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“Info Point”, ovvero L’accessibilità è un diritto per tutte le persone con disabilità

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Grazie a “Info Point”, progetto dell’ANFFAS Nazionale, alcuni celebri luoghi romani di cultura hanno potuto dotarsi del bollino di “Sito Accessibile For All”, acquisendo accessibilità “universale”, non solo, quindi, legata all’abbattimento delle barriere architettoniche, ma anche di quelle senso-percettive e culturali, in piena attuazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità

Grazie al progetto dell’ANFFAS Nazionale (Associazione Nazionale Famiglie e Persone con Disabilità Intellettive e Disturbi del Neurosviluppo) denominato Info Point, l’accessibilità ad alcuni celebri luoghi romani di cultura diviene “universale”: non solo, quindi, abbattimento delle barriere architettoniche, ma anche di quelle senso-percettive e culturali, in piena coerenza e attuazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Si parla, in questa prima fase, della Keats and Shelley House, del Colosseo, della Domus Aurea, del Palatino, del Foro Romano, delle Industrie Fluviali, di Villa Farnesina, di Palazzo Colonna e della Galleria Colonna, oltreché di Come un Albero Museo Bistrot, di Explora-Museo dei Bambini e del Teatro Basilica.
«È grazie alla collaborazione della nostra Associazione e di tutti quei luoghi di cultura – spiegano dall’ANFFAS – che è stato possibile – nell’arco dei diciotto mesi del progetto attuato grazie ad un finanziamento avuto nell’àmbito del progetto NGEU (Next Generation EU), attraverso i fondi destinati al PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) – poter analizzare la situazione di fatto nella quale tali siti già garantivano un sufficiente grado di accessibilità, soprattutto in termini di abbattimento delle barriere architettoniche, e individuare tutte quelle azioni migliorative che, appunto, potessero loro consentire di acquisire il bollino di Sito Accessibile For All. Tutto questo si è realizzato grazie ad un selezionato gruppo di persone con disabilità intellettive e del neurosviluppo con impedimenti anche motori e di altra natura, che andando a visitare musei, teatri ecc., accompagnati da alcuni operatori nella funzione di facilitatori, si sono incaricati di individuare e suggerire tutti quegli accorgimenti che potessero, appunto, far sì che gli spazi culturali coinvolti potessero valutare di migliorare la propria accessibilità in senso “universale”. Si può affermare che i risultati abbiano superato le attese e questo anche grazie alla sensibilità e alla collaborazione dimostrata dai responsabili e dagli operatori dei siti di cultura interessati».

I risultati del progetto, dunque, sono oggi visibili a tutti e tutte all’interno di un database costruito ad hoc nel sito dedicato. Allo stesso tempo è stato predisposto un portale specifico per formare gli operatori dei luoghi di cultura sui nuovi concetti di accessibilità universale e su come introdurre ed utilizzare al meglio il linguaggio “facile da leggere e da capire” (Easy to Read) e la CAA (Comunicazione Aumentativa Alternativa), ma anche sulle modalità di accoglienza e gestione delle persone con disabilità ad alta complessità. Oggi, quindi, è disponibile un primo elenco di musei statali, musei privati e teatri le cui descrizioni, oltre alle classiche brochure cartacee o note inserite sui vari siti, sono tradotte sia in linguaggio Easy to Read che in CAA. E la citata piattaforma formativa, oltreché per gli operatori dei luoghi di cultura, si è rilevata assai utile anche per i facilitatori, per i familiari e/o volontari, e per le stesse persone con disabilità.

«Questo progetto – aggiungono dall’ANFFAS – assume particolare rilevo se si pensa che il completamento di esso è pressoché coincidente con l’avvio dell’Anno Santo e, quindi, con una imperdibile occasione per promuovere ulteriormente la cultura dell’accessibilità universale e fornire una formazione apposita sul tema di essa a tutti i soggetti interessati. Tra l’altro i luoghi di cultura la cui accessibilità è stata verificata dai nostri referenti e il cui personale abbia completato il previsto percorso formativo, possono oggi fregiarsi, come detto, del logo Sito Accessibile For All che ne attesta e garantisce la piena accessibilità. Un vero e proprio Plus che potrà essere di interesse per tutti gli altri siti sia della Capitale che delle altre città italiane». A tal proposito, l’ANFFAS Nazionale si dichiara sin da subito disponibile a collaborare con i luoghi di cultura dell’intero territorio nazionale e invita i referenti di musei, biblioteche, teatri e altre strutture culturali a contattare la propria sede nazionale (nazionale@anffas.net), «ai fini – viene detto – di rendere totalmente accessibile il nostro intero patrimonio culturale e poter esporre il logo di Sito Accessibile For All».
«Quest’ultimo – concludono dall’Associazione a proposito del logo – testimonia infatti l’impegno dei siti di interesse culturale nel promuovere e applicare concretamente i concetti dell’accessibilità universale e consentirà al pubblico di avere consapevolezza e certezza di visitare un luogo che non presenta barriere architettoniche e senso-percettive, garantendo anche il diritto alla fruizione delle relative informazioni per le persone con disabilità intellettive e del neurosviluppo e per tutti coloro che ne potranno avere indubbio beneficio. Il tutto in contesti in cui l’intero personale è adeguatamente formato e informato sulle varie forme di disabilità e sulle diverse necessità di sostegno e di relazione». (S.B.)

Per ogni ulteriore informazione: comunicazione@anffas.net.

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Sport e inclusione oltreoceano: dal Friuli Venezia Giulia a Guadalupa nei Caraibi

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Il progetto “Sports for Inclusion” ha portato giovani di tutta Europa, con e senza disabilità, a Guadalupa, nei Caraibi, per condividere un’esperienza unica tra sport acquatici e scambio culturale. La Cooperativa Sociale friulana Il Piccolo Principe ha rappresentato l’Italia in questa iniziativa, che ha puntato sull’inclusione attraverso attività sportive come il surf adattato e il kayak. L’energia del progetto continuerà a Casarsa della Delizia (Pordenone), con l’arrivo, da settembre, di volontari europei Una foto di gruppo a Guadalupa per i giovani coinvolti nel progetto internazionale “Sports for Inclusion”

All’insegna dello sport, da Casarsa della Delizia (Pordenone), in Friuli Venezia Giulia, alle spiagge della Guadalupa, nei Caraibi: protagonista di questo viaggio è stata la Cooperativa Sociale Il Piccolo Principe, che ha partecipato al progetto Sports for Inclusion, un’iniziativa finanziata dal programma europeo Erasmus+, insieme all’ANFFAS (Associazione Nazionale di Famiglie e Persone con Disabilità Intellettive e Disturbi del Neurosviluppo) e con l’Associazione Sportiva Dilettantistica Pinna Sub di San Vito al Tagliamento.

Il progetto, di cui è capofila la Fondazione ANFFAS Giulio Locatelli di Pordenone, ha permesso dunque a un piccolo gruppo di persone di vivere un’esperienza di scambio giovanile internazionale senza barriere.
Tra i partecipanti italiani, in rappresentanza del Piccolo Principe, sono partiti Angelique Manuel, educatrice del Centro Socio Occupazionale ed Enrico Cester che ha completato con successo il proprio percorso lavorativo alla “Cucina delle Fratte”. A completare la delegazione italiana, anche Daniele Furlanis, campione del mondo di nuoto pinnato, Piero Pasqualin, Sirio Brichese, Rachele Cecotto e Massimiliano Popaiz, allenatore della Nazionale Italiana di Nuoto Pinnato.
E all’iniziativa (nome completo: Sports for Inclusion – Progetto Surf & Inclusion), che si è svolta, come detto, in Guadalupa dal 16 al 23 marzo scorsi, hanno partecipato anche altri giovani provenienti da Spagna, Aruba, Guadalupa e Martinica.

L’obiettivo è stato quello di promuovere una vera inclusione, offrendo a giovani con e senza disabilità l’opportunità di condividere un’esperienza formativa e sportiva. Le attività principali si sono concentrate sugli sport acquatici, in particolare il surf adattato e il kayak, affiancate da metodologie di educazione non formale. I giovani partecipanti, di età compresa tra i 18 e i 30 anni (con accompagnatori senza limiti di età), sono stati coinvolti in un mix di attività sportive, alloggiando in riva all’oceano e godendo di un clima favorevole che ha reso l’esperienza ancora più piacevole.
«Si è trattato di un progetto che ha saputo coniugare sport, inclusione e scambio culturale, lasciando un segno tangibile nei partecipanti», ha commentato Luigi Cesarin, presidente del Piccolo Principe. E l’impegno di questa Cooperativa Sociale verso l’apertura e lo scambio continua: a partire da settembre e fino al mese di giugno del 2026, infatti, essa ospiterà due volontari europei che avranno l’opportunità di fare esperienza diretta nei diversi servizi offerti dalla realtà casarsese. (C.C.)

Per maggiori informazioni: Michela Sovrano (michela.sovrano@gmail.com).

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Il dibattito sui caregiver: considerare anche alcuni aspetti di natura molto pratica

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«Oggi – scrive Maurizio Ferrari – il tema dei caregiver familiari è giustamente sotto i riflettori e la prospettiva di giungere a una norma che ne riconosca l’imprescindibile ruolo sociale, disciplinando le indispensabili forme di tutela e di sostegno, sembra essere piuttosto concreta. E tuttavia, ho la sensazione che nel dibattito non siano considerati alcuni aspetti di natura molto pratica, ma, a mio parere, decisamente essenziali»

I caregiver familiari di persone con disabilità complesse hanno un ruolo sociale imprescindibile. Nel senso che la nostra società, semplicemente, non può farne a meno. E nessun caregiver familiare che conosco vuole abdicare a questo ruolo, ma ritiene a giusto titolo di dover essere adeguatamente riconosciuto e sostenuto.
Sono il padre di una giovane donna con autismo grave (“livello 3”, come dicono le classificazioni in vigore), che ha da poco intrapreso la strada della vita indipendente – ma con alti sostegni e protezioni – e per la quale mia moglie è stata caregiver “titolare esclusiva” per oltre 30 anni. Io ho fatto la mia parte come “caregiver di riserva”, ma il sistema retributivo che tuttora prevale nel nostro Paese ha indotto la nostra coppia genitoriale a fare una scelta quasi obbligata: papà guadagna di più, quindi lavorerà a tempo pieno; la mamma guadagna di meno, quindi lavorerà a tempo parziale per potersi dedicare alla figlia. Una scelta che ancora oggi provoca in noi dubbi e turbamenti, ma sulla quale non possiamo più fare nulla. Mia moglie si è dedicata all’impegno di cura con amore e abnegazione assoluti, nel profondo silenzio di un contesto sociale che dà per scontato ogni sforzo che un genitore può e deve produrre per il bene di un figlio con disabilità grave.
Il dibattito sulla figura del caregiver familiare è infatti molto recente, fino a una decina di anni fa non ne parlava nessuno. Nulla più che una questione privata, da risolvere nel nucleo familiare. Oggi il tema è giustamente sotto i riflettori e la prospettiva di giungere a un Disegno di Legge organico che inquadri opportunamente la figura del caregiver familiare, ne riconosca il ruolo sociale e, soprattutto, disciplini le indispensabili forme di tutela e di sostegno, sembra essere piuttosto concreta. Con tutte le cautele del caso…

Tuttavia, ho la sensazione che nel dibattito non siano considerati alcuni aspetti di natura molto pratica, ma, a mio parere, decisamente essenziali. Che ne sarà, ad esempio, di una persona che è stata caregiver per tutta la vita, o quasi, e che si ritrova oggi a essere considerata “ex caregiver”? Perché il figlio o la figlia ha intrapreso, in un modo o nell’altro, la strada della residenzialità uscendo quindi dalla convivenza con i genitori? In altri termini, i caregiver che giungono al termine del loro “servizio permanente effettivo” appena prima che una legge sancisca il giusto riconoscimento e sostegno del loro ruolo, finiranno con un pugno di mosche in mano? Continueranno a essere invisibili? Personalmente non credo che un Disegno di Legge degno di questo nome possa trascurare questo aspetto. E ho una mia idea in proposito. Ci arrivo andando un po’ in verticale nel ragionamento.
A mio parere, un corretto sistema di sostegni deve poter agire proficuamente quanto meno su due leve: conciliazione lavoro-vita-cura e tutela previdenziale.

Riguardo alla prima leva, ci sono molte cose che si possono fare: flessibilità degli orari, estensione del lavoro da remoto, job sharing, welfare contrattuale. Non mi dilungo perché in rete è possibile recuperare i materiali della normativa vigente e delle Proposte di Legge sulla figura del caregiver familiare, con tutte le ipotesi sul tavolo in tema di conciliazione lavoro-vita-cura.
Colpevolmente più scarse sono le proposte inerenti la seconda leva, ovvero la tutela previdenziale. Nella maggior parte dei casi, infatti, leggo di contributi figurativi a carico dello Stato, equiparati a quelli da lavoro domestico, nel limite complessivo di cinque anni, cumulabili a quelli eventualmente versati per attività lavorative di qualsiasi natura. Mi sembra un’ipotesi alquanto riduttiva, buona al massimo per sanare eventuali buchi contributivi.
Ma la questione è molto più complessa. Pensiamo infatti ai cosiddetti “ex caregiver” a cui facevo cenno prima, che hanno lavorato per una vita dovendosi anche prendere cura del congiunto con disabilità complessa e che non riescono ad andare in pensione anticipatamente perché la convivenza con il figlio con disabilità è appena terminata, oppure, quando ci arrivano, si ritrovano con un trattamento pensionistico da fame perché hanno sempre dovuto lavorare part-time.
So che i puristi si scandalizzeranno, perché più volte ho avvertito una sorta di rifiuto ad accostare l’impegno di cura, totalizzante e umanamente pervasivo, alla categoria del “lavoro”, ma in tutta franchezza preferisco guardare al risultato concreto, nel momento in cui questo sia in grado di dare piena dignità e tutela al caregiver o ex caregiver in questione.

In poche parole, per non escludere nessuno, ritengo che il caregiver familiare dovrebbe essere equiparato a chi svolge lavori usuranti, purché abbia svolto per almeno 10 anni (15? 20? Se ne può discutere…) l’attività di cura di una persona con disabilità grave. Come tale, il caregiver familiare avrebbe diritto alla pensione anticipata relativa appunto ai lavori usuranti: 41 anni e 10 mesi di contributi le donne, 42 anni e 10 mesi di contributi gli uomini, indipendentemente dall’età anagrafica.
Allo stesso modo, avrebbe diritto all’APE (Anticipo Pensionistico) Sociale (63 anni e 5 mesi, con almeno 30 anni di contribuzione), purché venga resa strutturale e il requisito di cura/assistenza cambi in questo modo: non più «caregiver che al momento della richiesta assistono da almeno 6 mesi il coniuge o un parente di primo grado convivente con handicap in situazione di gravità», bensì «caregiver che hanno assistito per almeno 10 anni (15? 20?) il coniuge o un parente di primo grado convivente con handicap in situazione di gravità».

Questioni venali, terra terra, dirà qualcuno. Ne siamo sicuri? Concordo sulla necessità di una presa di coscienza collettiva e di una profonda qualificazione culturale del dibattito, ma la causa dei caregiver familiari si gioca anche e soprattutto sui punti di caduta, non solo sugli inquadramenti teorici, per quanto rilevanti possano essere.
Chi è disposto a prendere in esame queste proposte? O a farne di alternative?

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Continuità di cura e strategie nei disturbi del neurosviluppo

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La SINPIA (Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza) ha pubblicato recentemente un documento il cui tema centrale è la continuità di cura. Pensato per milioni di bambini e adolescenti, il testo pone le basi per una riorganizzazione più equa e sostenibile dei servizi, nel rispetto del diritto alla salute e al benessere della persona lungo tutto il suo percorso di crescita evolutiva

Al centro c’è sempre la persona e il suo percorso: con il documento La continuità delle cure nei disturbi del neurosviluppo, pubblicato nel febbraio scorso, la SINPIA (Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza) aggiunge un tassello importante per trasformare questo principio in azioni concrete.

Il documento, che si può liberamente consultare e scaricare a questo link, elabora le linee di indirizzo clinico-organizzative per assicurare continuità di cura ai soggetti con disturbi del neurosviluppo. In sostanza, è stata elaborata una “guida” per affrontare i bisogni di milioni di bambini e adolescenti: con il 20% della popolazione infantile e adolescenziale coinvolta, è evidente, infatti, l’urgenza di un intervento su misura.

Il cuore del testo è dato da un approccio inclusivo: tutte le patologie neuropsichiatriche dell’infanzia e dell’adolescenza vengono incluse, con il paziente e le sue esigenze posti al centro del percorso di cura. Particolare attenzione è dedicata al passaggio tra i servizi per l’età evolutiva e quelli per l’età adulta, un momento cruciale spesso ostacolato da risorse limitate, burocrazia e carenze organizzative.

Per superare la frammentazione dei servizi, ridurre la cronicizzazione dei disturbi e migliorare la qualità della vita dei pazienti, nel documento della SINPIA emergono diverse soluzioni. Vengono in particolare individuate quattro fasi fondamentali per una transizione efficace: preparazione, passaggio, integrazione e monitoraggio, con il supporto di équipe specializzate e multidisciplinari. L’obiettivo è quello di un’assistenza personalizzata, adattandosi alla complessità dei disturbi nel tempo e sfruttando le finestre evolutive per massimizzare l’efficacia degli interventi.

Nel documento non solo si analizza la rilevanza epidemiologica di disturbi come quelli dello spettro autistico, ADHD (disturbo da deficit di attenzione e iperattività) e altri disturbi psichiatrici, ma si pone anche l’accento sull’importanza di un riconoscimento precoce e di interventi tempestivi, per guidarne l’evoluzione e ridurne l’impatto sociale.
A fianco delle famiglie, gli esperti evidenziano il sovraccarico dei servizi, esacerbato dalla pandemia da Covid, e invitano a una collaborazione più stretta tra le Istituzioni.

In sostanza, con questa pubblicazione la SINPIA intende offrire non solo una road map per un’assistenza più equa e sostenibile, ma anche un messaggio di speranza: il diritto alla salute e al benessere può diventare il pilastro di una società realmente inclusiva. (Carmela Cioffi)

Si ringrazia Giovanni Merlo per la segnalazione.

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Anche il “Tondo Doni” nell’audio-tour “Michelangelo audiodescritto” di Blindsight Project

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In marzo, cogliendo l’occasione del 550° anniversario dalla nascita di Michelangelo Buonarroti, l’Associazione Blindsight Project aveva reso noto di avere messo online l’audiodescrizione della “Pietà”. Ora è disponibile anche quella della “Sacra Famiglia”, opera nota anche come “Tondo Doni”. Entrambe le audiodescrizioni fanno parte dell’audio-tour “Michelangelo audiodescritto”, realizzato nell’àmbito del progetto “Talking Italy©”, promosso sempre da Blindsight Project La “Sacra Famiglia” (“Tondo Doni”) di Michelangelo

Il mese scorso avevamo dato notizia dell’inaugurazione di Michelangelo audiodescritto, iniziativa promossa dall’Associazione Blindsight Project nell’àmbito del più ampio progetto Talking Italy©. Quest’ultimo, lo ricordiamo, è un progetto ideato e portato avanti da tale Associazione, per rendere l’arte accessibile alle persone cieche e ipovedenti attraverso degli audio-tour.
Il 6 marzo scorso, dunque, cogliendo l’occasione della ricorrenza del 550° anniversario dalla nascita di Michelangelo Buonarroti (nato nel 1475 e deceduto nel 1564), Blindsight Project aveva reso noto di aver messo online l’audiodescrizione della Pietà (disponibile a questo link), il celeberrimo gruppo scultoreo ospitato presso la Basilica di San Pietro in Vaticano, che raffigura Maria (la Madonna) mentre sorregge il corpo esanime del figlio Gesù, dopo la sua passione e deposizione dalla croce. Ora segnaliamo che è divenuta disponibile online (al medesimo link) un’altra importante opera dell’artista toscano: la Sacra Famiglia, capolavoro pittorico di forma circolare, noto anche come Tondo Doni, realizzato nel 1505-1506 e ospitato dalla Galleria degli Uffizi di Firenze.
In esso i personaggi principali sono raffigurati in una sorta di posa “piramidale”, con Maria (in primo piano) seduta a terra, con le gambe piegate, che, con una torsione del busto, solleva e porge delicatamente Gesù Bambino nelle mani di San Giuseppe, posizionato dietro di lei. Sullo sfondo, distanziate e separate da un basso muretto, altre figure umane di difficile identificazione.

La Sacra Famiglia è stata audiodescritta da Laura Raffaeli, presidente di Blindsight Project, in collaborazione con Michela Calò dell’Università di Palermo, mentre la voce è di Ludovica Marineo.
Le prossime opere di Michelangelo che verranno audiodescritte dall’Associazione sono il Mosè e la Cappella Sistina.

In conclusione segnaliamo ancora una volta gli otto audio-tour realizzati sinora da Blindsight Project attraverso il progetto Talking Italy©: il Parco dei Mostri di Bomarzo, l’Antiquarium di Sutri e il Museo Colle del Duomo a Viterbo, Villa d’Este a Tivoli, il Complesso Monumentale di Sant’Agnese e Santa Costanza, la Chiesa di San Luigi dei Francesi, la Basilica di Santa Maria sopra Minerva a Roma e, infine, Michelangelo audiodescritto, che è, come detto, in fase di completamento. (Simona Lancioni)

Per ulteriori informazioni su Michelangelo audiodescritto: president@blindsight.eu.
Il presente contributo è già apparso nel sito di Informare un’h-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa) e viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti dovuti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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Le riflessioni di una parrocchiana (con disabilità)

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«Ho 57 anni e una tetraparesi spastica dovuta ad asfissia perinatale – scrive Donata Scannavini -. Per profonde convinzioni personali frequento da sempre la parrocchia che è sempre la stessa, ma vorrei qui cercare di fare un discorso più generale, anche se di certo non esaustivo, sul rapporto tra disabilità e fede, partendo appunto dalla mia esperienza personale»

Ho 57 anni e una tetraparesi spastica dovuta ad asfissia perinatale. Per profonde convinzioni personali frequento da sempre la parrocchia che è sempre la stessa, l’Annunciazione di Milano, non avendo io mai cambiato abitazione.
Ripensando alla mia esperienza in questo àmbito, devo in primo luogo sottolineare che il fatto di essere sempre stata nella stessa parrocchia mi ha senza dubbio facilitato le cose, nel senso che la maggior parte dei parrocchiani mi conosce da sempre, mi ha vista crescere e frequentare la parrocchia stessa, prima con i miei genitori, poi da sola o con mio marito. Mi sento quindi parte della parrocchia e noto con piacere che le persone mi aiutano spontaneamente, per esempio ad entrare in Chiesa o quando devo andare a fare la Comunione.
Anche con i sacerdoti che negli anni si sono succeduti non ho avuto particolari problemi, ho avuto anche qualche incarico, nel senso che per parecchi anni ho fatto parte del Consiglio Pastorale Parrocchiale.

Da queste prime righe sembra che la mia esperienza nella Chiesa sia stata sempre idilliaca, ma non è proprio così. Specie da bambina, infatti, benché i miei genitori mi esortassero a farlo, non amavo frequentare l’oratorio, percepivo nelle altre bambine e anche un po’ nelle suore, che gestivano l’oratorio stesso, una sorta di compatimento. Non venivo realmente inserita nel gruppo, non ero partecipe dei giochi e delle attività che venivano proposte – che magari avrei potuto fare anch’io con modalità diverse – ma rimanevo ai margini, con la netta sensazione che quando e chi si rivolgeva a me lo faceva per “fare un’opera buona verso la bambina handicappata”, come si diceva a quei tempi.
La situazione è nettamente migliorata durante l’adolescenza; anche grazie a una suora molto attenta a sostenermi in un periodo per me molto difficile – a 17 anni ho perso mio papà – mi sono inserita nel gruppo giovani e lì sì che sentivo di farne davvero parte, aiutata dove avevo necessità, ma per il resto considerata come tutti gli altri.

Questa in breve è la mia esperienza di Chiesa, dove comunque ho dato per scontato che l’elemento più importante è il cammino di fede che l’appartenenza a una comunità ecclesiale permette di fare e che per me è stato ed è fondamentale.
Vorrei ora cercare di fare un discorso più generale, anche se di certo non esaustivo, sul rapporto tra disabilità e fede, partendo appunto dalla mia esperienza.

È innegabile (comunque negli anni, anche solo in vacanza, mi è capitato di frequentare altre comunità) che esista nella Chiesa una visione pietistica e inferiorizzante della disabilità e di coloro che ne sono portatori, che, a mio parere, rispecchia pari pari quella della società civile; non vedo cioè una sostanziale differenza. Magari cambiamo le modalità con cui tali visioni si giustificano e si esplicano, per cui in ambito ecclesiale, ad esempio, si vede nella persona con disabilità qualcuno predestinato (non si sa bene perché) a “portare la croce” e quindi ad essere “corredentore del mondo” con Cristo, senza neanche chiedersi se alla persona stessa stia bene esserlo o se viceversa non abbia nessuna intenzione di aderire a questo presunto piano divino.
Come nel mondo civile, però, anche in quello ecclesiale le cose stanno lentamente cambiando, banalmente anche solo per il fatto che sono sempre più numerose le persone con disabilità che frequentano gli ambienti della società civile ed ecclesiale.
Ciò che a mio parere andrebbe fatto o almeno si dovrebbe cercare di fare in àmbito ecclesiale, è portare avanti in parallelo il discorso teologico e quello pastorale. Infatti è indubbia la necessità di scalfire tutte quelle errate convinzioni, come ha sottolineato molto bene Justin Glyn nel suo saggio “Us” not “Them”. Disability and Catholic Theology and Social Teaching (“Noi”, non “loro”. Disabilità, teologia e dottrina sociale cattolica), che hanno giustificato a livello teologico questa sorta di divisione tra “noi” (senza disabilità, mi permetto di aggiungere “forse”) e “loro” (con disabilità): siamo infatti tutti immagine di Dio e la disabilità non offusca quest’immagine. A mio parere, però, è altrettanto urgente lavorare a livello pastorale e quando parlo di “livello pastorale”, non intendo solo e tanto trovare delle modalità per far partecipare tutti e tutte alla varie funzioni o al catechismo, quanto fare in modo che ognuno si senta parte attiva della comunità, che possa trovare dei propri spazi e ruoli in cui, se lo desidera, mettersi egli stesso a servizio degli altri e della comunità.
Questo, a mio parere, potrebbe avere delle ricadute anche – mi si passi l’espressione – a livello teologico; se io vedo infatti una persona con disabilità impegnata in un servizio in parrocchia secondo le proprie possibilità e capacità, mi verrà più difficile considerarla solo come “un soggetto da aiutare”, in qualche modo “diverso dagli altri”.
Il cammino da fare in questo senso è ancora lungo, ritengo però che ci siano ormai delle buone basi per arrivare anche nella Chiesa a quel definitivo “noi” che includa tutti i figli di Dio.

Ringraziamo Giovanni Merlo per la collaborazione.

Sul rapporto tra Chiesa Cattolica e Disabilità, suggeriamo la lettura di una serie di contributi da noi recentemente pubblicati, ultimo dei quali Alla teologia manca ancora il capitolo della disabilità di Ilaria Morali (a questo link), in calce al quale sono indicati anche i link ad altri precedenti testi.

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Al fianco delle persone con disabilità anche a Gaza, dentro a una crisi umanitaria senza precedenti

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La popolazione della Striscia di Gaza vive una crisi umanitaria senza precedenti e in una situazione come questa è noto che le persone con disabilità sono “le più vulnerabili tra le vulnerabili”. Ma che qualcosa si possa fare anche nelle situazioni più difficili, lo dimostra il progetto “Cucina comunitaria”, sostenuto da CBM Italia, insieme ad Atfaluna Society for Deaf Children, che vede 20 persone con disabilità uditive preparare e consegnare pasti giornalieri a circa 1.750 persone

 

Una persona con disabilità della Striscia di Gaza riceve un pasto caldo grazie al progetto “Inclusive Community Kitchen – Cucina comunitaria”

La popolazione della Striscia di Gaza sta vivendo una crisi umanitaria senza precedenti: secondo i dati diffusi dalle Nazioni Unite, infatti, oltre l’80% della popolazione dipende dagli aiuti umanitari e chi sopravvive ai bombardamenti soffre la fame.
Com’è purtroppo ben noto, in situazioni di emergenza come questa, le persone con disabilità sono ancora più vulnerabili poiché spesso non vengono incluse nei piani di salvataggio, oltre al fatto che i loro ausili (bastoni, sedie a rotelle) possono danneggiarsi, con le strade e le infrastrutture che non sono percorribili, né esse riescono ad accedere agli aiuti.
Un ulteriore fattore di rischio riguarda il tasso di occupazione: infatti, secondo gli ultimi rapporti della Banca Mondiale, organizzazione internazionale per il sostegno allo sviluppo e la riduzione della povertà, il 90% delle persone con disabilità è senza lavoro a causa del conflitto in corso.

È in tale contesto che nasce il progetto denominato Inclusive Community Kitchen – Cucina comunitaria, sostenuto da CBM Italia, la nota organizzazione internazionale impegnata nella salute, l’educazione, il lavoro e i diritti delle persone con disabilità nel mondo e in Italia, insieme ad Atfaluna Society for Deaf Children, partner sul territorio, che promuove l’inclusione sociale, educativa ed economica delle persone sorde nella Striscia di Gaza.
«La Cucina comunitaria – spiegano da CBM Italia – fornisce ogni giorno pasti caldi e nutrienti a 250 famiglie sfollate (circa 1.750 persone) nella città di Deir Al Balah, al centro della Striscia di Gaza. A organizzare le operazioni quotidiane, a preparare e consegnare i pasti, già dal mese di giugno dello scorso anno e sino alla fine di aprile di quest’anno ci sono 20 giovani (10 uomini e 10 donne) con disabilità uditive, diplomati in corsi di cucina e regolarmente assunti».

«L’Inclusive Community Kitchen – sottolineano ancora da CBM Italia – è una vera e propria cucina dotata di tutte le attrezzature necessarie per preparare e conservare i pasti, un luogo di supporto per le famiglie, ma anche uno spazio di realizzazione personale in cui i giovani uomini e donne sordi sono al centro della risposta emergenziale. Il progetto, infatti, permette loro di acquisire competenze preziose e raggiungere l’indipendenza economica necessaria a prendersi cura delle proprie famiglie, poiché spesso sono gli unici a poterlo fare». È ad esempio il caso di Wafa, giovane donna sorda, mamma di quattro figli sordi, che non riusciva a trovare un impiego a causa della sua disabilità, fino a quando Atfaluna le ha offerto un posto nella Cucina comunitaria e ha ricominciato a sperare nonostante le difficoltà. «Lavorare nella Cucina Comunitaria – racconta – è stato un punto di svolta per me, ho ritrovato la fiducia e mi ha garantito un pasto quotidiano e un reddito stabile per prendermi cura dei miei quattro figli, che come me sono sordi, e poi sono molto felice di essere utile a tutta la comunità».

«Questo progetto – concludono da CBM Italia – dimostra che la disabilità non è un ostacolo e che se vengono offerte opportunità, le persone con disabilità possono guidare, ispirare e generare cambiamenti sociali significativi anche nelle circostanze più difficili. La nostra organizzazione, che nelle emergenze interviene al fianco delle persone con disabilità, è presente nella Striscia di Gaza insieme al partner Atfaluna, che da diversi anni porta avanti preziose iniziative inclusive e garantisce i servizi essenziali alla comunità sorda di Gaza». (S.B.)

Per ulteriori informazioni e approfondimenti: Caterina Argirò (caterina.argiro@leacrobate.it).

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I Reali inglesi a Ravenna presenti! I diritti delle persone con disabilità assenti!

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La visita del Re e della Regina d’Inghilterra a Ravenna è stata l’ennesima occasione mancata per garantire l’accessibilità universale. «Ma è tempo – scrive Mirella Madeo – di smettere di considerare l’accessibilità come una voce da tagliare nei bilanci o da gestire con improvvisazione. Non possiamo più permettere che eventi pubblici, per quanto prestigiosi, si svolgano nel disinteresse per i diritti fondamentali di una parte della cittadinanza. Perché ogni volta che questo accade, perdiamo tutti!» Re Carlo III e la regina Camilla in visita a Ravenna alla tomba di Dante

Giovedì della scorsa settimana Ravenna ha accolto con entusiasmo Re Carlo III e la Regina Camilla, arrivati in città per concludere la loro visita ufficiale in Italia. Una giornata ricca di eventi simbolici e culturali: la sosta alla tomba di Dante, dove hanno ascoltato la preghiera di San Bernardo dal Canto XXXIII del Paradiso; la visita alla Basilica di San Vitale, al Mausoleo di Galla Placidia, con i magnifici mosaici paleocristiani, e al Museo Byron. Nel pomeriggio, il Consiglio Comunale straordinario con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e, infine, una passeggiata tra gli stand gastronomici in Piazza del Popolo, guidati dallo chef Massimo Bottura.
Tutto perfetto, organizzato nei minimi dettagli. Tranne che per un “piccolo” particolare: rendere realmente accessibile l’evento alle persone con disabilità e alle persone anziane.

Partiamo dunque dall’accesso, lasciato completamente allo sbaraglio: nessuna area riservata, nessun percorso agevolato, nessun supporto visibile. Le persone in carrozzina presenti? Solo quattro. Un numero che parla chiaro: la mancanza di accessibilità scoraggia la partecipazione.
Ognuno, dunque, ha dovuto arrangiarsi come poteva. Io stessa, con la mia carrozzina, ho dovuto sgomitare tra la folla per conquistare un posto in prima fila e poter partecipare con dignità all’evento. Mentre mi facevo largo, molte persone mi hanno guardata con disapprovazione, come se stessi “rubando” un privilegio.
In una giornata che avrebbe dovuto essere di festa per tutti, chi vive una condizione di fragilità è stato ancora una volta dimenticato.

Mi sono poi rivolta a diversi agenti delle forze dell’ordine schierati dietro le transenne che delimitavano il percorso reale. Solo pochi, con “buon cuore”, mi hanno lasciata passare. Ma uno di loro ha tenuto a precisare che mi stavano facendo passare «per concessione straordinaria». Una frase, questa, che mi porto ancora addosso come un macigno. Come se chiedere accessibilità fosse una richiesta fuori luogo, un favore personale, quando invece dovrebbe essere un diritto garantito per tutti.
L’impressione è stata quella di essere “un’eccezione tollerata”, non una cittadina con diritti. Una sensazione, purtroppo, familiare a molte persone con disabilità.

Non è tollerabile né giusto che la gentilezza venga usata per coprire diritti negati. L’accessibilità non è una cortesia, non è un favore, è un diritto. Lo dice la Costituzione Italiana, all’articolo 3, quando stabilisce il principio di uguaglianza e impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini. Lo ribadisce la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (ratificata in Italia con la Legge 18/09), che impone agli Stati di garantire l’accesso, su base di uguaglianza con gli altri, all’ambiente fisico, ai trasporti, all’informazione e ai servizi pubblici. E in àmbito nazionale, la Legge 104/92, così come il Decreto Ministeriale 236/89, impone criteri precisi per l’eliminazione delle barriere architettoniche in luoghi e manifestazioni pubbliche.
Non prevedere l’accessibilità in un evento pubblico non è solo una dimenticanza: è una violazione, oltre ad essere una ferita alla dignità di chi quotidianamente è costretto a rincorrere un diritto che dovrebbe essere garantito senza elemosine né eccezioni.

Ciò che è mancato a Ravenna, pertanto, non è solo una pedana o una corsia dedicata. È mancata una visione, un’idea di società inclusiva che metta davvero al centro tutte le persone, senza distinzioni.
Accessibilità significa pari opportunità di partecipare alla vita pubblica. È lo specchio del rispetto che una comunità ha per se stessa. E non riguarda solo chi ha una disabilità: riguarda tutti e tutte, perché una città accessibile è una città più giusta, più funzionale, più umana.
Serve un cambio di passo deciso. Serve che istituzioni, organizzatori e cittadini comprendano che l’inclusione non è un “extra” da garantire solo quando possibile. È una responsabilità collettiva. Ed è tempo di smettere di considerare l’accessibilità come una voce da tagliare nei bilanci o da gestire con improvvisazione. Non possiamo più permetterci che eventi pubblici, per quanto prestigiosi, si svolgano nel disinteresse per i diritti fondamentali di una parte della cittadinanza. Perché ogni volta che questo accade, perdiamo tutti!

*Giornalista pubblicista («AboutPeople Magazine»).

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Maltrattamenti nelle strutture su persone con disabilità: non basta più l’indignazione del momento!

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«Non possiamo più affidarci solo all’indignazione del momento: malatrattamenti e violenze in strutture assistenziali sono il sintomo di un modello ormai superato, che necessita di essere trasformato per rispondere in modo adeguato ai bisogni, ai diritti e alle potenzialità delle persone con disabilità»: lo dicono dalla Federazione FISH, commentando l’ennesima vicenda di maltrattamenti nei confronti di persone con disabilità, emersa questa volta in un centro diurno di Milano

Proprio pochi minuti fa avevamo dato spazio ad una serie di riflessioni sulle conseguenze di una vicenda di violenze e maltrattamenti emersa un anno fa a Jesi nelle Marche. Il tempo di pubblicare quel testo e dobbiamo registrare un’altra triste situazione, denunciata nelle scorse ore a Milano dagli organi d’informazione.
Come si legge dunque in una nota diffusa dall’ANSA, «un’ordinanza di divieto di esercizio di attività di educatore professionale è stata emessa nei confronti di otto persone che lavoravano in un centro diurno per persone con disabilità a Milano. Tra i colpiti dal provvedimento tre operatrici donne e due responsabili del centro. L’indagine dei carabinieri della Stazione Vigentina è nata dalla denuncia di un’ex dipendente che ha riferito di maltrattamenti ai danni degli ospiti: trattamenti denigratori e violenti come isolamenti punitivi, urla e minacce. Gli episodi sarebbero iniziati nel dicembre 2023 fino all’ottobre 2024. Gli ospiti vessati sono una decina».

Non è la prima volta che la FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie) interviene pubblicamente per denunciare episodi come questo. Lo fa una volta ancora, manifestando «sdegno e profonda preoccupazione», oltre a ricordare in un comunicato che «solo pochi mesi fa, in occasione di un altro caso di violenze in una struttura assistenziale, avevamo sottolineato l’urgenza di un sistema di controlli più efficace, ma soprattutto la necessità di un profondo ripensamento culturale del modo in cui si guarda alla disabilità. Ancora una volta, quindi, chiediamo con forza che le Istituzioni facciano innanzitutto piena luce sull’accaduto, ma si assumano anche la responsabilità di un cambio di paradigma nella governance dei servizi alla persona. Non è più tollerabile, infatti, un sistema che continua a basarsi su logiche assistenzialistiche e verticali, e che troppo spesso esclude le persone con disabilità e le loro famiglie dai processi decisionali».

«Non possiamo più affidarci solo all’indignazione del momento – dichiara il presidente della FISH Vincenzo Falabella –: serve infatti una visione nuova, che parta dai diritti delle persone con disabilità, riconoscendone pienamente la soggettività, la libertà di scelta e la dignità. Dove manca questa consapevolezza, anche le strutture pensate per essere luoghi di protezione possono trasformarsi in luoghi di violenza che non è mai un fatto isolato, ma il sintomo di un modello ormai superato, che necessita di essere trasformato per rispondere in modo adeguato ai bisogni, ai diritti e alle potenzialità delle persone con disabilità». (S.B.)

Per ulteriori informazioni: ufficiostampa@fishonlus.it.

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Quell’appartamento di Jesi proprio nulla aveva a che vedere con la vita indipendente

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«Com’è possibile – si chiedono dal Gruppo Solidarietà – che il Dipartimento di Salute Mentale di Jesi (Ancona), pur conoscendo molto bene il funzionamento di quell’appartamento della propria città, avesse parlato di “una coabitazione autogestita”, evidenziando anche la qualità del progetto, fino a scomodare la “vita indipendente”?». Quell’appartamento era stato sequestrato lo scorso anno, con l’arresto di due persone e su di esso si è pronunciato ora anche il Consiglio di Stato

Come aveva raccontato più o meno un anno fa il Gruppo Solidarietà sulle nostre pagine, in quei giorni era stato posto sotto sequestro a Jesi (Ancona) un appartamento in Via del Verziere, che ospitava sei persone con disturbi psichici; una coppia era stata arrestata, con l’accusa per lui di violenza sessuale aggravata, di maltrattamenti per la moglie.
Su tale vicenda lo stesso Gruppo Solidarietà aveva espresso una serie di riflessioni, a partire dai contenuti di una Sentenza del TAR delle Marche (559/2023) prodotta alcuni mesi prima e successiva al ricorso dei soggetti in seguito indagati, dopo un’Ordinanza del Comune di Jesi che, a seguito di un’ispezione, aveva stabilito la cessazione dell’attività, ritenendo che si trattasse, nei fatti, di un “servizio” che per essere erogato richiedesse autorizzazione.
A seguito dunque del ricorso, il TAR aveva ritenuto non trattarsi di una comunità che per operare avesse obbligo di autorizzazione, ai sensi delle norme regionali vigenti, ma di una “servizio” che trovava ispirazione e riferimento alla “Legge Regionale sulla Vita Indipendente” (Legge Regionale 21/18), ossia una sorta di appartamento autogestito e come tale, appunto, non soggetto ad autorizzazione. Aveva conseguentemente accolto il ricorso, annullando l’Ordinanza Comunale, con il supporto delle indicazioni date dal direttore del Dipartimento di Salute Mentale.

Ebbene, il 24 marzo scorso, come informa ora il Gruppo Solidarietà – che ha anche dedicato un approfondimento all’intera vicenda – il Consiglio di Stato, con la Sentenza 2407/25 (disponibile a questo link, insieme a un ulteriore commento), ha riformato il precedente pronunciamento del TAR, stabilendo che l’appartamento di Via del Verziere a Jesi, sequestrato, come detto, nell’aprile dello scorso anno, dopo le accuse di maltrattamenti e l’arresto di due persone, «non era un appartamento autogestito e tantomeno una coabitazione in un progetto di vita indipendente. In sostanza un “servizio residenziale” privo dell’obbligatoria autorizzazione».

«Accogliendo, dunque, la tesi del Comune di Jesi – scrivono dal Gruppo Solidarietà -, il Consiglio di Stato ha stabilito che l’appartamento risultava a tutti gli effetti un “servizio residenziale” privo di autorizzazione. E come tale, se ne deduce, abusivo. Come è stato ripetutamente fatto notare dall’Associazione Tutela Salute Mentale Vallesina, che, sola, ha tenacemente, in questi anni, denunciato e portato all’attenzione la vicenda dell’appartamento di Jesi, è necessario risalire alla filiera delle responsabilità. Si possono dunque riprendere alcune considerazioni la prima delle quali riguarda il Dipartimento di Salute Mentale di Jesi che, pur conoscendo molto bene il funzionamento dell’appartamento, come anche da relazione riportata nella Sentenza del TAR, ha affermato trattarsi di “una coabitazione autogestita”, evidenziandone anche la qualità del progetto (“molto più avanzato di altri”), fino a scomodare la “vita indipendente” e il fatto, ritenuto estremamente positivo, che i costi non gravassero sulle casse pubbliche (Azienda Sanitaria, Regione, Comuni)».

«La seconda considerazione – proseguono dall’organizzazione marchigiana – concerne il quesito su quale protezione giuridica venisse esercitata su quella struttura, evidenziando ancora di più la necessità di una revisione dell’istituto dell’amministrazione di sostegno. E ancora, sarebbe oltremodo interessante capire dove vivano oggi le 5/6 persone che abitavano l’appartamento, se in comunità e in quale tipologia di comunità. E se, nel “livello assistenziale”, in “Comunità alloggio con lievi disturbi mentali”. Pare, infatti, ragionevole dubitare che quella tipologia di “servizio”, di tipo esclusivamente sociale rivolta a persone “con lievi disturbi mentali e con un alto livello di autosufficienza” che “necessitano di sostegno nel percorso di autonomia e inserimento o reinserimento sociale”, sia compatibile con le necessità delle persone che vivevano in quell’appartamento. Livelli di autonomia certificati dallo standard di personale previsto: un operatore per 6 ore alla settimana. Se oggi quelle o alcune di quelle persone vivono, invece, in servizi residenziali sociosanitari cui si accede tramite invio del Centro di Salute Mentale (CSM), occorrerebbe ancor di più chiedere al Dipartimento come le loro necessità potessero essere compatibili con quell’appartamento autogestito».

«C’è dunque da augurarsi – concludono dal Gruppo Solidarietà – che nel processo iniziato a febbraio nei confronti dei due coniugi accusati di violenza sessuale e maltrattamento, si faccia piena luce su nascita, sviluppo ed evoluzione dell’appartamento e sul rapporto, dal 2018, delle persone che lo gestivano con le Istituzioni e in particolare con il Dipartimento di Salute Mentale di Jesi». (S.B.)

Per ulteriori informazioni e approfondimenti: grusol@grusol.it.

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“Sport si può”, punto di riferimento nel panorama educativo e sportivo della Provincia di Varese

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È in pieno svolgimento il progetto “Sport si può”, promosso dall’Associazione Sportiva Dilettantistica POLHA-VARESE, che offre corsi gratuiti di nuoto a bambini e ragazzi con disabilità tra i 6 e i 14 anni in orario scolastico. Questa iniziativa, che unisce sport, inclusione, volontariato e socialità, è diventata un punto di riferimento nel panorama educativo e sportivo della Provincia di Varese Alcuni bimbi e bimbe partecipanti al progetto “Sport si può”, qui in piscina insieme all’istruttrice

È in pieno svolgimento il progetto Sport si può, promosso dall’Associazione Polisportiva Dilettantistica POLHA-VARESE, che offre corsi gratuiti di nuoto a bambini e ragazzi con disabilità tra i 6 e i 14 anni in orario scolastico. Questa iniziativa, che unisce sport, inclusione, volontariato e socialità, è diventata un punto di riferimento nel panorama educativo e sportivo della Provincia di Varese.

«Uno dei punti di forza sta nella continuità: nato nel 1997 da un’idea del Tavolo Provinciale Sport Disabili e sostenuto interamente dalla Provincia di Varese fino al 2014, Sport si può è proseguito grazie all’impegno costante, sia organizzativo che economico, della nostra Associazione. Negli anni di maggiore attività, il progetto ha raggiunto numeri straordinari: 320 alunni, 8 piscine, 60 scuole, 35 istruttori specializzati e oltre 200 tra insegnanti ed educatori coinvolti in un solo anno. Dopo il ritiro della Provincia nel 2015, la sostenibilità dell’iniziativa è stata garantita dalla collaborazione con i Comuni delle scuole aderenti, dai gestori delle piscine e da sponsor individuati dalla nostra organizzazione», sottolinea la presidente dell’Associazione, Daniela Colonna-Preti. «Con orgoglio possiamo affermare che, ad oggi, oltre 5.000 alunni con disabilità hanno potuto vivere gratuitamente questa esperienza unica».

Quest’anno il progetto è attivo con POLHA nelle piscine di Caronno Pertusella, Castiglione Olona, Tradate e Varese, grazie al sostegno dei rispettivi Comuni, nonché di quelli di Casciago, Venegono Inferiore e Venegono Superiore.
Gli alunni e alunne partecipano ai corsi durante l’orario scolastico: accompagnati dai loro insegnanti, raggiungono le piscine dove li attendono istruttori esperti nella didattica del nuoto per persone con disabilità e i volontari di POLHA. Grazie a questarete di collaborazioni tra pubblico e privato, anche nel 2025 oltre 300 alunni con disabilità stanno vivendo l’emozione del nuoto, a titolo completamente gratuito per loro, per le famiglie e per le scuole partecipanti. (C.C.)

Per maggiori informazioni: POLHA-VARESE (info@polhavarese.org).

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“Adesso Basta!”, un impegno per il cambiamento

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Si chiama “Adesso Basta!”, ossia “Un 2025 accessibile per tutti e tutte” la petizione online lanciata da Working Souls, azienda nata da un’idea dell’artista con disabilità Francesco Canale (“Anima Blu”), iniziativa che si propone in sostanza di essere un manifesto per trasformare le barriere in opportunità, toccando cinque punti: taxi accessibili, auto adattate, voli e treni accessibili, concerti e spettacoli fruibili senza barriere

Adesso Basta!: ha un nome perentorio la petizione lanciata sulla piattaforma Change.org da Working Souls, azienda nata nel 2021 da un’idea dell’artista con disabilità Francesco Canale (noto anche come “Anima Blu”), che sta portando avanti numerose e variegate iniziative a favore dell’inclusione per cambiare il paradigma che vuole la disabilità relegata al mondo non profit, all’attivismo o alle realtà “caritatevoli”.

Adesso Basta! è in sostanza un manifesto per trasformare le barriere in opportunità. Cinque i punti toccati: taxi accessibili, auto adattate, voli e treni accessibili, concerti e spettacoli fruibili senza barriere. Viene ritenuto assurdo, a esempio, che nel 2025 una persona con disabilità debba pagare di più per un taxi solo perché ha bisogno di una pedana. La mobilità, infatti, è un diritto, non un privilegio. La petizione chiede dunque parità nelle tariffe e più veicoli accessibili sulle strade, perché la libertà di movimento non può avere un prezzo diverso. Working Souls si ispira al modello del Regno Unito, dove il Transport for London ha introdotto politiche che garantiscono accessibilità per tutti e tutte, senza costi aggiuntivi, e obbliga i taxi a dotarsi di rampe.

Altro argomento, i costi per modificare e rendere accessibili le automobili che possono essere pari al prezzo dell’auto stessa, se non di più. Per far sì, dunque, che l’autonomia non sia un privilegio per pochi, la petizione propone un sistema di sostegno pubblico-privato per coprire i costi di adattamento dei veicoli per chi non può permetterselo.

Il diritto di viaggiare, del resto, è un ulteriore punto di Adesso Basta!. Prendiamo i voli aerei, per i quali, se l’accompagnatore è indispensabile, il suo biglietto aereo dev’essere gratuito. Come già accade sui treni e in altri Paesi, anche l’Italia deve allinearsi a questo principio di civiltà, perché il diritto a viaggiare non può essere un peso doppio per chi ha una disabilità. E per Working Souls anche la mobilità ferroviaria dev’essere un diritto universale: le pedane sui treni non sono un optional, ma sono necessarie su ogni convoglio. Solo così sarà garantita vera autonomia di movimento, sicurezza e libertà di viaggiare da qualsiasi stazione. Con riferimento poi al Regolamento Europeo 1300/2014, che stabilisce appunto standard di accessibilità per il trasporto ferroviario, la petizione chiede che l’Italia si impegni ad adeguare tutte le proprie infrastrutture, a partire dalle stazioni locali e garantendo formazione al personale per un’assistenza dignitosa e professionale.

Infine, l’accesso alla cultura e agli spettacoli. Oggi, ad esempio, è possibile avere un solo accompagnatore ai concerti, una limitazione alla socialità. Adesso Basta! propone tre accompagnatori ammessi, procedure di prenotazione più semplici e il rispetto delle quote dei posti riservati. Inoltre, pone l’attenzione sull’accessibilità fisica e tecnologica delle strutture, con l’introduzione di sottotitoli, audiodescrizioni e tecnologie assistive per eventi culturali, come già previsto, ad esempio, dalla normativa francese sull’accessibilità.

«Questo manifesto – spiega Francesco Canale – non è solo un appello, è un piano d’azione. Chiediamo infatti a istituzioni, imprese e società civile di sottoscriverlo e impegnarsi concretamente. Il 2025 deve diventare l’anno della svolta per l’accessibilità in Italia. Solo insieme possiamo costruire un futuro dove la disabilità non sia più sinonimo di limitazione, ma di pari opportunità e piena inclusione sociale».
4cFuture, Business Unit di 4C dedicata alla sostenibilità, e Happy Network, rete di imprese impegnata a favore dell’inclusività negli ambienti lavorativi e nella vita di ogni giorno, supportano con convinzione il progetto affinché l’accessibilità diventi la norma, e non l’eccezione.
«Siamo pronti a trasformare il cambiamento in realtà – conclude Canale, invitando a sottoscrivere la petizione -, perché un mondo senza barriere è un mondo più giusto per tutti e tutte». (Stefania Delendati)

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