita del nostro congiunto con disabilità per quando non ci saremo più.

All’ascolto della Commissione, ogni intervento degli Onorevoli Deputati che continuavano a parlare di persone con disabilità e non di noi caregiver familiari, accresceva il nostro sbigottimento e la nostra delusione. Possibile mai che l’esistenza e il riconoscimento del caregiver familiare venga ancora confusa e legata alla condizione di disabilità in generale o, peggio, al bisogno assistenziale della persona con disabilità? L’assistenza fisica o infermieristica si esplica attraverso i servizi preposti a questo, e la redigenda norma non può dare spazio ad una quantificazione o addirittura a una monetizzazione della solidarietà umana e familiare, né può acquisire come certe le carenze dei servizi alla persona con disabilità, delegandole al caregiver familiare, in quel ricatto affettivo e ingiusto già attivo in svariate Regioni d’Italia, per cui il familiare firma il Progetto Assistenziale Individualizzato della persona con disabilità, assumendosi specifici compiti quotidiani affinché alla persona con disabilità venga riconosciuto quanto di suo diritto.
È apprezzabile che la Ministra abbia dimostrato di avere ascoltato le narrazioni nostre e di altri, è fondamentale, poi, che abbia riconosciuto come prioritario il principio di convivenza, così come la solitudine dei nuclei monogenitoriali e monoparentali. Manca sempre e comunque a tutti la capacità di superare quel tabù culturale che ci impedisce di vedere in maniera lucida la realtà che distingue le persone tra coloro che con la maggiore età acquisiscono la capacità di agire, ossia l’idoneità del soggetto a curare consapevolmente i propri interessi e a valutare la portata degli atti da attuare ed accettarne gli effetti, e coloro che la giurisprudenza considera sempre “minori”, indipendentemente dall’età anagrafica. Tutti hanno la capacità giuridica, ma non tutti acquisiscono la capacità di agire. Negare questo fondamentale distinguo tra persone significa non accettare la realtà della nostra società e continuare a non voler considerare appieno la responsabilità che un caregiver familiare è obbligato ad assumere nell’arco di una vita; significa non conoscere la complessità di un ruolo che porta a vivere una vita in due, dove la propria esistenza, quella del caregiver familiare, passa in secondo piano, perdendo ogni autonomia e libertà.

Da anni, a mani nude, attraverso movimenti spontanei, appoggiati dalla sola forza della nostra realtà, ci battiamo per imporre questo cambio di paradigma culturale che veda in noi una frangia di popolazione che non vuole rinunciare al proprio ruolo, ma vuole essere sostenuta e riconosciuta perché ricopre un ruolo sociale.
La massificazione degli interventi e delle misure è il primo nemico di ogni giusto intervento legislativo, e oggi rappresenta anche l’ostacolo alla capacità di individuare chi è il caregiver familiare per poi valutarlo come individuo a sé, titolare di diritti soggettivi propri. Una norma sul caregiver familiare deve rispondere esclusivamente alle esigenze di questi.

*Erika Coppelli è caregiver familiare, presidente del Tortellante (laboratorio terapeutico abilitativo e palestra di autonomia per giovani adulti nello spettro autistico); Sofia Donato è caregiver familiare, portavoce del gruppo nazionale Caregiver Familiari Comma 255, che porta avanti la battaglia per l’individuazione e il riconoscimento della figura del caregiver familiare, interloquendo con l’amministrazione e la politica ad ogni livello; Cristina Finazzi è caregiver familiare, presidente dell’Associazione Spazio Blu Autismo Varese, portavoce del Comitato Uniti per L’Autismo, Coordinamento regionale lombardo nato nel 2018, comprendente oltre 50 associazioni per l’autismo e migliaia di famiglie, impegnato per chiedere e operare con la propria Regione e gli Enti/Istituzioni preposti, per l’attuazione delle Leggi Regionali e Nazionali in materia di autismo.

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Siamo noi a ringraziare Stefania, per la sua intelligenza e la sua sensibilità

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«Anche per il blog “InVisibili” è stato motivo di gioia e di orgoglio questo riconoscimento a una persona che da qualche anno è pure una nostra firma, con i suoi testi che sono gemme preziose nel raccontare storie riguardanti il mondo della disabilità»: lo scrive Alessandro Cannavò, a proposito del “Premio Marina Garbesi”, ricevuto nei giorni scorsi dalla nostra direttrice responsabile Stefania Delendati Alessandro Cannavò e Stefania Delendati

L’11 aprile scorso anche per noi di InVisibili [blog del «Corriere della Sera.it», N.d.R.] è stata una giornata particolare, piena di gioia e di orgoglio: Stefania Delendati ha ricevuto a Imola il Premio Marina Garbesi «per il suo impegno a tutela dei diritti delle persone disabili, la cura e la tenacia con cui lo svolge, l’eleganza dello stile, il contributo costante – dal 2024 in qualità di direttrice – che ha dato alla storia ventennale di Superando.it, un organo di informazione che affronta, e risolve, la questione del linguaggio sulle persone disabili nella pratica quotidiana».
In questa motivazione c’è un ritratto perfetto di Stefania, che da qualche anno è anche firma di InVisibili, pezzi centellinati, circa uno al mese, ma gemme preziose nel racconto di storie che riguardano il mondo della disabilità.

Credetemi, da caporedattore che legge e passa tanti articoli, li titola, ne trae spunto per altre idee giornalistiche da esplorare, leggere Stefania è un grande piacere per la cura della scrittura, la capacità di andare a fondo nelle problematiche, la generosità nel dare voce agli interlocutori. C’è una grande professionalità, ma anche una capacità di ascolto degli altri, atteggiamento indispensabile per stabilire un’empatia e fare un servizio pubblico con il proprio lavoro.

Ammetto che quando cominciò a collaborare con InVisibili, conoscevo poco della storia di Stefania, ma ci fu una sua proposta e il seguente articolo che mi colpirono particolarmente: la storia di Gabriella Bertini, negli Anni Settanta la prima donna italiana in sedia a rotelle a guidare un’automobile con comandi al volante. A Firenze aveva ristrutturato un casolare del quale aveva fatto la sede (e la storia) delle rivendicazioni dei diritti delle persone con disabilità. Una pioniera assoluta in un’epoca in cui si parlava di persone “spastiche”, “handicappate” da riempire solo di pietismo.
Quel pezzo mi sembrò così bello, originale e importante che volli proporlo alla mia vicedirettrice vicaria Barbara Stefanelli, responsabile del magazine «7», sempre sensibile alle storie di impegno e lotte per i cambiamenti della società. E l’articolo uscì con grande rilievo, accompagnato da una bella fotografia giovanile della Bertini, capigliatura alla Joan Baez e, accanto, la foto della sua Fiat 500L color arancio.
A quel punto, volli conoscere personalmente Stefania, con la quale avevo scambiato fino a quel momento solo messaggi via mail e una telefonata.

In una mattina di inizio febbraio, incerta tra il nebbione e un timido sole, andai a trovarla a Soragna, Bassa Parmense, terra del culatello e del parmigiano reggiano (c’è anche un museo del prelibato formaggio), sede di un encomiabile Museo Ebraico con Sinagoga, che raccoglie i ricordi di una comunità della zona ormai estinta; ma soprattutto paese dominato dall’imponente rocca trecentesca Meli Lupi, un castello oggi fonte di attrazione turistica, che si visita spesso in compagnia dell’attuale principe che ancora vi abita in una porzione.
Stefania vive invece con il padre e la madre in una villetta fuori dal paese, stradine strette che dividono i campi, orizzonte piatto senza un pur lontano profilo montuoso di riferimento (più Padania di così…), e la fabbrica dei genitori accanto alla casa. Una storia comune di tante famiglie italiane del dopoguerra, dedite al lavoro con tenacia e genialità, che hanno contribuito alla crescita economica del Paese. Ma nella famiglia di Stefania c’è stato in più un elemento dirompente che ha richiesto nuove sfide, nuovi orizzonti, nuova capacità di resilienza: la disabilità.

Fui accolto con un calore pieno di discrezione, ma genuino come il parmigiano reggiano. Conversare con Stefania faccia a faccia a trecentosessanta gradi mi ha confermato la dimensione del suo valore, vederla gestire la sua carrozzina, così come osservare i gesti della mamma e del papa nell’organizzazione della vita quotidiana è stato un esempio di come si possa trovare un adattamento a ogni condizione.
Pranzammo piacevolmente (e gustosamente); poi telefonammo ad Antonio Giuseppe Malafarina: stava già molto male, da lì a qualche giorno se ne sarebbe andato, ma il suo spirito sempre propositivo era rimasto intatto. Fu inconsapevolmente un addio, che gli demmo insieme, io e Stefania.

Nei giorni precedenti lo scorso Natale, chiesi a Stefania di scrivere un pensiero per le feste. Pensavo, lo ammetto, a qualche considerazione generale legata alla disabilità. E invece lei mi inviò una inaspettata e sincera confessione personale del momento difficile che stava vivendo: «Quest’anno è arrivata la variante che non t’aspetti, quella che non avresti mai immaginato per la durezza delle sue conseguenze, per l’incertezza dell’esito e per il modo in cui si è abbattuta su una vita, la mia, costruita anno dopo anno intorno a equilibri tenuti insieme da un filo sottile e fragile che ha saputo intrecciare nuove trame man mano che la malattia genetica che mi accompagna dalla nascita ha tolto la mio corpo forza e movimenti, un filo che in un istante è stato tagliato da una forbice malefica. Mi hanno sempre detto che sono forte e coraggiosa, invece non sono né l’una, né l’altra cosa, ho sempre dovuto adeguarmi con fatica, tanta, fare di necessità virtù».
Parole che scuotono, che ti riportano bruscamente alla realtà. Ma in questo duro autoritratto Stefania parlava anche delle due dita della mano sinistra, l’indice e il medio ancora funzionanti e che, grazie alla tecnologia, «sono tutto ciò che mi rimane per stare aggrappata alla vita e al mondo che ci circonda». Pubblicammo quel post sconvolgente per la sua verità con l’immagine delle due dita che si sfiorano nella Creazione michelangiolesca.

Oggi Stefania sta meglio, ha ricevuto il suo meritatissimo premio e ha ringraziato. Ma siamo noi a ringraziarla per la sua intelligenza e la sua sensibilità che ci regala dal posto più remoto e più piatto della Pianura Padana. Dove però gli orizzonti possono essere infiniti.

*Il presente contributo è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “Il talento di Stefania che merita più di un premio” e viene qui ripreso, con minime modifiche dovute al diverso contenitore, per gentile concessione.

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