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La Chiesa non si governa coi piedi, ma con la testa!

Superando -

«A coloro i quali volevano che si dimettesse per il fatto di muoversi in carrozzina, il Pontefice fece sapere indirettamente che “la Chiesa non si governa coi piedi, ma con la testa!”»: lo scrive Salvatore Nocera, ricordando così Papa Francesco, in questa sua riflessione che prende spunto da un precedente intervento di Donata Scannavini, «sulla difficoltà che abbiamo noi persone con disabilità ad essere considerate nelle nostre comunità di fede come “soggetti attivi”» Papa Francesco in carrozzina insieme a numerose persone con disabilità e ai loro familiari, in occasione di una Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità

Ho letto con piacere in Superando il testo Le riflessioni di una parrocchiana (con disabilità) di Donata Scannavini sulla difficoltà che abbiamo noi persone con disabilità ad essere considerate nelle nostre comunità di fede come “soggetti attivi”, mentre siamo troppo spesso considerati come “oggetto” solo di attenzione e di aiuto, o addirittura di “pietismo compassionevole”. Condivido questo suo giudizio per la maggiore esperienza di vita fatta da me cieco, che ho 87 anni.
Mi chiedo dunque a cosa sia dovuto questo atteggiamento “paternalistico”. Già la signora Donata lo ha in parte evidenziato, parlando cioè di una visione distorta dell’interpretazione teologica della nostra sofferenza che contribuirebbe alla salvezza del mondo in quanto unita a quelle di Gesù sulla croce.

Penso però che ci sia anche di più, sia a livello di influenza di mentalità laica che religiosa. Secondo una diffusa mentalità laica, infatti, noi persone “con disabilità” non siamo in grado di fare quello che fanno le persone “abili”. È quindi frutto dell’abilismo che non possiamo essere solitamente considerati “abili” alla pari degli altri e che veniamo quindi conseguentemente visti come oggetto di attenzione e non come soggetti nella società civile, oltre che nelle comunità religiose.
A livello religioso la tesi pseudo-teologica, riportata dalla signora Donata, cioè la nostra partecipazione alla salvezza del mondo con le nostre sofferenze, sa un po’ molto di “premio consolatorio”. Si badi bene, questa era una tesi teologica dell’Ottocento, molto accreditata in ambienti ecclesiastici; però oggi, dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II, non credo si possa più sostenere.
A parte l’affermazione critica rivoltami da amici non credenti, secondo i quali noi credenti vorremmo le persone con disabilità “sempre sofferenti”, il discorso si fa più serio, guardando anche all’impostazione del ragionamento del professor Justin Glyn nella traduzione italiana del suo bel libro “Us” not “Them”. Disability and Catholic Theology and Social Teaching, intitolata A Sua immagine? Figli di Dio con disabilità, che giustamente Giovanni Merlo con la Federazione LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità) sta da tempo divulgando ovunque, anche in prestigiosi convegni.
Il professor Glyn, che è docente universitario di Diritto Canonico, persona cieca, di fronte all’affermazione della Bibbia ebraica in cui si narra che Dio disse «creiamo l’uomo a nostra immagine», critica la tesi secondo la quale, se Dio è perfettissimo, come avrebbe fatto a creare anche persone con disabilità, che non sono perfette? Egli fa dunque presente che Gesù – il quale secondo la fede cristiana è Dio – fu crocifisso e quindi l’affermazione della creazione non è contraddittoria, poiché c’è un uomo ad immagine di Dio creatore, senza disabilità e ci sono persone con disabilità che sono pur esse ad immagine di Dio sofferente in croce.

Invero suppongo che il professor Glyn si rifaccia all’affermazione di Dietrich Bonhoeffer nel campo di sterminio nazista dove era stato deportato dopo il fallito attentato a Hitler. Ad un suo compagno di prigionia, che di fronte a tutte quelle sofferenze, gli chiese «dov’è Dio!?», egli rispose infatti, indicandogli un giovane impiccato ad una forca, «eccolo là», indicandolo come Gesù crocifisso. Certo, questa immagine è perfetta in casi estremi come questi, ma non penso sia pastoralmente, da sola, proponibile per tutta la vita quotidiana delle persone con disabilità.
Durante il primo convegno organizzato dalla LEDHA sul libro del professor Glyn, mi ero rifatto ad un mio intervento svolto nel 1987 a nome del MAC (Movimento Apostolico Ciechi), in occasione del Sinodo dei Vescovi sui laici, in cui sostenevo che limitare la somiglianza di noi persone con disabilità solo a Dio sofferente è una visione teologica incompleta, poiché , secondo la fede cristiana, Gesù, morto in croce, è poi risuscitato; quindi occorrerebbe dare una visione più completa di Dio, secondo il Cristianesimo. E a questo proposito, c’è un testo biblico che mi sembra più aderente alla visione del Dio cristiano, morto e risorto, per parlare delle persone con disabilità, pur esse «ad immagine di Dio».
Mi riferisco al Vangelo secondo Matteo al capitolo 25 (versetti da 31 a 47), relativi al “giudizio finale”. In questo celebre brano , Gesù, come giudice finale, dopo avere enumerato atti di solidarietà a favore di persone  in gravissime difficoltà, dice «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». Qui è Gesù, risorto, glorioso, non sofferente, anche se è stato crocifisso ed è morto, che riferisce a sé i destinatari (sofferenti) di gesti di solidarietà. Quindi essi sono considerati “a sua immagine”.
Noi cattolici abbiamo definito questi gesti come “opere di misericordia” con un’accentuazione pietistica e caritatevole; questa è stata appunto la sensibilità cattolica sino al citato Concilio Ecumenico Vaticano II; ma ormai, dopo che il Concilio nella Costituzione Pastorale Sulla Chiesa nel Mondo Contemporaneo (Gaudium et Spes, n. 29, paragrafo 1) ha detto che «non si dia per carità ciò che spetta per giustizia», possiamo ben accettare questa nuova concezione di solidarietà di difesa dei diritti umani e questa più completa visione di immagine di Dio, crocifisso e risorto, rivolta alle persone con disabilità, come più aderente alla sensibilità moderna. Del resto, accanto agli esempi di solidarietà indicati nel Vangelo secondo Matteo (“dare da mangiare agli affamati”, “dare da bere agli assetati”, “visitare i carcerati”.), oggi potremmo aggiungere ad esempio le iniziative degli attivisti per i diritti umani di tutti e tutte, e in particolare delle persone con disabilità o di quanti sono perseguitati per cercare la pace tra i popoli; infatti Gesù, nel famoso Discorso della Montagna sulle beatitudini (Matteo, capitoli da 5 a 7) dice, tra l’altro, «beati quanti operano per la giustizia e gli operatori di pace».

Ora, questi impegni sono volti ad aiutare gli “emarginati” – come spesso sono le persone con disabilità – ad includersi in una vita normale nella società o ad evitare di piombare nell’emarginazione a causa delle guerre; e tra i volontari impegnati nelle attività di inclusione possono esservi pure persone con disabilità, operanti come soggetti attivi e non solo come destinatari di interventi. Si pensi ad esempio alla Comunità di Capodarco, fondata da don Franco Monterubbianesi che, non a caso, è intitolata proprio a “Gesù risorto”. E molte di queste organizzazioni di volontariato di persone con disabilità non si occupano solo di persone con disabilità, ma sempre più spesso si sono aperte anche alla difesa dei diritti umani di altre persone in difficoltà, quali i migranti, le persone senza fissa dimora, le persone povere e altre escluse dalla normale vita sociale.

Mi sono permesso da semplice fedele, come la signora Donata, questa digressione sugli aspetti della morte e resurrezione di Gesù, poiché siamo in tempi pasquali, ma scendendo dalle “vette teologiche” su cui mi sono avventurato, per arrivare alle esperienze di vita degli ultimi  anni, abbiamo due esempi di persone divenute con disabilità che, nella comunità ecclesiale, non sono state assolutamente oggetto passivo di pietismo compassionevole, ma sono stati i soggetti-guida della Chiesa; mi riferisco segnatamente a Papa Giovanni Paolo II, che è stato in situazione di disabilità negli ultimi anni della sua vita (ma che già portava le conseguenze dell’attentato subito a suo tempo in Piazza San Pietro) e naturalmente a Papa Francesco che a lungo si è mosso in carrozzina a causa di un grave problema al ginocchio e che ai suoi detrattori, i quali volevano che per questo si dimettesse, fece sapere indirettamente, che «la Chiesa non si governa coi piedi, ma con la testa!». Ed egli l’ha governata anche come pastore sino al giorno di Pasqua, ultimo giorno della sua vita attiva, con la formulazione della sua ultima omelia, del discorso e della benedizione pasquale Urbi et Orbi, oltreché dell’incontro conclusivo con la gente in Piazza San Pietro.

Sul rapporto tra Chiesa Cattolica e Disabilità, suggeriamo la lettura di una serie di contributi da noi recentemente pubblicati, ultimo dei quali Alla teologia manca ancora il capitolo della disabilità di Ilaria Morali (a questo link), in calce al quale sono indicati anche i link ad altri precedenti testi.

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Quella voce forte contro un modello di crescita inconciliabile con la giustizia sociale

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«La voce forte di Papa Francesco – dichiara Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum Nazionale del Terzo Settore – contro un modello di crescita inconciliabile con la giustizia sociale e il rispetto del pianeta ha lasciato un segno indelebile. Solo credendo fermamente e realizzando il suo messaggio potremo sentirci tutti meno soli» Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum Nazionale del Terzo Settore

«È un addio doloroso: Papa Francesco ci lascia in un mondo che sembra non credere più nella pace. Un mondo che già vive la guerra, che si riarma e pare abituarsi anche alla disumanità»: lo dichiara in una nota Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum Nazionale del Terzo Settore.
«La voce forte del Pontefice e il suo impegno per gli ultimi, i più fragili, gli emarginati della società – aggiunge Pallucchi – hanno lasciato un segno indelebile, così come la sua denuncia diretta di un modello di crescita inconciliabile con la giustizia sociale e il rispetto del pianeta. Al contrario, Papa Francesco ha esaltato il valore della solidarietà e dell’impegno nel volontariato per la promozione umana, contro le disuguaglianze e la “globalizzazione dell’indifferenza”. Solo credendo fermamente e realizzando il suo messaggio potremo sentirci tutti meno soli». (S.B.)

Per ulteriori informazioni: stampa@forumterzosettore.it.
A questo link vi è l’elenco completo di tutti i soci e degli aderenti al Forum Nazionale del Terzo Settore, tra cui anche la FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie).

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Venti edizioni per “Oltre la vista, oltre la SLA”

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Da una parte superare le barriere culturali, facendo correre e camminare insieme persone con e senza disabilità visiva, dall’altra sostenere la ricerca sulla SLA (sclerosi laterale amiotrofica): è il duplice obiettivo della manifestazione podistica non competitiva “Oltre la vista, oltre la SLA”, promossa dalla Polisportiva dell’UICI di Torino, che il 25 aprile festeggerà nel capoluogo piemontese la propria ventesima edizione Immagine di una precedente edizione di “Oltre la vista, oltre la SLA”

Nella mattinata del 25 aprile (Parco Michelotti di Torino, ore 9.30), Oltre la vista, oltre la SLA festeggerà la propria ventesima edizione e questa manifestazione podistica non competitiva che fa dell’inclusione e dell’impegno solidale i propri punti di forza, organizzata dalla Polisportiva dell’UICI di Torino (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti) a sostegno della ricerca medica, sarà ancora più coinvolgente, colorata e partecipata.
«Come il nome dell’iniziativa rivela – spiegano dalla Polisportiva dell’UICI di Torino -, la manifestazione Oltre la vista, oltre la SLA, organizzata in memoria dell’atleta Piero Mallen, nostro volontario e amico, nasce con il doppio obiettivo da una parte di superare le barriere culturali, facendo correre e camminare insieme persone con e senza disabilità visiva, dall’altra di sostenere la ricerca sulla SLA (sclerosi laterale amiotrofica), se è vero che l’intero ricavato, al netto delle spese, verrà come sempre donato al CRESLA (Centro Regionale Esperto per la ricerca sulla SLA) della Città della Salute di Torino, polo d’eccellenza a livello europeo. Infatti, tenendo fede a una promessa rinnovata negli anni, abbiamo finora donato all’équipe medica circa 88.000 euro».

Il 25 aprile a Torino, dunque, vi sarà posto per tutti e tutte, sia per chi correrà che per chi camminerà, come singoli o in gruppo con una società sportiva (la squadra più numerosa sarà premiata con il Trofeo Piero Mallen).
Due i percorsi previsti (10 e 5 chilometri), oltre a uno speciale itinerario (dalle 10.45) riservato ai più piccoli, e bende accetti saranno anche gli amici a quattro zampe.
La manifestazione si avvarrà del patrocinio della Regione Piemonte, della Città di Torino, delle Circoscrizioni 7 e 8 del capoluogo piemontese e del CIP Piemonte (Comitato Italiano Paralimpico).

«Avere raggiunto la ventesima edizione – sottolineano dal Consiglio Direttivo della Polisportiva dell’UICI di Torino – è per noi motivo di grande gioia e soddisfazione. Siamo felici di una manifestazione che, con l’andare del tempo, è divenuta un punto di riferimento per la città e ci ha permesso di sostenere in modo concreto la ricerca medica. Quest’anno, per celebrare il ventennale, ci aspettiamo una partecipazione ancora più nutrita del solito. Invitiamo dunque tutti e tutte a condividere con noi questo momento di sport, inclusione e impegno solidale». (S.B.)

Per ulteriori informazioni e approfondimenti: ufficio.stampa@uictorino.it (Lorenzo Montanaro).

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Maltrattare significa innanzitutto calpestare il diritto inalienabile alla dignità

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«Maltrattare non significa solo strattonare, urlare o punire. È calpestare in primis il diritto inalienabile alla dignità. Facciamo in modo che nella vita dei nostri figli non manchi mai il rispetto»: lo scrive Maria Spallino, presidente dell’Associazione Coordinamento Familiari Centri Diurni Disabili Milanesi, a proposito della notizia che otto educatori di un Centro Diurno Disabili di Milano sono indagati per maltrattamenti ai danni delle persone con disabilità di cui avrebbero dovuto prendersi cura

Otto educatori di un Centro Diurno Disabili (CDD) di Milano sono indagati per maltrattamenti ai danni delle persone con disabilità di cui avrebbero dovuto prendersi cura. La notizia [se ne legga già anche sulle nostre pagine, N.d.R.] sconcerta e preoccupa non solo le famiglie direttamente interessate, ma tutte quelle i cui familiari con disabilità sono accompagnati nel loro percorso di vita da operatori ed educatori il cui compito non è solo assistere, ma anche sostenere, promuovere, motivare.
I nostri figli sono spesso persone “senza voce” e, proprio per questo non devono mai mancare attenzione e rispetto nei loro confronti. Sin dalla loro nascita, noi genitori e familiari percorriamo con loro e per loro un lungo cammino lastricato di sfide. Sfide che possiamo vincere solo quando le relazioni che intessiamo con chi (in ruoli diversi) li accompagna sono improntate su valori di lealtà e fiducia. Ogni figura che svolge un ruolo del progetto di vita dei nostri figli ha una grande responsabilità: la serietà, l’affidabilità e l’efficacia del suo intervento sono fondamentali per rendere solido quel progetto.
Le notizie circolate nei giorni scorsi rievocano fantasmi con cui molti di noi convivono. La sottile, pervasiva e costante angoscia riguardo al destino dei nostri figli e fratelli quando noi non ci saremo più. Non solo il futuro occupa i nostri pensieri. Nel presente, anche il timore che non siano accolti nelle loro aspirazioni, compresi nei loro bisogni, sostenuti nella loro conquista di autonomie in nostra assenza, quando “affidati” ad altri. Timori e angosce che tentiamo di tenere sotto controllo convincendoci che, impostando rapporti di fiducia, collaborazione e alleanza, sia loro garantito, oggi e per sempre, rispetto.
Negli articoli che riportano questa preoccupante vicenda – su cui auspichiamo venga fatta luce il prima possibile – viene usato il termine “maltrattamenti”. Maltrattare non significa solo strattonare, urlare o punire. È calpestare in primis il diritto inalienabile alla dignità. I nostri figli e fratelli, la cui autodeterminazione è spesso fragile, non sono in grado di difendersi da atteggiamenti prevaricatori. Abituati sin dalla nascita ad essere “gestiti” da altri, posseggono in moltissimi casi un’elevata adattabilità e resilienza e, proprio per questo, la loro percezione di eventuali vessazioni e angherie è stemperata.
In un momento storico in cui la promozione del diritto alla piena cittadinanza è al centro di politiche innovative, una notizia come questa incrina le certezze di genitori e familiari che si adoperano incessantemente per garantire ai propri figli o fratelli con disabilità un futuro degno, dovendosi fidare e affidare a chi ha un indispensabile compito di cura e sostegno.
Le responsabilità sono, saranno accertate, fino ai livelli più alti. Ma l’ambiente, il contesto deve essere ripensato e rinnovato. Le persone con disabilità e le loro famiglie vanno aiutate a recuperare, per quanto possibile, la fiducia. In casi simili non si riparte da zero, ma da molto più indietro.
È indispensabile reimpostare il servizio con impegno e serietà, scegliendo con la massima attenzione chi svolge un lavoro di cura e tessere una rete di aiuto e supporto che permetta a tutti di riconquistare una consapevole serenità.
Facciamo tutti in modo che nella vita dei nostri figli non manchi mai il rispetto.

*Presidente dell’Associazione Coordinamento Familiari CDD (Centri Diurni Disabili) Milanesi. Il presente contributo è già apparso in «Persone con disabilità.it» e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

Al medesimo tema trattato nel presente contributo, Superando ha già dedicato i testi Maltrattamenti nelle strutture su persone con disabilità: non basta più l’indignazione del momento! e Quel patto di fiducia che è stato incrinato di Enrico Mantegazza (disponibili rispettivamente a questo e a questo link).

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Un programma di umanità, che ora è nelle nostre mani

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«La morte di Papa Francesco – scrive Vincenzo Falabella – lascia un vuoto profondo, ma anche un’eredità incancellabile. Ci lascia una Chiesa più consapevole, più aperta, più vicina alle fragilità. E ci affida una responsabilità: non lasciare cadere il suo insegnamento, non smettere di costruire un mondo dove davvero nessuno sia escluso. È un’eredità non solo spirituale, ma un programma di umanità che ora è nelle nostre mani» Un incontro di Papa Francesco con una serie di persone con disabilità e con i loro familiari, in occasione di una recente Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità (foto di Marco Calvarese; ©foto SIR/Marco Calvarese)

Papa Francesco ha rappresentato, per milioni di persone, una voce limpida e coraggiosa a favore della dignità umana e tra i tanti temi che ha affrontato con determinazione e sensibilità, il suo rapporto con le persone con disabilità ha segnato una svolta profonda nella visione della Chiesa, e non solo. Infatti, non ha mai considerato le persone con disabilità come destinatarie passive di attenzione o assistenza, ma le ha riconosciute come persone pienamente partecipi, con un ruolo attivo nella società e nella comunità ecclesiale.
«Ogni persona, con le sue fragilità, è un dono. Non esistono vite meno degne di essere vissute», diceva con forza. Per Papa Francesco la disabilità non è mai stata un “limite”, ma una forma concreta della diversità umana, che chiede di essere accolta con rispetto e non compatita.
Ha parlato spesso di barriere: non solo architettoniche, ma soprattutto culturali, spirituali e psicologiche. Barriere che isolano, che impediscono l’accesso alla piena partecipazione alla vita, alla fede, all’educazione. In ogni suo gesto, in ogni parola, ha cercato di ricucire relazioni, di abbattere distanze, di restituire voce a chi per troppo tempo era rimasto invisibile.

Nel suo magistero, Papa Francesco ha messo in evidenza come le fragilità umane siano un terreno fertile per esprimere il vero carisma della Chiesa. Non ha semplicemente affrontato la disabilità come un tema tecnico, ma ha trasformato questo argomento in una metafora potente di giustizia ed equità, in grado di arricchire profondamente la cultura ecclesiale. Le fragilità, per lui, non sono da evitare o da nascondere, ma da riconoscere come una dimensione imprescindibile della condizione umana, che rende ogni persona unica e degna di rispetto. Ha messo in discussione il modello sociale che misura il valore di un individuo solo sulla base della produttività, invitando la Chiesa a diventare il luogo in cui l’inclusione non è solo un principio astratto, ma una pratica quotidiana che riflette l’amore di Dio per ogni essere umano.
Questa visione non solo ha cambiato l’approccio della Chiesa verso le persone con disabilità, ma ha anche offerto alla società un nuovo paradigma, più giusto e più umano, in cui le barriere, siano esse fisiche, sociali o culturali, vanno abbattute in nome della dignità di ciascuna persona. In altre parole, tutto ciò che è costruito, sia che si tratti di uno spazio urbano, sia che si tratti di una comunità, deve essere pensato per tutti, non adattato dopo. E Papa Francesco ha ricordato che l’inclusione non è un favore, non è una semplice concessione, ma un diritto che deve essere rispettato e garantito.

La sua morte lascia un vuoto profondo, ma anche un’eredità incancellabile. Le sue parole, i suoi abbracci, il suo sguardo capace di incontrare senza giudicare, continueranno a vivere in ognuno di noi. Ci lascia una Chiesa più consapevole, più aperta, più vicina alle fragilità. E ci affida una responsabilità: non lasciare cadere il suo insegnamento, non smettere di costruire un mondo dove davvero nessuno sia escluso.
Ricordo i miei personali incontri, ricordo alcune sue parole su tutte: «La carrozzina che utilizzi non è ciò che ti definisce ma è uno strumento che, insieme a te, diventa veicolo di libertà».
L’eredità di Papa Francesco non è solo spirituale. È un programma di umanità. Ed è ora nelle nostre mani.

*Presidente della FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie), consigliere del CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro).

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“E posso ancora parlare di noi”, storia di Me e di Ivo, il suo fratello “sibling”

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A cercare di fare uscire dal “cono d’ombra” i “siblings”, ossia i fratelli e le sorelle di persone con disabilità, vi è anche “E posso ancora parlare di noi”, libro di “Luce Blu” (Lucia Bossi) sulla relazione tra due fratelli nati in un piccolo paese di montagna, uno dei due con una disabilità psicofisica, l’altro in lotta e in fuga per affermare la propria individualità. Un romanzo intenso, commovente e coinvolgente, duro come sa essere dura la vita, che ha già ottenuto diversi riconoscimenti

Li chiamano siblings, “fratelli”, un termine generico che viene utilizzato per definire i fratelli e le sorelle delle persone con disabilità. Un legame unico nel quale la condizione di fragilità di un membro della famiglia è al centro dei pensieri dell’intero nucleo e fa sì che la crescita di chi non presenta evidenti difficoltà venga condizionata da molteplici stati d’animo, interrogativi, sentimenti contrastanti di amore-odio e sensi di colpa. Pochi ci pensano, pochi sostengono e ascoltano la voce dei siblings, alla fine diventano più “invisibili” dei fratelli e delle sorelle con disabilità verso cui si dirigono le maggiori attenzioni.
A cercare di farli uscire dal “cono d’ombra” vi è anche un libro, E posso ancora parlare di noi (editore Be Strong), un romanzo sulla relazione tra due fratelli nati in un piccolo paese di montagna, uno dei due con una disabilità psicofisica, l’altro in lotta e in fuga per affermare la propria individualità.
A scriverlo è stata “Luce Blu”, pseudonimo di Lucia Bossi, insegnante di scuola primaria, il cui vissutro personale è stato rielaborato, diventando la storia di Me e Ivo, i protagonisti di E posso ancora parlare di noi, un emozionante viaggio che racconta la convivenza con la “diversità” dal punto di vista di un fratello che per anni si sente “diverso” perché non ha un fratello “normale”, la storia di un amore fraterno che si fa strada nonostante tutto, più forte dell’indifferenza e della inevitabile lontananza quando si diventa adulti.

Me è Ernesto, è lui a “battezzarsi” con questo pronome personale quando gli chiedono come si chiama. È nato cinque anni prima di Silvio, per tutti Ivo, e Me, il nomignolo del fratello riesce a pronunciarlo senza le esitazioni con le quali abitualmente si esprime.
Sono sempre insieme, Me e Ivo, il primo con un perenne sorriso in volto, l’animo allegro, il passo incerto e strascicato che segue il fratello più giovane. Un’infanzia in simbiosi, tra boschi, prati, marmotte e cerbiatti, a sentirsi al sicuro soltanto insieme.
Ivo non vede il fratello “diverso”. Con la saggezza che soltanto i bambini hanno lo considera diverso da lui come ogni persona è differente dalle altre. Però è raro che qualcuno si avvicini a Ivo quando è insieme a Me, perché? Probabilmente è lo stesso motivo per cui in casa, quella casa di montagna che avrebbe dovuto essere il rifugio di una giovane coppia innamorata, ci sono pochissime foto di Ernesto. La nascita del figlio con disabilità segna l’inizio delle incomprensioni tra i genitori e la mamma si trasferisce in Liguria con il primogenito, dai nonni, perché si pensa che il mare possa far diventare “normale” Me; lo dicono proprio in questo modo brusco: «diventare normale».

Con il tempo la coppia sembra rinsaldarsi, ed è a questo punto che nasce Silvio. Me diventa la proiezione delle emozioni di Ivo, se quest’ultimo è felice Me ride a crepapelle, se Ivo è silenzioso Me si fa cupo. È sempre Ivo che Me interroga con lo sguardo, per decifrare poche indimenticabili parole uscite un giorno dalla bocca di papà: «La mamma non ci vuole più bene. Ci ha lasciati soli». Troppo pesante il fardello psicologico di quel figlio “handicappato”, non serve a nulla vestirlo in modo da mascherare le gambe con gli stivaletti ortopedici, il marito è troppo debole per starle accanto.

La vita continua, i fratelli sono insieme anche a scuola, nella stessa classe, Me non ha iniziato le elementari quando aveva l’età giusta, tanto da lui non ci si aspettava che imparasse. Per il fratello minore, obbligato ad essere anche genitore, è un continuo confronto con gli altri che possono essere spensierati, mentre ai siblings viene in parte sottratta la leggerezza della gioventù.
Ivo accudisce il fratello, la gente li percepisce come una cosa sola, «ero come se io mi sdoppiassi in due, nel normale e nel disabile, nell’autonomo e nel dipendente, nel genitore e nel figlio». A un certo punto sente il bisogno di fuggire e lo fa seminando il fratello sulle piste da sci, sordo ai suoi richiami, passa un’estate in alpeggio con la sola compagnia delle mucche. Alla fine Me lo riaccoglie a braccia aperte, senza rancore.

La narrazione prosegue più intima e introspettiva, esplora i confini dell’animo umano. Il linguaggio si fa dapprima inquieto, seguendo i tumulti dell’adolescenza, poi adulto, man mano che Ivo cresce e si pone domande: che diritto ho di progettarmi un avvenire quando mio fratello ne avrà uno incerto? Chi penserà a lui se io mi farò una vita lontano dal paese per realizzare i miei sogni? È mio dovere prendermi cura di Me per sempre, annullandomi?
L’affetto che il papà non è in grado di dare arriva, inaspettato, dalla vicina di casa, una donna rude che odora di formaggio e animali. È a lei e a suo marito che Ivo si rivolge per dare a Me un futuro il più possibile autonomo, nel quale guadagnarsi di che vivere e che possa scongiurare il ricovero in una struttura. Me inizia a lavorare nella stalla e nell’azienda agricola dei vicini, Ivo parte per Milano, destinazione università. Gli piace scrivere, riempire quaderni con emozioni e fantasie. Anche di Me scrive, «a volte mi sfogavo perché non ti sopportavo più, a volte perché senza di te non avrei potuto vivere, a volte perché ti avrei voluto diverso».
Ivo non parla di suo fratello con gli amici di città, è difficile per altro fare amicizia, non sa come comportarsi con le ragazze, è in imbarazzo quando lo invitano a prendere un aperitivo. Vede tutti disinvolti, felici, mentre lui è a disagio nei pantaloni troppo grandi e con le camicie a scacchi di ruvida stoffa. A Milano Ivo vuole essere Silvio, ma nella metropoli si sente fuori posto, porta dentro il silenzio della montagna e la nostalgia per il fratello lontano. Lo chiama di rado, fantastica su come sarebbe stata la sua vita e quella della sua famiglia con un fratello “normale”, a volte vorrebbe perfino dimenticarlo, però è pensando a lui che trova attimi di autentica serenità: «Per te ero sempre importante, ma tu non potevi immaginare, perché non te lo dimostravo, che tu lo eri molto più per me».

Non voglio spoilerare l’epilogo della storia, voglio che leggiate E posso ancora parlare di noi, che assaporiate ogni riga, ogni malinconia, ogni caduta e ogni conquista, che sentiate infine il richiamo delle alte vette come i protagonisti del racconto. Vi basti sapere che ora la loro abitazione si chiama CASA ME, che le erbacce saranno tolte e l’altalena sistemata; che adesso Ivo non ha più paura di parlare di loro.
Questo romanzo intenso, commovente e coinvolgente, duro come sa essere dura la vita, ha ottenuto diversi riconoscimenti, tra cui il secondo posto al Premio Zingarelli 2024. I siblings non sono destinati al disagio e alla sofferenza, questo libro ce lo insegna e ci fa capire che attraverso il tortuoso cammino della vita possono trovare la loro dimensione, aiutati anche dal fratello o dalla sorella “fragile”.
E posso ancora parlare di noi si inserisce in un filone letterario ancora poco esplorato, mi viene in mente Mio fratello rincorre i dinosauri, romanzo autobiografico di Giacomo Mazzariol, dove l’autore parla della relazione con il fratello con la sindrome di Down, portato sul grande schermo nel 2019.
Ivo e Me mi hanno ricordato anche Ovosodo, il film del 1997 diretto da Paolo Virzì, dove il protagonista ha un fratello con disabilità e per un tratto dell’esistenza sono l’uno la spalla dell’altro.
«E posso ancora parlare di noi, di quello che siamo diventati, di quello che ci hanno tolto, di quello che volevamo ancora vivere ma non abbiamo potuto, di quel bello che, nonostante tutto, spero sempre possa succedere», dice Ivo, e si comprende così che la disabilità non è stata il “terzo incomodo” nel rapporto con Me, ma un valore aggiunto nel quale hanno trovato la forza di lottare per entrambi.

*Direttrice responsabile di Superando. Il presente servizio è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “‘E posso ancora parlare di noi’, un romanzo che dà voce ai sentimenti dei siblings”, e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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Al Museo senza barriere

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Accessibilità, progetti inclusivi, azioni partecipate, percorsi di visita per tutte le persone, musei come luoghi di convivenza oltre le differenze: sono le coordinate del protocollo d’intesa sottoscritto a Torino tra Filippo Masino, direttore delle Residenze Reali Sabaude-Musei Nazionali Piemonte, Franco Lepore, presidente dell’UICI Piemonte e Giovanni Laiolo, presidente dell’UICI di Torino Da sinistra: Franco Lepore, presidente dell’UICI Piemonte, Filippo Masino, direttore delle Residenze Reali Sabaude-Musei Nazionali Piemonte e Giovanni Laiolo, presidente dell’UICI di Torino

Accessibilità, progetti inclusivi, azioni partecipate, percorsi di visita per tutte le persone, musei come luoghi di convivenza oltre le differenze: sono le coordinate del protocollo d’intesa sottoscritto nei giorni scorsi a Torino, presso gli Appartamenti dei Principi di Palazzo Carignano, tra Filippo Masino, direttore delle Residenze Reali Sabaude-Musei Nazionali Piemonte, Franco Lepore, presidente dell’UICI Piemonte (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti) e Giovanni Laiolo, presidente dell’UICI di Torino.

«Questo accordo – spiegano dall’UICI Piemonte – aggiunge un nuovo importante tassello al quadro strategico portato avanti dall’Istituto delle Residenze Reali Sabaude per ampliare l’accessibilità dei percorsi gestiti e fare in modo che l’esperienza museale possa essere sempre più inclusiva e partecipata, anche nell’ottica degli obiettivi di crescita sostenibile e riduzione delle disuguaglianze dell’Agenda ONU 2030. Il diritto alla cultura da parte di tutta la cittadinanza è infatti al centro di programmi che si muovono in molteplici direzioni: iniziative per il superamento delle barriere cognitive e sensoriali, anche sviluppate insieme alla Fondazione Istituto dei Sordi, al Politecnico di Torino e ad Associazioni che operano con particolare attenzione per le persone con disturbi dello spettro autistico; progetti per il PEBA (Piano di Eliminazione delle Barriere Architettoniche); attività per favorire il dialogo interculturale e l’integrazione sociale dedicate a persone fragili o in condizioni di disagio e difficoltà».

Nello specifico della collaborazione con l’UICI, essa prevede azioni diverse, quali corsi di formazione, condivisione di forme per comunicare in modo inclusivo, realizzazione di attività didattiche, mostre, seminari e pubblicazioni, caratterizzandosi come uno dei punti di forza del progetto di riallestimento di Palazzo Carignano che porterà nei prossimi mesi all’apertura di un percorso di visita più ampio e rinnovato. I lavori, attualmente in corso, sono stati pensati, infatti, nella prospettiva della più estesa accessibilità, con l’utilizzo di strumenti di mediazione multimediale e multisensoriale, anche attraverso l’applicazione di tecnologie digitali di ultima generazione.
Il progetto sarà realizzato grazie ai fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ed è stato l’unico finanziato in Piemonte nell’àmbito delle misure a favore degli allestimenti per comunicare l’accessibilità e migliorare la fruizione dei luoghi della cultura nazionali.
«Il piano di riallestimento di Palazzo Carignano – sottolineano infatti dall’UICI Piemonte – è considerato come un modello possibile per interventi futuri in altre realtà museali, un progetto “manifesto”, per offrire un esempio concreto degli approcci all’accessibilità più innovativi e trasformare davvero il museo in un luogo accogliente, inclusivo e partecipato, andando anche oltre alle barriere sensoriali, cognitive e culturali. Un obiettivo che rende ancora più prezioso e fondamentale il confronto con il Consiglio Regionale e con la Sezione territoriale di Torino della nostra Associazione, in tutte le forme di supporto e collaborazione previste dal protocollo di intesa siglato nei giorni scorsi». (S.B.)

Per ulteriori informazioni: comunicazione@uicpiemonte.it (Lorenzo Montanaro).

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Quel patto di fiducia che è stato incrinato

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«Vicende come questa – scrive Enrico Mantegazza, a proposito dei maltrattamenti nei confronti di persone con disabilità di cui sono accusati otto operatori di un centro diurno di Milano – possono incrinare profondamente quel tacito patto basato sulla fiducia di chi (familiare o caregiver) affida una persona con disabilità (figlio, fratello, genitore) e il suo benessere a una persona o a un gruppo di persone per una parte o per tutta la giornata»

Nei giorni scorsi è stata diffusa la notizia che otto operatori di un centro diurno (tra cui due responsabili) di Milano sono stati interdetti dall’esercizio dell’attività: il gruppo è accusato di maltrattamenti nei confronti delle persone con disabilità che frequentavano la struttura [di tale vicenda si legga già anche sulle nostre pagine, N.d.R.].
Al di là del fatto di cronaca, delle responsabilità che dovranno essere accertate, della brutalità delle azioni e delle parole che i quotidiani attribuiscono agli operatori, questa situazione ci sconcerta e interroga profondamente il nostro sistema di welfare.

In questo momento storico, sia la normativa regionale lombarda (Legge Regionale 25/22), sia quella nazionale (Decreto Legislativo 62/24) pongono alle Associazioni di persone con disabilità e al mondo dei servizi una sfida nuova e impegnativa: mettere al centro dei percorsi di autonomia delle persone con disabilità il progetto di vita individuale e partecipato. Il punto di riferimento non sono più, dunque, i presunti “bisogni”, ma i desideri e le aspettative di tutte le persone con disabilità, comprese quelle che hanno un maggiore bisogno di sostegno e che faticano maggiormente a esprimersi.
Il ruolo degli educatori è fondamentale per far emergere questi desideri e aspettative; ma è difficile pensare che questo possa avvenire se si incrina quel tacito patto basato sulla fiducia di chi (familiare o caregiver) affida una persona con disabilità (figlio, fratello, genitore) e il suo benessere a una persona o a un gruppo di persone per una parte o per tutta la giornata.

Vicende come quella di Milano possono incrinare profondamente questo patto. Com’è possibile che figure di coordinamento, che dovrebbero essere garanti della tenuta di un sistema che vede nell’accreditamento (svolgere cioè una funzione in nome e per conto del “pubblico”), possano aver taciuto, ignorato o non rilevato quello che viene raccontato sui giornali?
È evidente che i sistemi basati sulla vigilanza e sul controllo non sono sufficienti, che le customer satisfaction proposte ai centri diurni non hanno restituito alcun segnale di allarme.
È evidente che un sistema basato sul “minutaggio” della prestazione, sul rispetto pedissequo di qualifiche professionali, di tipologie di professionisti, non possa in alcun modo garantire una qualità di vita né un contesto capace di far emergere, raccogliere ed elaborare desideri e aspettative da parte di chi ha difficoltà ad esprimere la propria volontà.

C’è poi un altro elemento su cui è importante fermarsi a riflettere: la carenza di personale educativo qualificato. I giovani che vogliono svolgere professioni educative sono in calo; una situazione che impedisce il ricambio generazionale, aumenta il rischio di burnout degli operatori e, peggio ancora, rende spesso necessario il ricorso a personale poco o nulla qualificato, perché altrimenti non si rispettano gli standard previsti dal rigido sistema di norme.
A fare le spese di questa situazione sono in primis le persone con disabilità. Il fatto che questi maltrattamenti siano potuti accadere all’interno di un servizio diurno (che occupa solo parte della giornata delle persone con disabilità) è un segnale particolarmente preoccupante, senza dimenticare che il rischio di maltrattamento e abusi è ancora più elevato nelle strutture residenziali in cui le persone “ospiti” trascorrono tutta la giornata e tutta la notte. Spesso con poche opportunità di interazione con l’esterno.

È il momento di cambiare approccio! La normativa (voluta e proposta dalle Associazioni di persone con disabilità) ci impone una sfida enorme: aprire tutti i servizi, aprire tutti quei luoghi chiusi dove è più alto il rischio che si commettano abusi e maltrattamenti, fare uscire sul territorio le persone che sono “dentro” i servizi. Questo passaggio non possiamo farlo da soli né in contrapposizione con il “pubblico”: dev’essere un’azione corale, coraggiosa, di Associazioni, Comune, ATS Milano (Agenzia di Tutela della Salute) e Imprese Sociali.

*Presidente di LEDHA Milano (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità).

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NOI: pellegrini di speranza

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Il convegno “NOI: pellegrini di speranza”, promosso dalla CEI (Conferenza Episcopale Italiana), si terrà a Roma il 28 aprile in occasione del “Giubileo delle Persone con Disabilità”. L’evento vedrà la partecipazione di oltre venti relatori e si concluderà con un pellegrinaggio alla Porta Santa. Progetto di vita, scienza, tecnologia ed etica i principali temi di riflessione

Ha per titolo NOI: pellegrini di speranza il convegno nazionale promosso dal Servizio Nazionale della CEI (Conferenza Episcopale Italiana) per la Pastorale delle Persone con Disabilità, che si svolgerà il 28 aprile a Roma, in occasione del Giubileo delle Persone con Disabilità di cui abbiamo già scritto sulle nostre pagine.
L’incontro vuole rappresentare un momento di riflessione e di approfondimento delle tematiche legate sia al progetto di vita, alla scienza, alla tecnologia e all’etica. L’appuntamento, come detto, è per l’intera mattinata del 28 aprile a Roma, presso il Centro Congressi Augustinianum (Via Paolo VI, 25, accanto al colonnato della Basilica di San Pietro).

L’evento – dotato di sottotitolazione e interpretariato in LIS – vedrà avvicendarsi più di venti relatori, con i saluti introduttivi affidati, tra gli altri, al cardinale Matteo Zuppi, presidente della CEI, a Roberto Gualtieri, sindaco di Roma, ad Alessandra Locatelli, ministra per le Disabilità, e a Maurizio Borgo, garante nazionale per i diritti delle persone con disabilità.
Tra i relatori vi saranno Paolo Bandiera dell’AISM (Associazione Italiana Sclerosi Multipla); don Andrea Ciucci della Pontificia Accademia per la Vita; Marco Pizzio, esperto nazionale in AccessibleEU, Centro per l’Accessibilità della Commissione Europea. Tra i moderatori delle varie sessioni, l’atleta paralimpico Oney Tapia e la conduttrice Rai Benedetta Rinaldi.

Il convegno si concluderà con il pellegrinaggio alla Porta Santa e parallelamente ad esso, per i due giorni del Giubileo delle Persone con Disabilità, sarà possibile visitare Le Vie della Speranza, spazio espositivo che prevede l’allestimento in Via della Conciliazione di ben 35 stand, nei quali numerosi Enti e Associazioni avranno la possibilità di raccontarsi. (C.C. e S.B.)

Il depliant del convegno. Per ulteriori informazioni: Danilo Angelelli (d.angelelli@chiesacattolica.it).

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Una nuova riunione dell’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità

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Lo stato di avanzamento della sperimentazione della riforma sulla disabilità di cui al Decreto Legislativo 62/24, le iniziative previste per l’imminente “Giubileo delle Persone con Disabilità”, il punto sulla redazione del nuovo Programma di Azione triennale per la promozione dei diritti delle persone con disabilità e l’annuncio di un nuovo Gruppo di Lavoro sull’Affettività, sono stati tra i temi trattati durante l’ultima riunione dell’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità

«Mi auguro che la Riforma promuova anche un impulso al rinnovamento dei servizi e in particolare dei centri diurni, rendendoli luoghi più flessibili e di scambio con il territorio e il mondo delle Associazioni»: lo ha dichiarato la ministra per le Disabilità Alessandra Locatelli, durante l’ultima riunione dell’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità, aggiungendo che «nell’attuale contesto di grande cambiamento sulla disabilità, dobbiamo essere in grado di valorizzare la figura dell’educatore e abbiamo bisogno di persone determinate a coordinare il Progetto di vita. Sono pertanto convinta che serva ridare dignità a chi svolge un ruolo fondamentale nei servizi, nelle scuole, a domicilio e sul territorio, ricomponendo tutti gli aspetti della vita quotidiana, spesso punto di riferimento per le persone con disabilità e le loro famiglie».

Aperta da un intervento di suor Veronica Donatello, responsabile del Servizio Nazionale per la Pastorale delle Persone con Disabilità nella CEI (Conferenza Episcopale Italiana), che ha illustrato le iniziative previste per il Giubileo delle Persone con Disabilità del 28 e 29 aprile (se ne legga già anche sulle nostre pagine) e proseguita con la presentazione da parte di Renato Pujatti, presidente di Pordenone Fiere, di 104 The Caregiving Expo, manifestazione che si svolgerà dall’8 al 10 maggio nella città friulana, la riunione è stata poi centrata sull’illustrazione dello stato di avanzamento della sperimentazione della riforma di cui al Decreto Legislativo 62/24 (Definizione della condizione di disabilità, della valutazione di base, di accomodamento ragionevole, della valutazione multidimensionale per l’elaborazione e attuazione del progetto di vita individuale personalizzato e partecipato), avviata, come noto, dall’inizio di quest’anno, in nove Province italiane (Brescia, Catanzaro, Firenze, Forlì-Cesena, Frosinone, Perugia, Salerno, Sassari e Trieste), alle quali, dal prossimo 30 settembre, se ne aggiungeranno altre undici (Alessandria, Aosta, Genova, Isernia, Lecce, Macerata, Matera, Palermo, Teramo, Trento e Vicenza).
È stato inoltre fatto il punto sulla redazione del nuovo Programma di Azione triennale per la promozione dei diritti delle persone con disabilità e annunciata l’istituzione, all’interno dell’Osservatorio, del nuovo Gruppo di Lavoro sull’Affettività. (S.B.)

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Inclusione e innovazione: il Museo di Lipari si trasforma

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In corso al Museo di Lipari, nelle Isole Eolie, il progetto “Dal museo al teatro”, nell’ambito del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza: dal prossimo mese di maggio verranno esposti 35 reperti tattili, segnaletica in Braille e in LIS, app, auto elettriche per i visitatori a ridotta mobilità e uno spettacolo teatrale originale, il “Prometeo incatenato” di Eschilo Riproduzioni delle maschere teatrali del Museo di Lipari (foto di Alessandro Villa)

Dal prossimo mese di maggio, il Museo Archeologico Luigi Bernabò Brea di Lipari, che fa parte del Parco Archeologico delle Isole Eolie della Regione Siciliana, “parlerà” in Braille e in LIS (Lingua dei Segni Italiana) e sarà fruibile quindi dalle persone con disabilità visive e delle persone sorde segnanti, grazie a una serie di innovazioni tecnologiche realizzate con i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza per la rimozione delle barriere fisiche e cognitive.
Vietato non toccare, recita infatti un pannello, e sono in arrivo copie tattili delle maschere della tragedia antica (come Paride e Filottete, IV secolo a.C., figure riconducibili alla perduta tragedia di Sofocle Filottete a Troia) e della commedia nuova (come Pseudokore e l’Etera, prima metà del III secolo a.C.); statuette comiche (come il Satiro sconcertato, dalla pancia gonfia e l’inequivocabile citazione fallica, tipica della satira del IV secolo a.C.); vasi delle culture preistoriche e un cratere attico a figure rosse (V secolo a.C). In tutto 35 reperti tattili, perfettamente uguali agli originali e realizzati in “PLA” (bioplastica ricavata da zuccheri vegetali), con tecnologie digitali e rilievi con laser scanner, che potranno essere toccati dai visitatori con disabilità visive (e non solo), restituendo loro la reale percezione della ricca collezione archeologica del Museo liparese, istituzione di altissimo valore storico e identitario che proprio lo scorso anno ha compiuto i suoi primi 70 anni di vita. Per i visitatori un’app, video descrizioni a tema e raccontate in LIS, didascalie e segnaletica in Braille (oltre a italiano e inglese) dentro e fuori il museo.

Le tante novità verranno presentate al Parco delle Eolie il 2 e il 3 maggio nel corso di una due giorni che, oltre a un convegno e a un workshop con gli attori istituzionali coinvolti nel progetto – e fra questi gli interventi dell’assessore regionale siciliano ai Beni Culturali e all’Identità Siciliana Francesco Paolo Scarpinato e del direttore generale del Dipartimento dei Beni Culturali stessi, Mario La Rocca –  prevede nella serata del 3 maggio (ore 21), lo spettacolo Il Prometeo incatenato da Eschilo.

«Rendere i luoghi della cultura quanto più accessibili possibile è tra le nostre mission – ha dichiarato l’assessore regionale Scarpinato -; grazie infatti anche alle moderne tecnologie e ai sistemi più avanzati, la disabilità non può e non deve costituire un limite alla fruizione di parchi archeologici, musei e gallerie. Stiamo lavorando alacremente in questa direzione affinché un numero sempre maggiore di siti sia accessibile a tutti».

Il progetto, finanziato come detto dal Piano Nazionalre di Ripresa e Resilienza (con circa 500.000 euro), è redatto dal Parco delle Isole Eolie ed è stato messo a punto in collaborazione con l’Università Cattolica di Milano, l’Università Mediterranea di Reggio Calabria e la Società Naos Lab (azienda che opera tra Salerno, Catanzaro e Roma), che ha curato tutta l’elaborazione digitale. Il coordinamento scientifico è di Maria Clara Martinelli, archeologa del Parco Eolie, Francesca Fatta, docente di Disegno dell’Architettura all’Università Mediterranea di Reggio Calabria ed Elisabetta Matelli, docente di Storia del Teatro Greco all’Università Cattolica. (C.C. e S.B.)

Per ogni ulteriore informazione: info@melamedia.it (Carmela Grasso).

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L’insostenibile situazione delle case famiglia di Roma e del Lazio

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«Questi servizi garantiscono la tutela delle persone più vulnerabili della nostra comunità, con competenza e responsabilità, ma senza un adeguamento delle rette, non sarà più possibile assicurare gli standard qualitativi richiesti, con il concreto rischio di chiusura delle strutture»: lo hanno scritto numerosi enti e organizzazioni in una lettera indirizzata al Sindaco di Roma, denunciando ancora una volta l’ormai insostenibile situazione economica delle case famiglia capitoline L’interno di una casa famiglia del Lazio per persone adulte con disabilità

«Questa è una situazione ormai insostenibile, che richiede con urgenza un intervento da parte delle Istituzioni: a Roma, in questo momento, trovano accoglienza in casa famiglia circa 1.000 minori e 150 donne sole con figli piccoli in condizioni di grave fragilità, ma le organizzazioni che gestiscono questi servizi residenziali stanno affrontando una crisi economica che rischia di compromettere le cure e l’assistenza. I costi necessari per garantire standard di qualità e il pieno rispetto contrattuale non sono infatti più compatibili con le rette attualmente riconosciute da Roma Capitale»: a lanciare il grido d’allarme sono l’Associazione Casa al Plurale, l’AGCI Lazio (Associazione Generale Cooperative Italiane), Confcooperative Federsolidarietà Lazio, Legacoop Lazio, il Forum del Terzo Settore Lazio, il CNCM Lazio (Coordinamento Nazionale delle Comunità di tipo familiare per i Minorenni), il CNCA Lazio (Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza) e l’Associazione Mam&Co.
In una lettera indirizzata al sindaco di Roma Roberto Gualtieri (lettera disponibile integralmente a questo link), tali Enti hanno chiesto dunque di porre rimedio, prima che sia troppo tardi, ad una crisi finanziaria aggravatasi in seguito all’aggiornamento del Contratto Collettivo Nazionale delle Cooperative Sociali e alla mancata revisione delle tariffe, ferme ai parametri del 2019 per i minori e del 2021 per i nuclei madre-bambino.

«Questi servizi – dichiarano i rappresentanti delle organizzazioni e degli enti gestori dei servizi residenziali per minori e nuclei madre-bambino della Capitale – garantiscono la tutela delle persone più vulnerabili della nostra comunità, con competenza e responsabilità. Tuttavia, senza un adeguamento delle rette, non sarà più possibile assicurare gli standard qualitativi richiesti, con il concreto rischio di chiusura delle strutture. E stiamo parlando di oltre un centinaio di strutture altamente specializzate, sottoposte a stringenti requisiti autorizzativi, strutturali e organizzativi, diffuse sul territorio romano».

Come si legge nella lettera inviata al Sindaco di Roma, «Avvenuto ormai da oltre un anno, il rinnovo del Contratto Collettivo Nazionale delle Cooperative Sociali, giusto e necessario, ha aggravato una situazione economica già critica e la mancata revisione delle rette ha prodotto effetti destabilizzanti: allontanamento di risorse umane qualificate, difficoltà nella tenuta organizzativa, rischio concreto di chiusura dei servizi, nonostante l’osservanza rigorosa delle regole da parte degli enti gestori. È evidente che la crisi in atto non può più essere scaricata sulle spalle delle cooperative sociali e degli enti del Terzo Settore. Occorre un segnale istituzionale chiaro, concreto e immediato».

Ma di quali numeri si parla? Sulla scorta del rapporto Quanto costa una casa famiglia?, redatto a suo tempo e sempre aggiornato da Casa al Plurale – che è, lo ricordiamo, l’Associazione di coordinamento delle case famiglia di Roma e del Lazio -, si può constatare che l’attuale retta per minori è pari a 100 euro (IVA inclusa e quindi 95,23 euro), mentre dovrebbe essere di 252.98 euro; quella per le mamme per bambino ammonta a 79,05 euro, mentre sarebbero necessari, conti alla mano, 171.83 euro.
Le varie organizzazioni richiedono dunque con urgenza un primo intervento «anche simbolico, ma indispensabile», attraverso lo stanziamento di una somma pari all’adeguamento ISTAT del costo della vita (almeno 7,8 milioni di euro) e «l’istituzione di un tavolo di confronto permanente tra Comune, Regione e Governo, al fine di costruire un sistema di tutela stabile ed equo».
«Siamo consapevoli delle difficoltà del bilancio capitolino – concludono i firmatari della lettera -, ma in situazioni di risorse limitate è indispensabile compiere scelte e definire priorità». (S.B.)

Per ulteriori informazioni: Ufficio Stampa Casa al Plurale (Carmela Cioffi), carmelacioffi@gmail.com.

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Il 28 e 29 aprile a Roma il “Giubileo delle Persone con Disabilità”

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Il “Giubileo delle Persone con Disabilità”, evento dell’Anno Santo 2025, si terrà a Roma il 28 e 29 aprile. ​L’iniziativa, promossa dal Dicastero per l’Evangelizzazione della Curia romana, è dedicata alle persone con disabilità, ai loro familiari e amici, agli accompagnatori. ​L’obiettivo è creare un momento di inclusione e spiritualità, con un programma ricco di celebrazioni e incontri

Il Giubileo delle Persone con Disabilità, evento straordinario dell’Anno Santo 2025, si terrà a Roma il 28 e 29 aprile. ​L’iniziativa, promossa dal Dicastero per l’Evangelizzazione della Curia romana, sarà dedicata segnatamente alle persone con disabilità, ai loro familiari e amici, agli accompagnatori, con l’obiettivo di creare un momento di inclusione e spiritualità, presentando un programma ricco di celebrazioni e incontri. ​

Ogni partecipante che si è iscritto riceverà la Carta del Pellegrino, strumento digitale gratuito che consentirà l’accesso agli eventi, sconti su trasporti e alloggi e la prenotazione per il pellegrinaggio alle Porte Sante.​ Il 28 aprile, quindi, i pellegrini potranno attraversare la Porta Santa delle Basiliche Maggiori di Roma e seguire la celebrazione della Messa in Piazza San Pietro alle 17.​ Il 29 aprile, infine, l’incontro con Papa Francesco, alle 11, sarà il momento centrale, seguito da un pranzo di benvenuto e da un pomeriggio di festa nei Giardini di Castel Sant’Angelo.

«Il Giubileo delle Persone con Disabilità – sottolineano i promotori – sarà un’occasione unica per celebrare la fede e la speranza, con un inno dedicato e una preghiera ufficiale. In tal senso Roma si prepara ad accogliere migliaia di pellegrini, unendo spiritualità, inclusione e solidarietà». (C.C.)

Il vademecum. Ulteriori informazioni a questo link.

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È aperto al pubblico a Genova il laboratorio “I Pasticci della Tartaruga”

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“I Pasticci della Tartaruga” è un laboratorio di pasticceria a Genova che produce dolci senza glutine di alta qualità, realizzati da giovani adulti con disabilità cognitiva. Il progetto, promosso dalla Cooperativa  La Compagnia della Tartaruga, mira a creare opportunità di formazione e inserimento lavorativo per questi giovani, valorizzandone le capacità in un ambiente umano e professionale. «Ogni dolce rappresenta un passo verso una società più inclusiva e attenta alle diversità» Sono dolci buoni davvero per tutti quelli prodotti dal laboratorio di pasticceria I Pasticci della Tartaruga, promosso a Genova dalla Cooperativa Sociale La Compagnia della Tartaruga.
Realizzati con cura artigianale e ingredienti di alta qualità da tre giovani adulti con disabilità cognitiva – Alice (30 anni), Amina (24 anni) e Massimiliano (39 anni) – guidati dal pasticciere Michele Pietragalla, i dolci dei Pasticci della Tartaruga sono Gluten Free (“senza glutine”), creati in un laboratorio dedicato, appartenente al network Alimentazione Fuori Casa dell’AIC (Associazione Italiana Celiachia). Fatti a mano uno per uno, unici come uniche sono le persone che li producono, sono creati con ricette che nascono già di base con un basso contenuto di farina, arricchite con materie prime “pregiate” come la frutta secca.

Elemento distintivo del laboratorio di pasticceria è il forte valore sociale: nasce infatti con l’obiettivo principale di creare opportunità reali di formazione e inserimento lavorativo per giovani con disabilità cognitiva, «valorizzandone le capacità e le potenzialità, in un ambiente professionale ma profondamente umano, dove la qualità del prodotto va di pari passo con la qualità delle relazioni», come si legge in una nota della Cooperativa Sociale.

«Fare dolci buoni per tutti, partendo da chi è spesso escluso: è questa la nostra rivoluzione», afferma Enrico Pedemonte, presidente della Cooperativa La Compagnia della Tartaruga. «Con I Pasticci della Tartaruga, così come con il bed & breakfast La Sosta della Tartaruga, trasformiamo la lentezza in valore, e il lavoro in strumento di inclusione autentica. I nostri giovani, affiancati da un pasticciere esperto, producono dolci senza glutine che non sono pensati solo per chi ha un’intolleranza, ma per chiunque voglia scegliere la qualità e la cura artigianale. Ogni dolce rappresenta così un piccolo passo verso una società più inclusiva e attenta alle diversità. Perché l’inclusione può essere anche una scelta di gusto, concreta e quotidiana». (C.C.) A questo link è disponibile un testo di ulteriore approfondimento. Per altre informazioni: Ufficio Stampa Compagnia della Tartaruga (Paola Iacona), paolaiacona.comunicazione@gmail.com.

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Ma se io avessi previsto che… i Regolamenti di Contabilità contano più delle Convenzioni Internazionali!

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«Non sono giustificabili – scrive Roberto Toppoli – le prassi in vigore nei Servizi Sociali Municipali di Roma Capitale sulla gestione dei fondi per i servizi sociali. È una questione di volontà e di comprendere la specificità dei servizi erogati in favore delle persone, che non possono essere equiparati ad altre funzioni dell’Ente Locale. Qui parliamo delle vite delle persone, del loro bene-essere, del superamento delle barriere che non permettono di godere pienamente dei propri diritti»

Ma se io avessi previsto tutto questo… Da ammiratore di Francesco Guccini, avrei dovuto intitolare questo scritto L’avvelenata, visto lo stato d’animo nel quale mi trovavo nei giorni scorsi, dopo l’ennesima segnalazione, da parte del familiare di una persona con disabilità a Roma, riguardante una criticità nell’erogazione del servizio cosiddetto “domiciliare” in favore del proprio figlio.
La storia è, più o meno, sempre la stessa. La persona con disabilità porta con sé una situazione complessa, il grado di intensità assistenziale è alto, la cooperativa che eroga il servizio non è più in grado di portarlo avanti. I familiari si rivolgono, ovviamente, al Servizio Sociale Municipale chiedendo, in alternativa, l’attivazione della cosiddetta “assistenza indiretta”, ovvero l’erogazione del servizio da parte di operatore/i che la famiglia stessa cercherà, contrattualizzerà e retribuirà, rendicontando mensilmente al Municipio il quale provvederà, dopo i dovuti controlli di regolarità amministrativa, a compensare le cifre spese.
Tutto semplice? Parrebbe di sì. Non si tratta, per il Municipio, di spendere più denari, ma soltanto di imputarne la spesa in una diversa “voce economica”; infatti, non si parla più di un “servizio”, ma di un “contributo”, ripeto, a saldo invariato per il bilancio municipale.
La risposta del Servizio, però, non è così lineare: se la famiglia intende avvalersi dell’assistenza indiretta, deve “rinunciare” all’attuale servizio, il SAISH (Servizio per l’Autonomia e l’Integrazione della Persona con Disabilità), e iscriversi ad una nuova “lista di attesa” con tempi di attivazione del servizio non prevedibili.
E qui ci chiediamo dove sia la presa in carico, ovvero di chi sia la responsabilità su quanto messo in campo in favore di questa persona che, dall’oggi al domani, viene “scaricata” senza una reale motivazione.

Prima di continuare, mi si permetta una digressione su un altro argomento che non smette di indignarmi ogni volta che, per motivi professionali, mi trovo a leggere una Delibera o una Determinazione Dirigenziale, che sia regionale o comunale. Prendetene una a caso e preparatevi ad una buona mezz’oretta introduttiva dedicata ai “rimandi” ad altri atti o norme. Vi attende un florilegio di: Premesso, Visto, Tenuto conto, Preso atto, Atteso che, Considerato, Ritenuto, Dato atto, che illustra quanto di positivo e condivisibile abbiano stabilito le normative internazionali, europee, nazionali e regionali. E quando si tratta di disabilità, tra le norme richiamate, non manca mai la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Ma la Convenzione ONU, all’articolo 3, delinea servizi sociali che operano in tutt’altra direzione di quella alla quale ci troviamo di fronte nelle situazioni reali, come quella dalla quale abbiamo preso le mosse. Infatti, la citata Convenzione, all’articolo 3, tra i Principi generali riconosce «il rispetto per la dignità intrinseca, l’autonomia individuale – compresa la libertà di compiere le proprie scelte – e l’indipendenza delle persone». E poi afferma, all’articolo 19 (Vita indipendente ed inclusione nella società), che «le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, sulla base di eguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione abitativa; che abbiano accesso ad una serie di servizi di sostegno domiciliare, residenziale o di comunità, compresa l’assistenza personale necessaria per permettere loro di vivere all’interno della comunità e di inserirvisi e impedire che esse siano isolate o vittime di segregazione; che i servizi e le strutture comunitarie destinate a tutta la popolazione siano messe a disposizione, su base di eguaglianza con gli altri, delle persone con disabilità e siano adatti ai loro bisogni».
Ma tutti questi princìpi sono resi inutili enunciazioni da regolamenti di contabilità, che si presumono invalicabili e immodificabili e consolidate prassi che al Comune di Roma si traducono in «si è sempre fatto così!». Gli uffici si barricano, cioè, dietro una presunta rigidità degli stanziamenti presenti nel bilancio e quindi nell’impossibilità di utilizzare le risorse stanziate (tornando all’esempio iniziale per il SAISH), per un diverso servizio, nel nostro caso l’assistenza indiretta.
Ma se fosse così sarebbe più opportuno, e lineare, che tutti i Premesso, Visto, Tenuto conto, Preso atto, Atteso che, Considerato, Ritenuto, Dato atto si riducessero a:
° Premesso quanto enunciato dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.
° Considerato che questa Amministrazione ritiene il Regolamento di Contabilità norma sovraordinata alle Convenzioni internazionali.
° Atteso che le nostre prassi operative sono immutabili.
° Ritenuto quindi che i diritti sanciti nelle Convenzioni internazionali non siano esigibili nel nostro Paese…
Non sarebbe più coerente con l’operato dei servizi?

Chi scrive non ritiene giustificabili le prassi attualmente in vigore nei Servizi Sociali Municipali di Roma Capitale in merito alla gestione dei fondi per i servizi sociali. Il trasferimento dei fondi all’interno dello stesso Centro di Responsabilità (o di costo) da una voce economica all’altra è operazione di estrema semplicità e anche dove si dovessero trasferire fondi tra diversi Centri di Responsabilità la necessaria variazione – si ribadisce una volta ancora, a saldo invariato -, comporterebbe solo un Atto di Giunta capitolina che le Ragionerie Municipali potrebbero effettuare con estrema semplicità.
Per quanto riguarda i tempi “tecnici”, lo ritengo un falso problema perché si potrebbero utilizzare i fondi già presenti alla voce economica del nuovo servizio, in attesa che tali fondi venissero reintegrati con il trasferimento sopra descritto.
È una questione di volontà e, a parer mio, di comprendere la specificità dei servizi erogati in favore delle persone, che non possono essere equiparati ad altre funzioni dell’Ente Locale. Qui parliamo delle vite delle persone, del loro bene-essere, del superamento delle barriere che non permettono di godere pienamente dei propri diritti. Un irrigidimento di queste procedure rappresenta plasticamente proprio quella prospettiva oppressiva del Servizio Sociale che, a livello di comunità professionale, si sta approfondendo in questi tempi così critici per il nostro sistema di welfare.
L’Ordine Nazionale degli Assistenti Sociali (CNOAS) ha aperto infatti una seria riflessione su quella che dovrebbe essere, al contrario, una prospettiva anti-oppressiva ovvero un approccio da parte dell’assistente sociale che possa rappresentare un’importante opportunità per la promozione di politiche, interventi e pratiche nei servizi sociali, autenticamente orientati a promuovere la giustizia sociale.
Il Servizio Sociale viene definito, a livello internazionale, come «disciplina e professione chiamata a promuovere la giustizia sociale e la liberazione delle persone da forme di discriminazione e oppressione, favorendo l’esigibilità e il riconoscimento dei diritti e individuando gli interventi degli assistenti sociali a livello micro e macro come inscindibili (IFSW-International Federation of Social Workers e IASSW-International Association of Schools of Social Work, 2014).
Il Codice Deontologico, nella sua versione del 2020, affronta il tema dell’oppressione in due articoli, il 28 e il 47, facendo riferimento a diversi tipi di violenza e discriminazione che la professione si impegna a contrastare, sia per focalizzare l’attenzione sul fronte organizzativo nel quale gli assistenti sociali agiscono, rischiando di partecipare alla riproduzione di forme di oppressione istituzionale. Sono i princìpi che guidano gli attuali orientamenti maggiormente condivisi nella letteratura professionale che si concentra sull’importanza di un Servizio Sociale che metta al centro la relazione di fiducia e scambio con le persone e sulla necessità di includere interventi in grado di incidere sulle strutture sociali e i processi culturali alla base delle disuguaglianze.
La letteratura empirica e l’esperienza sul campo ci mostrano, tuttavia, una realtà nei servizi piuttosto differente. Nel primo numero del 2023 della «Rivista di Servizio Sociale», Elena Allegri e Mara Sanfelice affermano: «Carenze relazionali e comunicative, frammentazione dei percorsi di cura, accesso diseguale alle risorse in diversi territori, uno storico disinvestimento nel nostro sistema di welfare sul servizio sociale, diverse criticità nella formazione di base degli assistenti sociali sembrano variabili che convergono nel compromettere la possibilità del servizio sociale di farsi agente di cambiamento sociale e struttura societaria per promuovere una società inclusiva. Il servizio sociale orientato da un approccio anti-oppressivo dovrebbe innanzitutto affrontare il modo in cui i sistemi sociali e di welfare perpetuano forme di disuguaglianza e oppressione che impattano sulla vita quotidiana delle persone e, in secondo luogo, dovrebbe attivare interventi che contribuiscano a un cambiamento positivo a vari livelli di interazione. Tale prospettiva si è sviluppata con l’obiettivo di contribuire a contrastare forme di oppressione e disuguaglianza sociale nei confronti di individui, gruppi e comunità; tuttavia, la sua traduzione in pratica incontra barriere a diversi livelli, radicate anche nei processi che influenzano la definizione del ruolo e delle funzioni degli assistenti sociali nei sistemi di welfare».

Come ho avuto modo di dire in Campidoglio il 5 febbraio scorso, in occasione di un evento sul “Budget di salute”, è necessario un profondo ripensamento del senso e del valore del Servizio Sociale alla luce delle nuove acquisizioni in campo di disabilità, nella direzione tracciata dal documento presentato dal CNOAS al recente G7 su Inclusione e Disabilità, un testo dal titolo Assistenti sociali e disabilità – La nostra posizione in dieci punti, dove si afferma, tra l’altro, che «l’assistente sociale riconosce la centralità e l’unicità della persona in ogni intervento; considera ogni individuo anche dal punto di vista biologico, psicologico, sociale, culturale e spirituale, in rapporto al suo contesto di vita e di relazione». Da queste premesse derivano, ad esempio, il passaggio dall’assistenza ai diritti, la valutazione con e non sulla persona e, in definitiva il necessario ripensamento dei servizi.

Ultimo punto che vorrei qui evidenziare – e ce ne sarebbero tanti altri che per motivi di spazio non affronteremo in questa sede – è proprio quello relativo al citato “Budget di salute” (ora “Budget di progetto”, secondo il Decreto Legislativo 62/24). Questa metodologia viene esplicitamente prevista, nella Regione Lazio, all’articolo 53, comma 5 della Legge Regionale 11/16 (Sistema integrato degli interventi e dei servizi sociali della Regione Lazio), che afferma: «La Regione, al fine di dare attuazione alle indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sui “determinanti sociali della salute” e alle relative raccomandazioni del 2009 […], adotta una metodologia di integrazione sociosanitaria basata su progetti personalizzati sostenuti da budget di salute, costituiti dall’insieme di risorse economiche, professionali e umane necessarie a promuovere contesti relazionali, familiari e sociali idonei a favorire una migliore inclusione sociale del soggetto assistito…» [sottolineato dell’Autore, N.d.R.]».
Se i Servizi Territoriali del Lazio avessero dato seguito a questa normativa (quindi si possono non applicare le leggi?) il problema che abbiamo presentato all’inizio non si sarebbe neanche presentato.
Quanti anni sono che si studia questa metodologia, quanti corsi di formazioni, quanti convegni, quante sperimentazioni, quanta bibliografia dobbiamo ancora leggere, per cominciare a tradurre tutta questa teoria in prassi? Fabrizio Starace nel 2011, nel libro da lui curato Manuale pratico per l’integrazione sociosanitaria. Il modello del Budget di salute, presentava nella Parte seconda le sperimentazioni positive fatte in Campania e in Friuli Venezia Giulia. Avete capito bene, nel 2011, 14 anni fa, in due Regioni erano terminate le sperimentazioni del “Budget di salute”! Per parte sua, la Regione Lazio ne ha effettuata una nell’ASL RM6, terminata, con la consegna di una relazione finale, nel gennaio 2020. Che fine ha fatto? Altri cinque anni sono passati, lasciando tutto com’era.

Non è più tempo di procrastinare, accampare scuse, scaricare la responsabilità su altri. A livello normativo, sia nazionale che regionale, appare chiaro che il “Budget di salute” rappresenta una scelta ineludibile quando si definisce un progetto personalizzato: si veda, per tutte, la Legge 77/20, il già citato Decreto Legislativo 62/24 e, per la Regione Lazio, la pure citata Legge Regionale 11/16.
In questa sede è solo il caso di riportare un paragrafo del Decreto Legislativo 62/24, la cosiddetta “Riforma della Disabilità”, dove viene detto: «Il budget di progetto è caratterizzato da flessibilità e dinamicità al fine di integrare, ricomporre, ed eventualmente riconvertire, l’utilizzo di risorse pubbliche, private ed europee». È proprio di questa flessibilità e dinamicità che c’è bisogno nei servizi territoriali di Roma Capitale, per non rendere vane le dichiarazioni di princìpi che ogni giorno sentiamo ribadire.

Ma se io avessi previsto tutto questo… Avrei scelto comunque di fare l’assistente sociale, proprio per promuovere la giustizia sociale e la liberazione delle persone da ogni forma di discriminazione e oppressione!

*Assistente sociale, consulente dell’AIPD di Roma (Associazione Italiana Persone Down), vicepresidente del Comitato I.SO.LA. (Comitato per l’Integrazione Socio-Sanitaria nella Regione Lazio). Gli interessati, come singoli o come organizzazione, a portare avanti i temi trattati nel presente contributo di riflessione, possono contattare lo stesso Comitato I.SO.LA., scrivendo a comitato.isola.lazio@gmail.com.

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