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L’Associazione Italiana Dislessia e MyEdu: una partnership a favore delle persone con DSA

Superando - 23 Aprile 2025 - 5:45pm

Casa editrice digitale specializzata nella realizzazione di strumenti e risorse per la didattica, MyEdu ha intrapreso un percorso biennale a fianco dell’AID, l’Associazione Italiana Dislessia che promuove l’inclusione delle persone con DSA (disturbi specifici dell’apprendimento). Nello specifico, MyEdu sosterrà il lavoro quotidiano che la rete di volontari e dei formatori dell’AID svolge per informare, sensibilizzare e supportare le bambine, i bambini e gli adulti con queste neurodivergenze

Casa editrice digitale specializzata nella realizzazione di strumenti e risorse per la didattica e partner del Ministero dell’Istruzione e del Merito, MyEdu ha recentemente intrapreso un percorso biennale a fianco dell’AID, l’Associazione Italiana Dislessia che dal 1997 promuove in Italia l’inclusione delle persone con DSA (disturbi specifici dell’apprendimento: se ne legga anche in calce). Nello specifico, l’impegno di MyEdu sarà a sostegno del lavoro quotidiano che la rete di volontari e dei formatori dell’AID svolge sul territorio per informare, sensibilizzare e supportare le persone, le bambine e i bambini e gli adulti che hanno queste neurodivergenze.

La partnership prevede vari progetti, a partire dalla realizzazione della prima guida per i genitori in formato digitale e cartaceo, facilmente fruibile e divulgabile, con strategie e buone prassi validate dai formatori dell’AID sulla gestione dei DSA. Questi ultimi, infatti, si manifestano quasi sempre nelle aule scolastiche, ma spesso i genitori sono impreparati nel riconoscere i segnali predittivi e non sanno orientarsi tra le soluzioni che possono aiutare le proprie figlie e figli a superare le difficoltà quotidiane. Strumenti digitali realizzati sfruttando le potenzialità della tecnologia, indirizzate da specialisti della didattica e dell’educazione, possono dunque consentire di costruire percorsi di apprendimento su misura, adattabili ad ogni specificità, psicologica e neurologica. E in particolare la fruizione multimediale dei contenuti scolastici, l’utilizzo delle mappe concettuali e di giochi e lezioni interattive, tramite l’uso di devices, possono permettere alle bambine e ai bambini con DSA o altri BES (bisogni educativi speciali) di ridurre le proprie difficoltà, restando al passo dei propri coetanei.
Oltre poi all’attività informativa e divulgativa, MyEdu concretizzerà il proprio impegno al fianco di AID offrendo l’accesso gratuito alla piattaforma digitale alle bambine e ai bambini con DSA che usufruiscono del fondo di solidarietà AID, rivolto alle famiglie in difficoltà.

«L’accesso a strumenti didattici innovativi e inclusivi – sottolinea Silvia Lanzafame, presidente dell’AID – rappresenta un elemento fondamentale per il successo formativo e l’autonomia nell’apprendimento degli studenti e delle studentesse con DSA. Grazie al sostegno e all’esperienza di MyEdu, potremo offrire alle famiglie risorse concrete per affrontare con maggiore serenità il percorso scolastico dei propri figli e figlie. Questa partnership rappresenta un passo importante verso una scuola sempre più inclusiva e attenta alle esigenze di ogni studente, per non lasciare indietro nessuna e nessuno».
«Siamo felici – afferma dal canto suo Laura Fumagalli, presidente di MyEdu – di avere cominciato un percorso al fianco dell’Associazione di riferimento in Italia per un problema che riguarda sempre più famiglie e di conseguenza chiunque si occupi di didattica e siamo convinti, grazie alla loro autorevolezza e competenza sul tema, di poter realizzare progetti concreti per contribuire ad aiutare, nella quotidianità, chi deve affrontare queste difficoltà. Il nostro impegno, infatti, è favorire un’educazione inclusiva grazie alla realizzazione di contenuti e risorse progettati dai nostri esperti a “misura di tutti” e, nello specifico, fruibili anche da studentesse e studenti con disturbi specifici dell’apprendimento». (S.B.)

Per ulteriori informazioni: Ufficio Stampa AID (Gabriele Brinchilin), comunicazione@aiditalia.org; Ufficio Stampa MyEdu (Stefania Nebuloni), info.nebuloni@gmail.com. La dislessia e gli altri DSA (disturbi specifici dell’apprendimento)
Il più diffuso DSA (disturbo specifico di apprendimento) è la dislessia, cioè il disturbo specifico della lettura, che si manifesta e si evolve in concomitanza dell’inizio dell’attività scolastica, quando emergono le prime difficoltà nell’attivare in maniera fluente e senza affaticamento tutte quelle operazioni mentali necessarie per leggere, quali riconoscere le lettere singole, le sillabe e quindi le parole, associandole ai suoni corrispondenti. Frequenza degli errori e lentezza nella decodifica ne sono i tipici aspetti: il bambino può, per esempio, presentare difficoltà nel riconoscere, scambiandoli tra loro, grafemi che differiscono visivamente per piccoli particolari quali: “m” con “n”, “c” con “e”, “f” con “t”, “a” con “e”.
La persona con disortografia, invece, evidenzia la difficoltà a tradurre correttamente le parole in simboli grafici e a confondere il suono delle lettere (per esempio “f/v”, “t/d”, “p/b”, “c/g”, “l/r”).
Un terzo disturbo che impedisce alla persona di esprimersi nella scrittura in modo fluido è la disgrafia, caratterizzata da una grafia spesso illeggibile, da una pressione eccessiva sul foglio e dallo scarso rispetto degli spazi sul foglio.
C’è infine la difficoltà a comprendere simboli numerici e a svolgere calcoli matematici, conosciuta con il nome di discalculia. Stando ai dati, circa il 3% della popolazione studentesca è affetta da tale disturbo, che complica la lettura e la scrittura dei numeri e soprattutto l’elaborazione delle quantità. Gli errori collegati a questa problematica molto spesso non vengono riconosciuti nell’immediato. Diversi, infatti, sono i casi di discalculia erroneamente diagnosticati come dislessia.

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Amministrazione di sostegno: quel 30 per cento di gravi criticità

Superando - 23 Aprile 2025 - 4:58pm

Perché la Legge istitutiva dell’amministrazione di sostegno, pensata per favorire l’emancipazione e l’autodeterminazione di persone con qualche tipo di difficoltà, si è concretizzata in tantissimi casi in una violazione dei loro diritti umani? Salvatore Nocera e Simona Lancioni lo hanno chiesto a Paolo Cendon, considerato il “padre” di quella norma, oltre a parlare con lui della Proposta di Legge dell’Associazione Diritti alla Follia, volta a modificare la norma stessa Jina Wallwork, “Support” (©Jina Wallwork)

Com’è possibile che una norma pensata per favorire l’emancipazione e l’autodeterminazione di persone con qualche tipo di difficoltà si sia concretizzata in tantissimi casi in una violazione dei loro diritti umani? La norma di cui parliamo è la Legge 6/04, istitutiva dell’amministrazione di sostegno, che lo scorso anno ha compiuto vent’anni, e quella domanda abbiamo voluta porla, nell’intervista che presentiamo oggi, curata da Salvatore Nocera e Simona Lancioni, a colui che è considerato il “padre” della norma in questione, ossia Paolo Cendon, professore ordinario dell’Università di Trieste, nonché coordinatore scientifico del Tavolo nazionale sui diritti delle persone fragili, riattivato presso il Ministero della Giustizia nel novembre 2023. Con lui abbiamo parlato delle tante criticità che già da tempo denunciamo su queste pagine, dalle nomine di un amministratore di sostegno senza interpellare la persona che vi viene sottoposta, al mancato rispetto della volontà di quest’ultima; dai trattamenti sanitari autorizzati da terzi, ma spacciati come “scelti” dalla persona amministrata, alla contraccezione e a interruzioni di gravidanza eseguite senza il consenso delle donne con disabilità psicosociale sottoposte a “tutela giuridica”; e ancora, dall’impossibilità per la persona amministrata di stare in contatto con parenti/amici per volontà dell’amministratore di sostegno, ai numerosi furti ai danni delle persone amministrate, fino al trasferimento della persona amministrata in una struttura residenziale senza il suo consenso, come nell’eclatante “caso Gilardi”, costato all’Italia una condanna da parte della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, per violazione dell’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (se ne legga a questo link).
Per ovviare a tali criticità, l’Associazione Diritti alla Follia ha recentemente elaborato una Proposta di Legge di iniziativa popolare, attualmente aperta alla sottoscrizione online, che prevede modifiche e integrazioni alla Legge 6/04. Anche di questa Proposta di Legge, e in particolare di alcuni aspetti di essa, si è parlato con il professor Cendon.

Professor Cendon, lo scorso anno lei segnalava che le persone soggette ad amministrazione di sostegno hanno superato abbondantemente le 400.000, che questo numero è in costante aumento e che l’istituto funziona nell’80-90% dei casi. Noi vorremmo qui focalizzare la nostra attenzione su quel 10-20% dei casi – che corrispondono a 40/80mila persone – nei quali sono state riscontrate delle criticità anche particolarmente pesanti in una serie di situazioni. Com’è stato dunque possibile che una norma pensata per favorire l’emancipazione e l’autodeterminazione di persone con qualche tipo di difficoltà si concretizzi, in decine di migliaia di casi, in una violazione dei loro diritti umani?
«Vorrei innanzitutto precisare che i numeri da voi citati vanno leggermente corretti in basso, direi tra le 350.000 e le 400.000 persone soggette ad amministrazione di sostegno, anche se potrebbero esserci dati più recenti che confermino le 400.000. Non credo poi nemmeno che le cose vadano bene nell’80/90% dei casi, come da voi detto, credo infatti che vadano bene per il 30% dei casi, così così per un altro 30% e male per un ulteriore 30%.
Rispetto allo scopo della Legge 6/04, è certamente stato fondamentale l’obiettivo di favorire l’emancipazione e l’autodeterminazione delle persone ed è bene sottolinearlo. Ma vi è stata anche l’esigenza di protezione. Direi dunque che per metà si tratta di favorire l’emancipazione all’insegna della maggiore libertà possibile, per l’altra metà, invece, di proteggere e tutelare. Quando ad esempio c’è una persona che non è in grado, per varie ragioni, di fare quello che dovrebbe fare (pagare le bollette), allora il problema è quello di tutelarla.
Quindi, ribadisco, il trend voluto dalla Legge 6/04 è stato per metà quello dell’emancipazione e della “fioritura” delle persone, potremmo dire, per metà, invece, quello di salvaguardare, di impedire che le persone stesse precipitino in condizioni peggiori o pericolose».

Dopo la Sentenza del 6 luglio 2023, con cui la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per il cosiddetto “caso Gilardi”, quali garanzie ha oggi una persona sottoposta ad amministrazione di sostegno di non essere rinchiusa da qualche parte contro la propria volontà?
«In realtà è necessario precisare che nel caso di Carlo Gilardi la Corte Europea, che ha prodotto la Sentenza del 6 luglio 2023, non aveva sotto mano tutti gli elementi utili a potersi esprimere sul punto, in quanto non ha mai richiesto – e comunque non le sono mai stati forniti – i dati completi, e quindi ha giudicato ignorando una serie di importanti dettagli. In altre parole, non voglio dire che Carlo Gilardi “desiderasse spasmodicamente” andare nella casa di riposo, però, in certi frangenti non era così contrario. Soprattutto la Corte ha completamente dimenticato o ignorato – ignorando appunto il relativo fascicolo –, che Gilardi era un uomo che soffriva delle microvessazioni quotidiane che gli imponevano i suoi badanti, in modo molto insistente. E lui, che pure era buono e ispirato da sacri sentimenti, non se ne lamentava pubblicamente, ma in certe occasioni lo faceva. Le forze dell’ordine, a quanto mi risulta anche per esperienza diretta, lo invitavano ad esternare in qualche modo queste sue lagnanze con parole specifiche, per far sì che potessero intervenire.
Credo dunque che la realtà dei fatti sia stata abbastanza diversa da quella che si racconta. Potremmo dire che Carlo Gilardi fosse una persona “spezzata in due”, ossia che metà di lui, o forse anche più, odiasse andare in casa di riposo e stesse bene, tutto sommato, là dove stava, ma una parte di lui stesso, anche molto consistente, si rendeva conto di essere oggetto da qualche anno di quelle vessazioni da parte dei badanti che gli chiedevano denaro, gli imponevano azioni, arrivando fino al ricatto e a fargli addirittura commettere qualche piccolo reato.
Se dunque si ignorano queste parti della storia, si corre il rischio di produrre una Sentenza, come ha fatto la Corte Europea, enormemente sbilanciata. Un altro dato da ricordare, ad esempio, è che quando Carlo Gilardi era in casa di riposo, non è vero che ogni giorno chiedesse di vedere i cugini o altre persone che avrebbero fatto continuamente richiesta di essere presentati e di poter parlare con lui. Era infatti una persona di indole solitaria, contento, tutto sommato, che gli venissero risparmiate visite e richieste a cui diceva quasi sempre di no. Anche il Giudice ha probabilmente sbagliato quando ha negato dialogo e conversazioni con persone che l’avevano chiesto, ma questo è successo poche volte, mentre in ogni altro caso era lo stesso Gilardi a supplicare il giudice, e in particolare l’amministratore di sostegno, di essere tenuto al riparo da richieste di conversazioni con persone che lui praticamente non conosceva o che in ogni caso non stimava molto.
Quindi ci sono tanti “buchi” che in quel caso occorre certamente tenere presenti».

L’Associazione Diritti alla Follia ha elaborato una Proposta di Legge di iniziativa popolare, attualmente aperta alla sottoscrizione online, che prevede modifiche e integrazioni alla norma in questione. Nel chiederle qui di seguito un’opinione sugli interventi più caratterizzanti della Proposta, ci soffermiamo innanzitutto sulla necessità di specificare nei Decreti di nomina dell’amministratore di sostegno – come recita quella Proposta – che né quest’ultimo, né il Giudice Tutelare o il Collegio possano sostituirsi al beneficiario nell’assunzione di qualunque decisione, e che il loro compito è di «supportare il processo decisionale autonomo della persona».
«Non è così semplice rispondere a questa domanda, perché essa contiene una premessa in cui si vede il mondo della fragilità come se fosse fatto e costruito in un certo modo, mentre purtroppo è molto più complicato. Si diceva in precedenza che per la metà e oltre dei casi tutto va benissimo, è corretto e quindi è opportuno dire che l’autonomia vada salvaguardata e potenziata, che la libertà è sacrosanta… Nell’altra metà dei casi, purtroppo, non è così, il mondo non è come vorremmo. Non vorremmo che ci fosse la sofferenza, il dolore, le guerre e tante altre brutte cose che purtroppo esistono. Proviamo a far finta che non esistano? È così che vogliamo ragionare? Non credo sia giusto farlo. Si pensi ad esempio a quella che a mio parere è una questione riguardante tutti i beneficiari di amministrazione di sostegno, ovvero il pagamento delle bollette (luce, acqua, gas, telefono, tasse, condominio ecc.). Tutti quelli che possono non le pagano, ma è necessario farlo e quindi, cosa deve fare un amministratore di sostegno che si trova davanti a un beneficiario che dice “no, non le ho pagate, non voglio pagarle, non voglio pagare nemmeno le tasse…”? Se non paghi, ti tagliano la luce, se non paghi, corri dei rischi enormi. Ecco, questo è un esempio minimo, in fondo, un esempio molto semplice, ma sin troppo frequente. Che senso ha ignorarlo, fingendo quindi che il mondo sia diverso da quello che è? Il mondo, purtroppo, è fatto anche di beneficiari che certe volte non fanno cose indispensabili, come appunto pagare le bollette o le spese condominiali.
Sono cinque i casi difficili, o meglio, i gruppi di casi (circa 3 milioni di persone in Italia), nei quali purtroppo l’amministratore di sostegno e il giudice si trovano di fronte alla necessità di, non dico calpestare la volontà, ma di persuadere in ogni modo possibile il beneficiario a fare cose indispensabili e se il beneficiario si oppone, devono farlo lo stesso, come del resto ammette anche il Codice in alcuni passaggi in cui si parla di “rappresentanza esclusiva”. Si tratta dei casi di disagi psichici molto gravi, di anoressia, di alcolismo, di dipendenza da sostanze stupefacenti, di ludodipendenza. Qui ho esemplificato cinque categorie in cui ci si trova purtroppo di fronte a dei veri e propri muri e certe volte è necessario anche andare avanti. Si pensi all’anoressia, forse il caso più esemplare, perché qui è in gioco la vita di una persona.
All’inizio i giudici facevano come vorrebbe la Proposta di Legge dell’Associazione Diritti alla Follia, ossia “vabbè, se non vuoi mangiare, non importa, facciamo quello che vuoi, pazienza se muori!”. Questo è andato avanti così per qualche anno, poi i giudici hanno cambiato idea, sia pure senza mai venir meno alla persuasione, al dialogo, fin quando possibile, senza mai venir meno a questo codice fondamentale; quando però in certi casi si ha a che fare con la fragilità, quando una ragazza arriva a pesare 25 chili, occorre che il giudice dia all’amministratore di sostegno il potere di farla mangiare con la forza. E questo è successo in alcuni Decreti che abbiamo anche pubblicato recentemente, per testimoniare che non è un’invenzione del sottoscritto o di chissà chi, ma è quello che i giudici fanno quando devono farlo, perché c’è in gioco la vita delle persone. E sono le madri stesse [delle ragazze, N.d.R.], tra l’altro, che spesso li supplicano di non far morire a nessun costo la propria figlia».

Paolo Cendon

Sempre in riferimento alla citata Proposta di Legge, qual è il suo parere sull’introduzione del vincolo che l’individuazione (e l’eventuale sostituzione) dell’amministratore di sostegno sia ineludibilmente legata alla scelta del beneficiario?
«Come ho già detto in precedenza, credo sia un’illusione postulare un beneficiario che sia sempre perfettamente in grado di decidere. Diciamo che da qualche tempo in qua è approdata con evidenza e forza sempre maggiori, anche presso i giudici, la consapevolezza che l’essere umano è più complicato di come sembrerebbe e che spesso è “spezzato” in parti diverse tra loro, potremmo dire tra parti che “vogliono essere salvate” e parti che “non vogliono essere salvate”. Dal canto suo, il giudice tutelare opera una sorta di contratto con quella parte della persona che chiede di “essere salvata”.
Mi rendo conto che questa è una grande semplificazione della questione, ma credo sia fondamentale partire dalla presa d’atto che l’essere umano è molto complicato, e ignorare questo vuol dire semplificare troppo le cose».

Rispetto poi al fatto che uno stesso amministratore di sostegno possa avere un solo beneficiario, o al massimo tre, quando i beneficiari sono legati tra loro da rapporti di coniugio, o di parentela fino al secondo grado, che cosa ne pensa?
«Qui mi permetto di dire che si sfiora veramente il ridicolo, in quanto si immagina che fuori dei tribunali vi siano code di gente che dice: “voglio farlo io l’amministratore di sostegno, ci tengo moltissimo”! L’amministratore di sostegno è un mestiere nobilissimo, che però è pagato pochissimo, esige sforzi indicibili, tant’è che proprio nessuno vuole farlo. Forse nel 2004 il Legislatore non immaginava che i “fragili” fossero così numerosi e che quindi altrettanto numerosi avrebbero dovuto essere gli amministratori di sostegno. Ma, ripeto, nessuno vuole fare l’amministratore di sostegno, in molti casi nemmeno in famiglia, figuriamoci fuori della famiglia. Per ottenere quattro soldi, con fatica, spesso insultati, sbeffeggiati dal proprio beneficiario, magari incompresi anche dal giudice tutelare… chi vorrebbe fare un lavoro del genere? Quindi il vero problema del giudice tutelare oggi, forse il più grosso, è trovare gli amministratori di sostegno, figuriamoci se uno può permettersi il lusso di più di due o tre beneficiari, magari fosse così…
Bisogna organizzarsi con il volontariato, bisognerebbe cominciare a fare un lavoro robusto, ma vi è una disparità tendenziale, una forbice destinata a crescere tra i beneficiari, cioè coloro che hanno bisogno di aiuto, che oggi sono circa 400.000, ma che con il tempo fatalmente cresceranno, perché questa è l’Italia. Non so quale sia il tetto possibile, almeno il triplo, il quadruplo, forse dieci volte tanto, forse sono 4 milioni in potenza le persone con difficoltà. E 4 milioni di amministratori di sostegno dove li cerchiamo? Ci vorrebbe un ministro, un’organizzazione che cercasse delle strade per incentivare queste soluzioni, vie economiche, vie organizzative, vie di vario tipo, valorizzando soprattutto il volontariato, che mi sembra il grande bacino cui attingere. Certo, è un grosso problema, non lo nego, ma figuriamoci se si può ridurre addirittura per legge a due beneficiari, quando ci sono avvocati – e non va bene, sono il primo a non essere d’accordo – che arrivano ad avere venti, trenta, beneficiari perché il giudice non ha trovato altre persone. E si tenga anche conto che il Legislatore aveva stabilito che gli assistenti sociali non dovessero fare gli amministratori di sostegno, per evitare il conflitto di interessi. Il bacino, quindi, si restringe ulteriormente.
Il problema è enorme, ma non si può certo risolverlo pensando di vivere tra le nuvole!».

Per quanto poi riguarda il fatto che la nomina dell’amministratore di sostegno divenga competenza di un Tribunale in composizione collegiale e che l’obbligo di nomina veda il beneficiario in tutta la procedura sempre supportato da un avvocato di fiducia, qual è la sua opinione?
«Anche qui credo sia necessario fare i conti con la realtà. Già oggi, infatti, i giudici di ruolo che si occupano di amministrazione di sostegno sono pochi, pochissimi, solo in parte aiutati dai giudici di supporto. Questo è un grave problema che non so se in prospettiva sarà risolvibile. Immaginare dunque di poter contare addirittura su un collegio di giudici, mi sembra francamente una pura e semplice utopia».

E rispetto alla previsione della suddetta Proposta di Legge che in nessun caso il provvedimento di amministrazione di sostegno possa incidere sulla continuità dei rapporti familiari, cosa ne pensa?
«Come ho già detto in precedenza, i rapporti tra beneficiario e famiglia si possono dividere in tre gruppi, un 30% in cui le cose vanno benissimo, un altro 30% in cui la situazione è abbastanza traballante e un ulteriore 30% in cui invece le cose vanno veramente male, e addirittura può essere il familiare stesso all’origine di dissesti psichici, fisici ed esistenziali in cui si trova il beneficiario. In questi ultimi casi la prima azione del giudice, quando se ne rende conto, è di staccare subito, con ogni mezzo, il beneficiario dal suo contesto familiare, che è appunto all’origine di situazioni disastrose. Quindi la continuità dei rapporti familiari, quando c’è ed è buona, è provvidenziale, e bene ha fatto il Legislatore a mettere in primo piano i familiari come bacino nel quale attingere agli amministratori di sostegno. Ma purtroppo molto spesso le cose non vanno così, come accade almeno per il 30% dei casi, talora anche arrivati alle cronache, perché riguardanti personaggi noti del mondo dello spettacolo o della cultura. Situazioni assolutamente gravi, rispetto alle quali il primo compito dei giudici dev’essere non di favorire la continuità familiare, ma di spezzarla, staccando subito il beneficiario dalla sua famiglia».

In conclusione, dunque, come valuta nel complesso la Proposta di Legge di cui si tratta?
«Illusoria, perché per molti aspetti prescinde dalla realtà. Rispetto ad alcuni casi può essere una proposta corretta, che sarebbe bellissima se il mondo fosse come vorremmo, ma per ogni tre, quattro casi di quel tipo, ce ne sono purtroppo almeno dieci volte tanti che con quella proposta vanno in disaccordo. E quindi, da questo punto di vista, ritengo che essa sia a dir poco utopistica».

*Paolo Cendon è professore ordinario dell’Università di Trieste, nonché coordinatore scientifico del Tavolo nazionale sui diritti delle persone fragili riattivato presso il Ministero della Giustizia nel novembre 2023. Salvatore Nocera, avvocato, è impegnato da sempre sul fronte dei diritti delle persone con disabilità ed è esperto, in particolare, di questioni legate all’inclusione scolastica. Simona Lancioni è sociologa, responsabile di Informare un’h-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa).

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Il “Premio Muñoz” e il “Premio Brugnani” del Movimento Apostolico Ciechi

Superando - 23 Aprile 2025 - 1:53pm

Dopo la conclusione per il 2024 del “Premio Antonio Muñoz”, rivolto a studenti e studentesse con disabilità visiva e del “Premio Don Giovanni Brugnani – Parrocchie inclusive”, rivolto alle comunità parrocchiali che si attivano per coinvolgere nella loro vita e nelle loro attività persone con disabilità di ogni età, il MAC (Movimento Apostolico Ciechi) ha aperto fino al 31 maggio prossimo le iscrizioni alla nuova edizione del “Premio Brugnani” stesso Don Giovanni Brugnani, cui è intitolato il premio promosso dal MAC

Tradizionale iniziativa promossa dal MAC (Movimento Apostolico Ciechi) e dedicata a un professore cieco di Latina, Il Premio Antonio Muñoz, rivolto a studenti e studentesse con disabilità visiva, è stato attribuito, per il 2024, a due alunni di San Giovanni in Persiceto (Bologna) e di Lerici (la Spezia), per la scuola primaria; a un’alunna di Carbonia (Sud Sardegna) e a un alunno di Vicoforte (Cuneo) per la scuola secondaria di primo grado; a due allievi rispettivamente di Abbiategrasso (Milano) e di Roma, per la scuola secondaria di secondo grado.

Altra iniziativa del MAC è il Premio Don Giovanni Brugnani – Parrocchie inclusive, rivolto alle comunità parrocchiali che si attivano per coinvolgere nella loro vita e nelle loro attività persone con disabilità di ogni età. La dedica è a un sacerdote della Diocesi di Lodi – don Giovanni Brugnani, appunto, prematuramente scomparso nel 1968, che diede un impulso decisivo per far sì che il MAC stesso divenisse un’Associazione a carattere nazionale.
Per il 2024 ad aggiudicarsi il riconoscimento sono state la Parrocchia Santo Stefano di Segrate (Milano) e la Parrocchia del Sacro Cuore di Gesù di Ceccano (Frosinone).

Ora è già tempo della nuova edizione del Premio Brugnani, per la quale le iscrizioni sono aperte fino al prossimo 31 maggio. A questo link è disponibile il regolamento del premio, a questo e a quest’altro i relativi moduli per partecipare. (S.B.)

Per ulteriori informazioni: mac@movimentoapostolicociechi.it.

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Distrofia muscolare di Duchenne: Confronto e Condivisione per la Crescita della Comunità

Superando - 23 Aprile 2025 - 1:06pm

Quattro “C” (Confronto e Condivisione per la Crescita della Comunità), per sintetizzare gli esiti del prezioso momento di aggiornamento promosso a Roma dall’Associazione Parent Project, in collaborazione con l’organizzazione statunitense PPMD, cui hanno partecipato circa 50 clinici provenienti da Stati Uniti, Italia e Francia, impegnati nella gestione cardiaca e respiratoria delle persone con la distrofia muscolare di Duchenne Persone dell’organizzazione statunitense PPMD (Parent Project Muscular Dystrophy)

Evento aperto ai soli clinici, promosso dall’Associazione Parent Project, in collaborazione con l’organizzazione statunitense PPMD (Parent Project Muscular Dystrophy), si è tenuto nei giorni scorsi a Roma il meeting Cardiopulmonary Consensus in Duchenne (letteralmente “Consenso cardiopolmonare nella distrofia muscolare di Duchenne”), prezioso momento di aggiornamento per la comunità scientifica legata a questa patologia, cui hanno partecipato circa 50 clinici provenienti da Stati Uniti, Italia e Francia, impegnati appunto nella gestione cardiaca e respiratoria delle persone con la distrofia di Duchenne.

«L’incontro – dicono da Parent Project – ha offerto un’opportunità unica per confrontarsi sulle pratiche in uso nei vari Paesi, evidenziando punti di forza e approcci diversi sulla gestione clinica dei pazienti, con l’obiettivo di rafforzare la collaborazione internazionale e contribuire a definire linee guida più chiare e condivise».
«Grazie agli sforzi congiunti di cardiologi e pneumologi internazionali – sottolinea in tal senso Ezio Magnano, presidente dell’Associazione – il meeting ha raggiunto il proprio obiettivo di aggiornare gli standard clinici, con lo scopo di migliorare la gestione clinica dei nostri figli, generando un impatto concreto positivo sulla loro qualità di vita».
«L’incontro di Roma – commenta dal canto suo Fabrizio Racca, direttore della Struttura di Anestesia e Rianimazione Generale dell’Azienda Ospedaliera Ordine Mauriziano di Torino – ha rappresentato un’importante occasione di confronto tra gli specialisti, che ha permesso di discutere gli argomenti più controversi circa la gestione delle complicanze cardiache e respiratorie, gettando le basi per un aggiornamento delle linee guida attualmente in uso».

La prima giornata dei lavori si è aperta con una restituzione di alcuni workshop svoltisi lo scorso anno, uno dei quali a Roma, organizzato da Parent Project, sugli aspetti respiratori nella Duchenne e altri negli Stati Uniti, organizzati da PPMD, sugli aspetti cardiaci. A completare il quadro complessivo, che ha rappresentato il punto di partenza per l’avvio dei lavori stessi, anche un intervento sull’impatto delle nuove terapie per la Duchenne.
Nella seconda giornata, quindi, gli specialisti sono stati divisi in due gruppi, per affrontare separatamente le tematiche respiratorie e quelle cardiache. Il tutto seguito da una discussione aperta, gettando le basi per la stesura di una pubblicazione che sintetizzerà le migliori pratiche emerse.
Nella terza giornata, infine, i gruppi di lavoro hanno presentato gli aspetti salienti e le principali raccomandazioni emerse dalla giornata precedente.

«Nel corso del meeting – ricorda Rachele Adorisio, responsabile dell’Unità Operativa Semplice di Terapie Cardiovascolari avanzate all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma – è stata posta attenzione sui temi della prevenzione e del trattamento precoce delle cardiomiopatie. Per la prima volta si è anche discusso delle terapie cardiovascolari avanzate: VAD [“dispositivo di assistenza ventricolare”, N.d.R.], trapianto e defibrillatore, con un focus sull’obiettivo di razionalizzare le modalità di selezione del paziente che possa beneficiare di questi trattamenti».
«Possiamo definire il lavoro svolto in queste giornate – conclude Claudio Bruno, responsabile del Centro di Miologia dell’Istituto Gaslini di Genova – attraverso quattro “C”: Confronto e Condivisione per la Crescita della Comunità. Sono stati infatti giorni preziosi di incontro e scambio tra colleghi uniti dalla determinazione a migliorare sempre più la presa in carico dei pazienti e ad avere un impatto positivo sulla comunità Duchenne». (S.B.)

Per ulteriori informazioni e approfondimenti: Elena Poletti (e.poletti@parentproject.it).

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A livello internazionale i siti web più inaccessibili sono quelli delle compagnie di viaggio

Superando - 23 Aprile 2025 - 12:29pm

Due indagini a livello internazionale, in tema di accessibilità digitale, hanno indicato numerose compagnie di viaggio tra i peggiori trasgressori delle disposizioni per l’accessibilità dei siti web alle persone con disabilità, rendendo letteralmente impossibile, a queste ultime, accedere ai servizi online (©Mikhail Nilov via Pexels)

Due recenti indagini a livello internazionale, in tema di accessibilità digitale, hanno indicato numerose compagnie di viaggio tra i peggiori trasgressori delle disposizioni per l’accessibilità dei siti web alle persone con disabilità, rendendo impossibile, a queste ultime, accedere ai servizi online.
Ne dà notizia un articolo a firma di Joanna Bailey, pubblicato il 13 aprile dalla testata «Euronews Travel», riportando gli esiti di due distinte verifiche dell’accessibilità digitale effettuate da due operatori impegnati in questo settore: WebAim, Associazione senza scopo di lucro che si occupa di migliorare l’esperienza web per gli/le utenti con disabilità e AudioEye, società specializzata nell’accessibilità digitale.

Entrambi i rapporti di ricerca, dunque, segnalano i siti web delle compagnie di viaggio tra i peggiori in termini di accessibilità. In particolare il rapporto Million, prodotto da WebAim, ha valutato l’accessibilità di un milione di siti web e ha rilevato che, nel complesso, quasi il 60 % dei siti inerenti ai viaggi presentano errori nella loro homepage, con un aumento del 17 % rispetto all’anno precedente.
Anche l’Indice di Accessibilità Digitale 2025 di AudioEye ha individuato molteplici problemi e indicato lo scarso contrasto dei colori, i link vaghi e i moduli inaccessibili come quelli più comuni.
Una situazione preoccupante, questa, se si considera che, stando ai dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, una persona su sei della popolazione mondiale vive con una qualche forma di disabilità. Risulta poi che almeno 2 miliardi e 200 milioni di persone abbiano una disabilità visiva, e si stima che quasi 400 milioni di persone abbiano una grave difficoltà visiva. Si valuta ancora che 43 milioni di persone siano registrate come “non vedenti”. In sostanza, le persone con disabilità visiva sono tra le più penalizzate dall’inaccessibilità del web.

«Con circa il 20 % della popolazione che dichiara di avere una disabilità, ignorare le barriere di accessibilità può avere un impatto negativo su una vasta popolazione di potenziali clienti e visitatori del sito», ha dichiarato a «Euronews Travel» Jared Smith, direttore esecutivo di WebAim. In tal senso, molte ricerche sul valore della ristorazione per i viaggiatori e le viaggiatrici con disabilità sono state condotte, stimando ad esempio che nel Regno Unito il potere di spesa delle persone con disabilità, noto come Purple Pound” (“sterlina viola”), supererà in questo 2025 i 50 miliardi di sterline (circa 58 miliardi euro).
«L’accessibilità del web non è solo la cosa giusta da fare, ma è anche richiesta dalla legge – ha osservato ancora Smith –. Poiché la maggior parte dei siti web di viaggio presenta notevoli barriere di accessibilità, gli utenti con disabilità dedicheranno segnatamente tempo e denaro ai siti che hanno affrontato i problemi di accessibilità». (Simona Lancioni)

Il presente contributo è già apparso nel sito di Informare un’h-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa) e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti dovuti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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Nessuno si salva da solo

Superando - 23 Aprile 2025 - 12:10pm

«“Nessuno si salva da solo”, ovvero una delle sue frasi più amate e fatte proprie dalla nostra Associazione, continua a risuonare come monito e guida, ricordandoci che è nella comunità e nella solidarietà che si trova la vera forza, soprattutto in un tempo attraversato da fratture profonde e disuguaglianze»: lo scrivono dall’ANFFAS Nazionale, ricordando Papa Francesco «con profondo dolore e un senso di gratitudine» Papa Francesco insieme a un giovane dell’ANFFAS

Con profondo dolore e un senso di gratitudine, ricordiamo Papa Francesco, il cui spirito innovativo e la costante dedizione alla giustizia sociale hanno lasciato un’impronta indelebile, contribuendo in modo determinante alla costruzione di un mondo più giusto, inclusivo e attento agli ultimi.
Nello scegliere di indossare il nome del Santo di Assisi, simbolo per eccellenza di povertà e umiltà, Papa Francesco ha voluto indicare con chiarezza la direzione del suo pontificato, fondato su valori profondamente evangelici e incarnati in azioni concrete a favore dei più vulnerati – spesso dimenticati – ai quali ha saputo restituire voce e dignità.
Particolarmente significativa è stata la sua attenzione verso le persone con disabilità, una sensibilità che si è ulteriormente intensificata nell’ultima fase della sua vita, quando ha vissuto in prima persona la condizione della disabilità con grande forza e dignità.
La sua testimonianza resta per la nostra Associazione un esempio limpido di coerenza, umanità e vicinanza, capace di ispirare profondamente l’impegno quotidiano di tutta la nostra rete.
Con un linguaggio universale fatto di ascolto, compassione e dialogo, Papa Francesco è riuscito a toccare il cuore di milioni di persone, incoraggiando l’umanità intera a superare barriere e divisioni, a costruire ponti e a riconoscere nella fraternità il fondamento per affrontare con coraggio le sfide del nostro tempo. «Nessuno si salva da solo», una delle sue frasi più amate e fatte proprie dalla nostra Associazione, continua a risuonare come monito e guida, ricordandoci che è nella comunità e nella solidarietà che si trova la vera forza, soprattutto in un tempo attraversato da fratture profonde e disuguaglianze.
Facendoci custodi della sua eredità morale e spirituale, rinnoviamo il nostro impegno a proseguirne con determinazione il cammino, nella costruzione di una società davvero più giusta, inclusiva e umana.
Riposa in pace, Papa Francesco. La tua luce continuerà a brillare tra di noi!

*L’ANFFAS è l’Associazione Nazionale Famiglie e Persone con Disabilità Intellettive e Disturbi del Neurosviluppo.

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La Dichiarazione di Berlino sull’inclusione globale della disabilità

Superando - 22 Aprile 2025 - 6:15pm

Che almeno il 15% dei programmi di sviluppo internazionale abbia come obiettivo l’inclusione delle persone con disabilità, le quali rappresentano appunto il 15% circa della popolazione mondiale: è una delle novità più importanti contenute nel documento conclusivo “Dichiarazione sull’inclusione globale della disabilità”, prodotto a Berlino, in occasione del recente Global Disability Summit Uno dei tanti incontri svoltisi durante il recente Global Disability Summmit di Berlino

Durante il recente terzo Global Disability Summit di Berlino, di cui il nostro “inviato speciale” Giampiero Griffo ha raccontato giorno dopo giorno le varie fasi (si vedano in calce i link ai vari contributi), è stato adottato il documento conclusivo Dichiarazione sull’inclusione globale della disabilità (disponibile in italiano a questo link), che secondo l’Associazione sammarinese Attiva-Mente, sempre molto attenta a questi appuntamenti internazionali sulla disabilità e consapevole della grande importanza di essi, «segna un vero cambio di passo, poiché non contiene solo princìpi ideali, ma obiettivi misurabili e condivisi per garantire che nessuno venga lasciato indietro nei processi di sviluppo e nelle emergenze umanitarie».

Tra le novità più importanti del documento, dunque, spicca l’obiettivo 15 percent for the 15 percent, ovvero che almeno il 15% dei programmi di sviluppo internazionale debba avere come obiettivo l’inclusione delle persone con disabilità, che rappresentano appunto il 15% circa della popolazione mondiale. «Si tratta – viene sottolineato da Attiva-Mente – del primo target numerico globale sull’inclusione della disabilità. Tutti i programmi, inoltre, dovranno essere accessibili e inclusivi, evitando di creare o mantenere barriere: è questo il senso del principio del Do no Harm, che significa non limitarsi a non escludere, ma agire per non arrecare danni né perpetuare disuguaglianze».

L’iniziativa ha già raccolto oltre 90 adesioni tra governi e organizzazioni multilaterali, e il processo resta aperto. L’evento stesso svoltosi in Germania ha registrato di per sé una partecipazione realmente eccezionale, con oltre 4.500 persone provenienti da quasi 100 Paesi, tra cui persone con disabilità, rappresentanti istituzionali, esponenti di organizzazioni non governative, agenzie internazionali e attori dello sviluppo. E dal canto loro, le organizzazioni di persone con disabilità hanno avuto un ruolo centrale anche nella redazione del documento finale.

Il prossimo appuntamento con il Global Disability Summmit sarà fra tre anni, vale a dire nel 2028 in Qatar. «Si riuscirà – si chiedono da Attiva-Mente e noi insieme all’Associazione sammarinese – a raggiungere per allora l’obiettivo del “15 percent for the 15 percent”? La direzione è tracciata. Sta a noi percorrerla!». (S.B.)

Sulle nostre pagine abbiamo pubblicato i seguenti contributi di Giampiero Griffo da Berlino: Oltre 2.000 persone con disabilità al Forum della Società Civile di Berlino (a questo link), L’inclusione è un investimento per tutti e i diritti delle persone con disabilità non sono negoziabili! (a questo link) e Un primo bilancio del Summit Globale sulla Disabilità di Berlino (a questo link).

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La preziosa eredità di Max Negretti nel baskin, tutta all’insegna dell’inclusione

Superando - 22 Aprile 2025 - 5:31pm

Giovane promessa del basket, Max Negretti ha visto la sua carriera agonistica interrotta dalla sclerosi multipla, ma con l’avanzare della malattia, la sua grande passione per questo sport non è venuta meno: ha fondato infatti il “Baskin Ciuff” di Borgomanero (Novara), una delle prime squadre del Nord Italia di baskin, il basket inclusivo giocato insieme da persone con e senza disabilità. Scomparso lo scorso anno, la sua preziosa eredità è stata pienamente raccolta da chi gli è succeduto Max Negretti, scomparso nell’agosto 2024 a 65 anni

Chi è Max Negretti, e soprattutto perché desidero condividere con Lettori e Lettrici il bellissimo ricordo che ho di lui, comune a tutti coloro che l’hanno incontrato nella loro vita?
Negretti, di origine novarese, è stato una giovane promessa del basket, ma la sua carriera agonistica, purtroppo è stata interrotta a trent’anni dalla sclerosi multipla. Con l’avanzare della malattia, la sua grande passione per questa disciplina sportiva non è venuta meno: costretto a lasciare le competizioni, ha fondato il Baskin Ciuff, a Borgomanero (Novara), una delle prime squadre di baskin – il basket inclusivo giocato insieme da persone con e senza disabilità – nata nel Nord Italia. Ma, prima di tutto, Max è stato un padre straordinario per il suo Nicolò, ragazzo con la sindrome di Down.

Non mi ricordo esattamente in quale occasione lo conobbi, ma negli ultimi quindici anni l’ho incontrato diverse volte, instaurando un rapporto di stima e di confronti interessanti, accomunati dal forte desiderio di “andare sempre oltre”. In particolare, non potrò mai scordare l’ultima volta che lo vidi, era l’autunno 2023, periodo in cui con un’équipe multidisciplinare stavo ultimando il cortometraggio Oltre il buio, e con l’amico e collaboratore Pietro Fortis, andammo a casa sua per parlargli del progetto e di una possibile collaborazione nella promozione della pellicola stessa.
Alla chiacchierata partecipò anche Magda, la sua seconda moglie, donna straordinaria, del resto, come dico sempre io, “accanto a un grande uomo, c’è sempre una grande donna”.
Entrambi mostrarono subito grande interesse, Magda, come una “scolara diligente” prese appunti tutto il tempo; Max, sempre sul pezzo, escogitò immediatamente una serie di iniziative per promuovere il cortometraggio, senza neanche averlo visto, perché non era ancora pronto. L’amico non ha fatto in tempo a vederlo e a darci la sua “preziosa mano”, né ad essere presente alla prima del corto stesso, tenutasi a Borgomanero, proprio dove lui viveva, poiché poche settimane prima le sue condizioni di salute avevano iniziato a peggiorare sempre più, fino alla fine di agosto dello scorso anno, quando ci ha lasciati.

Un vuoto molto difficile da colmare per l’uomo che è stato e per tutto quello che ha fatto. Per ricordarlo, qualche settimana fa abbiamo organizzato una serata in sua memoria, presentando Oltre il buio. Un evento alquanto emozionante, forse al pari della prima presentazione; Max era certamente lì con noi, lo si percepiva.
La serata ha avuto luogo a Briga Novarese, piccolo centro alle porte di Borgomanero, presso la biblioteca del centro polifunzionale, gestito dal Baskin Ciuff. Un complesso moderno, completamente accessibile, che oltre alla biblioteca, è costituito dal bar e dalla palestra dove la stessa squadra si allena.
Durante la presentazione è intervenuto Pietro Pironi, attuale presidente dell’Associazione Sportiva Dilettantistica, a cui Max aveva già passato il timone qualche anno fa, quando la sua condizione di salute non gli aveva più permesso di impegnarsi come avrebbe voluto.
Sono rimasta veramente colpita da come la dedizione e l’amore di Pietro Pironi per il Baskin Ciuff siano emersi da ogni parola del suo racconto e dal modo con cui si è approcciato ai ragazzi della società sportiva che erano presenti. Non è così scontato, infatti, che una persona che ha “costruito così tanto”, come Max, trovi qualcuno, all’altezza della situazione, a cui lasciare le redini. Credo dunque che l’amico Max, da una parte sia stato lungimirante e bravo, dall’altra anche fortunato, a individuare Pietro Pironi come “successore”.
L’impressione che ho avuto quella sera – non avevo mai conosciuto prima Pironi – è che abbia saputo, e continui a farlo giorno dopo giorno, l’approccio adottato da Max: quello cioè dell’inclusione.

In questi anni, il Baskin Ciuff, così come nei precedenti, ha sempre aumentato sia il numero degli iscritti, sia dei giocatori; attualmente la società è composta da cinque squadre, ma si ipotizza già che nei prossimi anni ne venga formata una nuova. Nello stesso tempo, oltre a ottenere buoni risultati sportivi, la squadra ha attivato parallelamente una serie di attività extra sportive, proprio in nome dell’inclusione. In questa direzione, ad esempio, sta progressivamente facendo aumentare un movimento di baskin a livello scolastico, coinvolgendo sempre più istituti, con la finalità, in un prossimo futuro, di creare un vero e proprio campionato.
Ma il vero fiore all’occhiello dell’intera progettualità è il Bar-In, considerato il progetto più ambizioso della società. Il Baskin Ciuff, infatti, ha preso in gestione il bar del centro polifunzionale, con l’intento di far lavorare e collaborare i propri ragazzi, allo scopo, quindi, di un’inclusione anche lavorativa.
Max, da lassù, penso sia stato contento non solo della serata di Briga Novarese, ma soprattutto che i “suoi ragazzi”, e in particolare il figlio Nicolò, continuino ad andare “oltre il buio”.

*Il presente contributo è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “Max Negretti e la sua preziosa eredità che brilla nel baskin”, e viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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I biscotti etici e solidali di “Scur di Luna”

Superando - 22 Aprile 2025 - 4:57pm

“Scur di Luna” è un progetto di pasticceria etica e sociale promosso in Friuli Venezia Giulia dall’Impresa Sociale LaLuna di Casarsa della Delizia (Pordenone), che dal 24 aprile al 5 maggio consentirà di coniugare inclusione, dolcezza e solidarietà alla “Sagra del Vino” di Casarsa, ove appunto saranno presenti i biscotti prodotti nell’àmbito di tale iniziativa Produzione di biscotti nell’àmbito del progetto “Scur di Luna”

Si chiama Scur di Luna il progetto di pasticceria etica e sociale, con una forte attenzione alla sostenibilità, promosso dall’Impresa Sociale LaLuna di Casarsa della Delizia (Pordenone), che dal 24 aprile al 5 maggio consentirà di coniugare inclusione, dolcezza e solidarietà alla Sagra del Vino di Casarsa, ove appunto saranno presenti i biscotti prodotti nell’àmbito di tale iniziativa.

Scur di Luna, che ha inaugurato i suoi nuovi spazi nel mese di maggio dello scorso anno, grazie al sostegno della Fondazione Friuli e di donazioni di privati cittadini, promuove attivamente l’inclusione sociale, offrendo opportunità di inserimento lavorativo a persone con disabilità provenienti dall’Unità Educativa Territoriale della Cooperativa Sociale Itaca e dai progetti abitativi di LaLuna, con la partecipazione anche di una persona in borsa lavoro. Si tratta di una filosofia “a misura di persona” che si riflette in ogni fase della produzione, dalla selezione delle materie prime al confezionamento. (S.B.)

A questo link è disponibile un testo di ulteriore approfondimento. Per altre informazioni: michela.sovrano@gmail.com.

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Il Pontefice che ha fatto dell’inclusione un Vangelo vivo

Superando - 22 Aprile 2025 - 4:32pm

«Alle persone con disabilità – scrive tra l’altro Maria Rosaria Ricci – Papa Francesco ha offerto molto più di parole: ha offerto rispetto, visibilità, ascolto. Ha più volte affermato che non esiste “vita di scarto”, e ha chiesto alla Chiesa e alla società di rimuovere non solo le barriere architettoniche, ma anche – e soprattutto – quelle culturali, mentali, spirituali. Barriere che isolano, che riducono la persona alla sua condizione, e non alla sua ricchezza umana»

Nel silenzio che oggi attraversa il mondo, si spegne la voce di un uomo che ha saputo accendere luce nei luoghi più bui dell’umanità. Papa Francesco non è stato solo il leader della Chiesa cattolica: è stato un alleato, un padre, un fratello per chi viveva ai margini. Un testimone autentico del Vangelo dell’inclusione.
Durante tutto il suo pontificato, ha messo al centro coloro che il mondo spesso dimentica: i poveri, gli emarginati, i migranti, gli ammalati, le persone con disabilità. Ha mostrato al mondo intero che la dignità non si misura dalla produttività, ma dall’amore che ognuno merita e sa donare.
Alle persone con disabilità Papa Francesco ha offerto molto più di parole: ha offerto rispetto, visibilità, ascolto. Ha più volte affermato che non esiste “vita di scarto”, e ha chiesto alla Chiesa e alla società di rimuovere non solo le barriere architettoniche, ma anche – e soprattutto – quelle culturali, mentali, spirituali. Barriere che isolano, che riducono la persona alla sua condizione, e non alla sua ricchezza umana.
Ha incontrato bambini con disabilità, ha baciato volti segnati dalla sofferenza, ha accolto nel cuore e nell’abbraccio anche chi veniva tenuto lontano. Ha sottolineato quanto gli ammalati siano “la carne sofferente di Cristo”, non oggetti di compassione, ma soggetti attivi di fede e speranza.
Per Papa Francesco, le persone con disabilità non sono state un capitolo a parte, ma cuore pulsante di un mondo che vuole dirsi giusto e umano. Ha ricordato che ogni bambino con una fragilità è un maestro di tenerezza, che ogni anziano non autosufficiente è portatore di una saggezza silenziosa, che ogni giovane con disabilità ha diritto a un presente dignitoso e a un futuro libero.
Ha più volte condannato la cultura dello scarto, denunciando le logiche economiche e sociali che escludono chi non risponde a certi standard. E ha chiamato tutti – istituzioni, cittadini, comunità – a diventare costruttori di una società dove la diversità non sia tollerata, ma valorizzata.
Ha parlato ai cuori, ma ha anche toccato le coscienze. E lo ha fatto con gesti semplici: un sorriso, un abbraccio, uno sguardo, un silenzio carico di presenza. Gesti che, per chi vive ogni giorno una condizione di disabilità, valgono più di mille discorsi.
In un tempo segnato dall’indifferenza e dalla fretta, la sua voce ha saputo rallentare e indicare l’essenziale. Ci ha ricordato che la vera civiltà si misura da come trattiamo i più fragili.
Il mondo oggi piange la sua scomparsa, ma raccoglie il seme che ha lasciato: un invito a guardare ogni persona con gli occhi dell’amore, della giustizia, dell’accoglienza. A costruire una società accessibile non solo negli spazi, ma nei cuori.
Papa Francesco resterà il Papa degli ultimi, il Papa dei nonni dimenticati, il Papa dei bambini senza voce, il Papa delle persone con disabilità, delle loro famiglie, delle loro battaglie. Un Pontefice che ha saputo fare del Vangelo un gesto concreto, una carezza quotidiana.
«Solo quando si guarda con gli occhi degli ultimi, si vede veramente» (Papa Francesco).

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Livelli Essenziali di Assistenza e Nomenclatore: presentata la bozza di aggiornamento

Superando - 22 Aprile 2025 - 4:09pm

Il Ministero della Salute ha presentato nei giorni scorsi la bozza del Decreto del Presidente del Consiglio contenente il primo aggiornamento del cosiddetto “Decreto Tariffe” sui LEA (Livelli Essenziali di Assistenza). Tante le modifiche introdotte, tra cui nuove prestazioni, l’ampliamento di una serie di esenzioni e l’aumento dell’offerta della Sanità Pubblica. Il nuovo Decreto prevede un incremento di spesa pari a 149,5 milioni di euro all’anno, cui vanno a sommarsi altre migliorie a “costo zero”

Dopo un’“odissea” trascinatasi sin dal 2017, finalmente, verso la fine dello scorso anno, era stato definitivamente approvato il cosiddetto “Decreto Tariffe”, contenente l’atteso aggiornamento dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), ovvero del Nomenclatore delle Protesi e degli Ausili e delle prestazioni specialistiche ambulatoriali, nonché dei rispettivi tariffari fermi al 1999 (quello per la protesica), e al 1996 (quello per la specialistica). Nato “vecchio”, ora il Nomenclatore ha già bisogno di essere modificato e nei giorni scorsi il Ministero della Salute ha presentato la bozza del Decreto del Presidente del Consiglio contenente il primo aggiornamento di esso.
Il nuovo documento, disponibile a questo link, è stato elaborato al fine appunto di correggere gli errori riscontrati (sono stati eliminati doppioni, sovrapposizioni e prescrizioni inappropriate), introdurre nuove prestazioni, ampliare le esenzioni e aumentare l’offerta della Sanità Pubblica. Esso prevede un incremento di spesa pari a 149,5 milioni di euro l’anno, e ulteriori migliorie a “costo zero”.

Tante le novità introdotte, tra le quali: in materia di prevenzione oncologica e genetica, l’introduzione di un programma di sorveglianza attiva delle donne a rischio genetico ereditario di tumori alla mammella e all’ovaio; l’estensione dello screening neonatale esteso a otto nuove patologie metaboliche e rare, tra cui anche la SMA (atrofia muscolare spinale); l’estensione delle esenzioni a nuove patologie croniche e invalidanti, come le forme gravi della sindrome fibromialgica, la idrosadenite suppurativa (al III stadio di Hurley), la malattia polmonare da micobatteri non tubercolari; nuove e più appropriate prestazioni diagnostiche e terapiche, tra cui l’elastografia epatica (Fibroscan), per evitare biopsie invasive in caso di epatopatie croniche, il dosaggio della luteotropina, reintrodotto dopo un’omissione nel DPCM del 2017, il test genetico CYP2C9 per la farmacogenomica nella sclerosi multipla, alcuni dispositivi protesici per non vedenti e un dispositivo intraorale per la sindrome di Lesch-Nyhan.

Diverse testate hanno già prodotto alcuni approfondimenti su questo aggiornamento. Ne segnaliamo alcuni: Pronto l’aggiornamento dei Lea. Arrivano nuovi screening per la mammella e per la Sma, test di ultima generazione e si ampliano le esenzioni. Ecco la proposta del Ministero Salute (da «QuotidianoSanità.it», 18 aprile); i seguenti testi pubblicati sul sito dell’OMaR (Osservatorio Malattie Rare): In arrivo l’aggiornamento dei LEA: screening neonatale esteso, NIPT e nuove malattie rare e croniche esenti (19 aprile); Screening neonatale: entrano nel panel SMA e 8 altre patologie (20 aprile); Specialistica ambulatoriale: più prestazioni e maggiore appropriatezza nei nuovi LEA (21 aprile); Ausili su misura e di serie: nei nuovi LEA la protesica si aggiorna secondo i nuovi bisogni (22 aprile). (Simona Lancioni)

Il presente contributo è già apparso nel sito di Informare un’h-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa) e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti dovuti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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Una rete per i non diagnosticati e ultrarari

Superando - 22 Aprile 2025 - 1:57pm

Il 28 aprile, alla vigilia della Giornata Mondiale delle Malattie senza Diagnosi, l’OMaR (Osservatorio Malattie Rare), in collaborazione con l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, il Comitato IMI (I Malati Invisibili) e la Fondazione Hopen, promuoverà la diretta social denominata “Una rete per i non diagnosticati e ultrarari”

Alla vigilia della Giornata Mondiale delle Malattie senza Diagnosi del 29 aprile (Undiagnosed Rare Disease Day), l’OMaR (Osservatorio Malattie Rare), in collaborazione con l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, il Comitato IMI (I Malati Invisibili) e la Fondazione Hopen, promuoverà per il pomeriggio del 28 aprile (ore 16) la diretta social denominata Una rete per i non diagnosticati e ultrarari, con l’obiettivo di aumentare la consapevolezza dell’importanza di una rete nazionale di ambulatori di ascolto e presa in carico dei pazienti pediatrici e adulti senza diagnosi, una rete che sia in grado di offrire supporto emotivo e di farsi carico del percorso diagnostico, clinico e assistenziale.
Moderata da Ilaria Ciancaleoni Bartoli, che dirige l’OMaR, la diretta potrà contare sugli interventi di Federico Maspes, presidente della Fondazione Hopen, Deborah Capanna, presidente del Comitato IMI e Andrea Bartuli, direttore dell’Unità Operativa Complessa Malattie Rare e Genetica Medica all’IRCCS Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. (S.B.)

Per ulteriori informazioni: melchionna@rarelab.eu (Rossella Melchionna).

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La Chiesa non si governa coi piedi, ma con la testa!

Superando - 22 Aprile 2025 - 1:22pm

«A coloro i quali volevano che si dimettesse per il fatto di muoversi in carrozzina, il Pontefice fece sapere indirettamente che “la Chiesa non si governa coi piedi, ma con la testa!”»: lo scrive Salvatore Nocera, ricordando così Papa Francesco, in questa sua riflessione che prende spunto da un precedente intervento di Donata Scannavini, «sulla difficoltà che abbiamo noi persone con disabilità ad essere considerate nelle nostre comunità di fede come “soggetti attivi”» Papa Francesco in carrozzina insieme a numerose persone con disabilità e ai loro familiari, in occasione di una Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità

Ho letto con piacere in Superando il testo Le riflessioni di una parrocchiana (con disabilità) di Donata Scannavini sulla difficoltà che abbiamo noi persone con disabilità ad essere considerate nelle nostre comunità di fede come “soggetti attivi”, mentre siamo troppo spesso considerati come “oggetto” solo di attenzione e di aiuto, o addirittura di “pietismo compassionevole”. Condivido questo suo giudizio per la maggiore esperienza di vita fatta da me cieco, che ho 87 anni.
Mi chiedo dunque a cosa sia dovuto questo atteggiamento “paternalistico”. Già la signora Donata lo ha in parte evidenziato, parlando cioè di una visione distorta dell’interpretazione teologica della nostra sofferenza che contribuirebbe alla salvezza del mondo in quanto unita a quelle di Gesù sulla croce.

Penso però che ci sia anche di più, sia a livello di influenza di mentalità laica che religiosa. Secondo una diffusa mentalità laica, infatti, noi persone “con disabilità” non siamo in grado di fare quello che fanno le persone “abili”. È quindi frutto dell’abilismo che non possiamo essere solitamente considerati “abili” alla pari degli altri e che veniamo quindi conseguentemente visti come oggetto di attenzione e non come soggetti nella società civile, oltre che nelle comunità religiose.
A livello religioso la tesi pseudo-teologica, riportata dalla signora Donata, cioè la nostra partecipazione alla salvezza del mondo con le nostre sofferenze, sa un po’ molto di “premio consolatorio”. Si badi bene, questa era una tesi teologica dell’Ottocento, molto accreditata in ambienti ecclesiastici; però oggi, dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II, non credo si possa più sostenere.
A parte l’affermazione critica rivoltami da amici non credenti, secondo i quali noi credenti vorremmo le persone con disabilità “sempre sofferenti”, il discorso si fa più serio, guardando anche all’impostazione del ragionamento del professor Justin Glyn nella traduzione italiana del suo bel libro “Us” not “Them”. Disability and Catholic Theology and Social Teaching, intitolata A Sua immagine? Figli di Dio con disabilità, che giustamente Giovanni Merlo con la Federazione LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità) sta da tempo divulgando ovunque, anche in prestigiosi convegni.
Il professor Glyn, che è docente universitario di Diritto Canonico, persona cieca, di fronte all’affermazione della Bibbia ebraica in cui si narra che Dio disse «creiamo l’uomo a nostra immagine», critica la tesi secondo la quale, se Dio è perfettissimo, come avrebbe fatto a creare anche persone con disabilità, che non sono perfette? Egli fa dunque presente che Gesù – il quale secondo la fede cristiana è Dio – fu crocifisso e quindi l’affermazione della creazione non è contraddittoria, poiché c’è un uomo ad immagine di Dio creatore, senza disabilità e ci sono persone con disabilità che sono pur esse ad immagine di Dio sofferente in croce.

Invero suppongo che il professor Glyn si rifaccia all’affermazione di Dietrich Bonhoeffer nel campo di sterminio nazista dove era stato deportato dopo il fallito attentato a Hitler. Ad un suo compagno di prigionia, che di fronte a tutte quelle sofferenze, gli chiese «dov’è Dio!?», egli rispose infatti, indicandogli un giovane impiccato ad una forca, «eccolo là», indicandolo come Gesù crocifisso. Certo, questa immagine è perfetta in casi estremi come questi, ma non penso sia pastoralmente, da sola, proponibile per tutta la vita quotidiana delle persone con disabilità.
Durante il primo convegno organizzato dalla LEDHA sul libro del professor Glyn, mi ero rifatto ad un mio intervento svolto nel 1987 a nome del MAC (Movimento Apostolico Ciechi), in occasione del Sinodo dei Vescovi sui laici, in cui sostenevo che limitare la somiglianza di noi persone con disabilità solo a Dio sofferente è una visione teologica incompleta, poiché , secondo la fede cristiana, Gesù, morto in croce, è poi risuscitato; quindi occorrerebbe dare una visione più completa di Dio, secondo il Cristianesimo. E a questo proposito, c’è un testo biblico che mi sembra più aderente alla visione del Dio cristiano, morto e risorto, per parlare delle persone con disabilità, pur esse «ad immagine di Dio».
Mi riferisco al Vangelo secondo Matteo al capitolo 25 (versetti da 31 a 47), relativi al “giudizio finale”. In questo celebre brano , Gesù, come giudice finale, dopo avere enumerato atti di solidarietà a favore di persone  in gravissime difficoltà, dice «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». Qui è Gesù, risorto, glorioso, non sofferente, anche se è stato crocifisso ed è morto, che riferisce a sé i destinatari (sofferenti) di gesti di solidarietà. Quindi essi sono considerati “a sua immagine”.
Noi cattolici abbiamo definito questi gesti come “opere di misericordia” con un’accentuazione pietistica e caritatevole; questa è stata appunto la sensibilità cattolica sino al citato Concilio Ecumenico Vaticano II; ma ormai, dopo che il Concilio nella Costituzione Pastorale Sulla Chiesa nel Mondo Contemporaneo (Gaudium et Spes, n. 29, paragrafo 1) ha detto che «non si dia per carità ciò che spetta per giustizia», possiamo ben accettare questa nuova concezione di solidarietà di difesa dei diritti umani e questa più completa visione di immagine di Dio, crocifisso e risorto, rivolta alle persone con disabilità, come più aderente alla sensibilità moderna. Del resto, accanto agli esempi di solidarietà indicati nel Vangelo secondo Matteo (“dare da mangiare agli affamati”, “dare da bere agli assetati”, “visitare i carcerati”.), oggi potremmo aggiungere ad esempio le iniziative degli attivisti per i diritti umani di tutti e tutte, e in particolare delle persone con disabilità o di quanti sono perseguitati per cercare la pace tra i popoli; infatti Gesù, nel famoso Discorso della Montagna sulle beatitudini (Matteo, capitoli da 5 a 7) dice, tra l’altro, «beati quanti operano per la giustizia e gli operatori di pace».

Ora, questi impegni sono volti ad aiutare gli “emarginati” – come spesso sono le persone con disabilità – ad includersi in una vita normale nella società o ad evitare di piombare nell’emarginazione a causa delle guerre; e tra i volontari impegnati nelle attività di inclusione possono esservi pure persone con disabilità, operanti come soggetti attivi e non solo come destinatari di interventi. Si pensi ad esempio alla Comunità di Capodarco, fondata da don Franco Monterubbianesi che, non a caso, è intitolata proprio a “Gesù risorto”. E molte di queste organizzazioni di volontariato di persone con disabilità non si occupano solo di persone con disabilità, ma sempre più spesso si sono aperte anche alla difesa dei diritti umani di altre persone in difficoltà, quali i migranti, le persone senza fissa dimora, le persone povere e altre escluse dalla normale vita sociale.

Mi sono permesso da semplice fedele, come la signora Donata, questa digressione sugli aspetti della morte e resurrezione di Gesù, poiché siamo in tempi pasquali, ma scendendo dalle “vette teologiche” su cui mi sono avventurato, per arrivare alle esperienze di vita degli ultimi  anni, abbiamo due esempi di persone divenute con disabilità che, nella comunità ecclesiale, non sono state assolutamente oggetto passivo di pietismo compassionevole, ma sono stati i soggetti-guida della Chiesa; mi riferisco segnatamente a Papa Giovanni Paolo II, che è stato in situazione di disabilità negli ultimi anni della sua vita (ma che già portava le conseguenze dell’attentato subito a suo tempo in Piazza San Pietro) e naturalmente a Papa Francesco che a lungo si è mosso in carrozzina a causa di un grave problema al ginocchio e che ai suoi detrattori, i quali volevano che per questo si dimettesse, fece sapere indirettamente, che «la Chiesa non si governa coi piedi, ma con la testa!». Ed egli l’ha governata anche come pastore sino al giorno di Pasqua, ultimo giorno della sua vita attiva, con la formulazione della sua ultima omelia, del discorso e della benedizione pasquale Urbi et Orbi, oltreché dell’incontro conclusivo con la gente in Piazza San Pietro.

Sul rapporto tra Chiesa Cattolica e Disabilità, suggeriamo la lettura di una serie di contributi da noi recentemente pubblicati, ultimo dei quali Alla teologia manca ancora il capitolo della disabilità di Ilaria Morali (a questo link), in calce al quale sono indicati anche i link ad altri precedenti testi.

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Quella voce forte contro un modello di crescita inconciliabile con la giustizia sociale

Superando - 22 Aprile 2025 - 1:09pm

«La voce forte di Papa Francesco – dichiara Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum Nazionale del Terzo Settore – contro un modello di crescita inconciliabile con la giustizia sociale e il rispetto del pianeta ha lasciato un segno indelebile. Solo credendo fermamente e realizzando il suo messaggio potremo sentirci tutti meno soli» Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum Nazionale del Terzo Settore

«È un addio doloroso: Papa Francesco ci lascia in un mondo che sembra non credere più nella pace. Un mondo che già vive la guerra, che si riarma e pare abituarsi anche alla disumanità»: lo dichiara in una nota Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum Nazionale del Terzo Settore.
«La voce forte del Pontefice e il suo impegno per gli ultimi, i più fragili, gli emarginati della società – aggiunge Pallucchi – hanno lasciato un segno indelebile, così come la sua denuncia diretta di un modello di crescita inconciliabile con la giustizia sociale e il rispetto del pianeta. Al contrario, Papa Francesco ha esaltato il valore della solidarietà e dell’impegno nel volontariato per la promozione umana, contro le disuguaglianze e la “globalizzazione dell’indifferenza”. Solo credendo fermamente e realizzando il suo messaggio potremo sentirci tutti meno soli». (S.B.)

Per ulteriori informazioni: stampa@forumterzosettore.it.
A questo link vi è l’elenco completo di tutti i soci e degli aderenti al Forum Nazionale del Terzo Settore, tra cui anche la FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie).

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Venti edizioni per “Oltre la vista, oltre la SLA”

Superando - 22 Aprile 2025 - 12:13pm

Da una parte superare le barriere culturali, facendo correre e camminare insieme persone con e senza disabilità visiva, dall’altra sostenere la ricerca sulla SLA (sclerosi laterale amiotrofica): è il duplice obiettivo della manifestazione podistica non competitiva “Oltre la vista, oltre la SLA”, promossa dalla Polisportiva dell’UICI di Torino, che il 25 aprile festeggerà nel capoluogo piemontese la propria ventesima edizione Immagine di una precedente edizione di “Oltre la vista, oltre la SLA”

Nella mattinata del 25 aprile (Parco Michelotti di Torino, ore 9.30), Oltre la vista, oltre la SLA festeggerà la propria ventesima edizione e questa manifestazione podistica non competitiva che fa dell’inclusione e dell’impegno solidale i propri punti di forza, organizzata dalla Polisportiva dell’UICI di Torino (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti) a sostegno della ricerca medica, sarà ancora più coinvolgente, colorata e partecipata.
«Come il nome dell’iniziativa rivela – spiegano dalla Polisportiva dell’UICI di Torino -, la manifestazione Oltre la vista, oltre la SLA, organizzata in memoria dell’atleta Piero Mallen, nostro volontario e amico, nasce con il doppio obiettivo da una parte di superare le barriere culturali, facendo correre e camminare insieme persone con e senza disabilità visiva, dall’altra di sostenere la ricerca sulla SLA (sclerosi laterale amiotrofica), se è vero che l’intero ricavato, al netto delle spese, verrà come sempre donato al CRESLA (Centro Regionale Esperto per la ricerca sulla SLA) della Città della Salute di Torino, polo d’eccellenza a livello europeo. Infatti, tenendo fede a una promessa rinnovata negli anni, abbiamo finora donato all’équipe medica circa 88.000 euro».

Il 25 aprile a Torino, dunque, vi sarà posto per tutti e tutte, sia per chi correrà che per chi camminerà, come singoli o in gruppo con una società sportiva (la squadra più numerosa sarà premiata con il Trofeo Piero Mallen).
Due i percorsi previsti (10 e 5 chilometri), oltre a uno speciale itinerario (dalle 10.45) riservato ai più piccoli, e bende accetti saranno anche gli amici a quattro zampe.
La manifestazione si avvarrà del patrocinio della Regione Piemonte, della Città di Torino, delle Circoscrizioni 7 e 8 del capoluogo piemontese e del CIP Piemonte (Comitato Italiano Paralimpico).

«Avere raggiunto la ventesima edizione – sottolineano dal Consiglio Direttivo della Polisportiva dell’UICI di Torino – è per noi motivo di grande gioia e soddisfazione. Siamo felici di una manifestazione che, con l’andare del tempo, è divenuta un punto di riferimento per la città e ci ha permesso di sostenere in modo concreto la ricerca medica. Quest’anno, per celebrare il ventennale, ci aspettiamo una partecipazione ancora più nutrita del solito. Invitiamo dunque tutti e tutte a condividere con noi questo momento di sport, inclusione e impegno solidale». (S.B.)

Per ulteriori informazioni e approfondimenti: ufficio.stampa@uictorino.it (Lorenzo Montanaro).

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Maltrattare significa innanzitutto calpestare il diritto inalienabile alla dignità

Superando - 22 Aprile 2025 - 11:43am

«Maltrattare non significa solo strattonare, urlare o punire. È calpestare in primis il diritto inalienabile alla dignità. Facciamo in modo che nella vita dei nostri figli non manchi mai il rispetto»: lo scrive Maria Spallino, presidente dell’Associazione Coordinamento Familiari Centri Diurni Disabili Milanesi, a proposito della notizia che otto educatori di un Centro Diurno Disabili di Milano sono indagati per maltrattamenti ai danni delle persone con disabilità di cui avrebbero dovuto prendersi cura

Otto educatori di un Centro Diurno Disabili (CDD) di Milano sono indagati per maltrattamenti ai danni delle persone con disabilità di cui avrebbero dovuto prendersi cura. La notizia [se ne legga già anche sulle nostre pagine, N.d.R.] sconcerta e preoccupa non solo le famiglie direttamente interessate, ma tutte quelle i cui familiari con disabilità sono accompagnati nel loro percorso di vita da operatori ed educatori il cui compito non è solo assistere, ma anche sostenere, promuovere, motivare.
I nostri figli sono spesso persone “senza voce” e, proprio per questo non devono mai mancare attenzione e rispetto nei loro confronti. Sin dalla loro nascita, noi genitori e familiari percorriamo con loro e per loro un lungo cammino lastricato di sfide. Sfide che possiamo vincere solo quando le relazioni che intessiamo con chi (in ruoli diversi) li accompagna sono improntate su valori di lealtà e fiducia. Ogni figura che svolge un ruolo del progetto di vita dei nostri figli ha una grande responsabilità: la serietà, l’affidabilità e l’efficacia del suo intervento sono fondamentali per rendere solido quel progetto.
Le notizie circolate nei giorni scorsi rievocano fantasmi con cui molti di noi convivono. La sottile, pervasiva e costante angoscia riguardo al destino dei nostri figli e fratelli quando noi non ci saremo più. Non solo il futuro occupa i nostri pensieri. Nel presente, anche il timore che non siano accolti nelle loro aspirazioni, compresi nei loro bisogni, sostenuti nella loro conquista di autonomie in nostra assenza, quando “affidati” ad altri. Timori e angosce che tentiamo di tenere sotto controllo convincendoci che, impostando rapporti di fiducia, collaborazione e alleanza, sia loro garantito, oggi e per sempre, rispetto.
Negli articoli che riportano questa preoccupante vicenda – su cui auspichiamo venga fatta luce il prima possibile – viene usato il termine “maltrattamenti”. Maltrattare non significa solo strattonare, urlare o punire. È calpestare in primis il diritto inalienabile alla dignità. I nostri figli e fratelli, la cui autodeterminazione è spesso fragile, non sono in grado di difendersi da atteggiamenti prevaricatori. Abituati sin dalla nascita ad essere “gestiti” da altri, posseggono in moltissimi casi un’elevata adattabilità e resilienza e, proprio per questo, la loro percezione di eventuali vessazioni e angherie è stemperata.
In un momento storico in cui la promozione del diritto alla piena cittadinanza è al centro di politiche innovative, una notizia come questa incrina le certezze di genitori e familiari che si adoperano incessantemente per garantire ai propri figli o fratelli con disabilità un futuro degno, dovendosi fidare e affidare a chi ha un indispensabile compito di cura e sostegno.
Le responsabilità sono, saranno accertate, fino ai livelli più alti. Ma l’ambiente, il contesto deve essere ripensato e rinnovato. Le persone con disabilità e le loro famiglie vanno aiutate a recuperare, per quanto possibile, la fiducia. In casi simili non si riparte da zero, ma da molto più indietro.
È indispensabile reimpostare il servizio con impegno e serietà, scegliendo con la massima attenzione chi svolge un lavoro di cura e tessere una rete di aiuto e supporto che permetta a tutti di riconquistare una consapevole serenità.
Facciamo tutti in modo che nella vita dei nostri figli non manchi mai il rispetto.

*Presidente dell’Associazione Coordinamento Familiari CDD (Centri Diurni Disabili) Milanesi. Il presente contributo è già apparso in «Persone con disabilità.it» e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

Al medesimo tema trattato nel presente contributo, Superando ha già dedicato i testi Maltrattamenti nelle strutture su persone con disabilità: non basta più l’indignazione del momento! e Quel patto di fiducia che è stato incrinato di Enrico Mantegazza (disponibili rispettivamente a questo e a questo link).

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Un programma di umanità, che ora è nelle nostre mani

Superando - 22 Aprile 2025 - 11:10am

«La morte di Papa Francesco – scrive Vincenzo Falabella – lascia un vuoto profondo, ma anche un’eredità incancellabile. Ci lascia una Chiesa più consapevole, più aperta, più vicina alle fragilità. E ci affida una responsabilità: non lasciare cadere il suo insegnamento, non smettere di costruire un mondo dove davvero nessuno sia escluso. È un’eredità non solo spirituale, ma un programma di umanità che ora è nelle nostre mani» Un incontro di Papa Francesco con una serie di persone con disabilità e con i loro familiari, in occasione di una recente Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità (foto di Marco Calvarese; ©foto SIR/Marco Calvarese)

Papa Francesco ha rappresentato, per milioni di persone, una voce limpida e coraggiosa a favore della dignità umana e tra i tanti temi che ha affrontato con determinazione e sensibilità, il suo rapporto con le persone con disabilità ha segnato una svolta profonda nella visione della Chiesa, e non solo. Infatti, non ha mai considerato le persone con disabilità come destinatarie passive di attenzione o assistenza, ma le ha riconosciute come persone pienamente partecipi, con un ruolo attivo nella società e nella comunità ecclesiale.
«Ogni persona, con le sue fragilità, è un dono. Non esistono vite meno degne di essere vissute», diceva con forza. Per Papa Francesco la disabilità non è mai stata un “limite”, ma una forma concreta della diversità umana, che chiede di essere accolta con rispetto e non compatita.
Ha parlato spesso di barriere: non solo architettoniche, ma soprattutto culturali, spirituali e psicologiche. Barriere che isolano, che impediscono l’accesso alla piena partecipazione alla vita, alla fede, all’educazione. In ogni suo gesto, in ogni parola, ha cercato di ricucire relazioni, di abbattere distanze, di restituire voce a chi per troppo tempo era rimasto invisibile.

Nel suo magistero, Papa Francesco ha messo in evidenza come le fragilità umane siano un terreno fertile per esprimere il vero carisma della Chiesa. Non ha semplicemente affrontato la disabilità come un tema tecnico, ma ha trasformato questo argomento in una metafora potente di giustizia ed equità, in grado di arricchire profondamente la cultura ecclesiale. Le fragilità, per lui, non sono da evitare o da nascondere, ma da riconoscere come una dimensione imprescindibile della condizione umana, che rende ogni persona unica e degna di rispetto. Ha messo in discussione il modello sociale che misura il valore di un individuo solo sulla base della produttività, invitando la Chiesa a diventare il luogo in cui l’inclusione non è solo un principio astratto, ma una pratica quotidiana che riflette l’amore di Dio per ogni essere umano.
Questa visione non solo ha cambiato l’approccio della Chiesa verso le persone con disabilità, ma ha anche offerto alla società un nuovo paradigma, più giusto e più umano, in cui le barriere, siano esse fisiche, sociali o culturali, vanno abbattute in nome della dignità di ciascuna persona. In altre parole, tutto ciò che è costruito, sia che si tratti di uno spazio urbano, sia che si tratti di una comunità, deve essere pensato per tutti, non adattato dopo. E Papa Francesco ha ricordato che l’inclusione non è un favore, non è una semplice concessione, ma un diritto che deve essere rispettato e garantito.

La sua morte lascia un vuoto profondo, ma anche un’eredità incancellabile. Le sue parole, i suoi abbracci, il suo sguardo capace di incontrare senza giudicare, continueranno a vivere in ognuno di noi. Ci lascia una Chiesa più consapevole, più aperta, più vicina alle fragilità. E ci affida una responsabilità: non lasciare cadere il suo insegnamento, non smettere di costruire un mondo dove davvero nessuno sia escluso.
Ricordo i miei personali incontri, ricordo alcune sue parole su tutte: «La carrozzina che utilizzi non è ciò che ti definisce ma è uno strumento che, insieme a te, diventa veicolo di libertà».
L’eredità di Papa Francesco non è solo spirituale. È un programma di umanità. Ed è ora nelle nostre mani.

*Presidente della FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie), consigliere del CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro).

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“E posso ancora parlare di noi”, storia di Me e di Ivo, il suo fratello “sibling”

Superando - 18 Aprile 2025 - 6:11pm

A cercare di fare uscire dal “cono d’ombra” i “siblings”, ossia i fratelli e le sorelle di persone con disabilità, vi è anche “E posso ancora parlare di noi”, libro di “Luce Blu” (Lucia Bossi) sulla relazione tra due fratelli nati in un piccolo paese di montagna, uno dei due con una disabilità psicofisica, l’altro in lotta e in fuga per affermare la propria individualità. Un romanzo intenso, commovente e coinvolgente, duro come sa essere dura la vita, che ha già ottenuto diversi riconoscimenti

Li chiamano siblings, “fratelli”, un termine generico che viene utilizzato per definire i fratelli e le sorelle delle persone con disabilità. Un legame unico nel quale la condizione di fragilità di un membro della famiglia è al centro dei pensieri dell’intero nucleo e fa sì che la crescita di chi non presenta evidenti difficoltà venga condizionata da molteplici stati d’animo, interrogativi, sentimenti contrastanti di amore-odio e sensi di colpa. Pochi ci pensano, pochi sostengono e ascoltano la voce dei siblings, alla fine diventano più “invisibili” dei fratelli e delle sorelle con disabilità verso cui si dirigono le maggiori attenzioni.
A cercare di farli uscire dal “cono d’ombra” vi è anche un libro, E posso ancora parlare di noi (editore Be Strong), un romanzo sulla relazione tra due fratelli nati in un piccolo paese di montagna, uno dei due con una disabilità psicofisica, l’altro in lotta e in fuga per affermare la propria individualità.
A scriverlo è stata “Luce Blu”, pseudonimo di Lucia Bossi, insegnante di scuola primaria, il cui vissutro personale è stato rielaborato, diventando la storia di Me e Ivo, i protagonisti di E posso ancora parlare di noi, un emozionante viaggio che racconta la convivenza con la “diversità” dal punto di vista di un fratello che per anni si sente “diverso” perché non ha un fratello “normale”, la storia di un amore fraterno che si fa strada nonostante tutto, più forte dell’indifferenza e della inevitabile lontananza quando si diventa adulti.

Me è Ernesto, è lui a “battezzarsi” con questo pronome personale quando gli chiedono come si chiama. È nato cinque anni prima di Silvio, per tutti Ivo, e Me, il nomignolo del fratello riesce a pronunciarlo senza le esitazioni con le quali abitualmente si esprime.
Sono sempre insieme, Me e Ivo, il primo con un perenne sorriso in volto, l’animo allegro, il passo incerto e strascicato che segue il fratello più giovane. Un’infanzia in simbiosi, tra boschi, prati, marmotte e cerbiatti, a sentirsi al sicuro soltanto insieme.
Ivo non vede il fratello “diverso”. Con la saggezza che soltanto i bambini hanno lo considera diverso da lui come ogni persona è differente dalle altre. Però è raro che qualcuno si avvicini a Ivo quando è insieme a Me, perché? Probabilmente è lo stesso motivo per cui in casa, quella casa di montagna che avrebbe dovuto essere il rifugio di una giovane coppia innamorata, ci sono pochissime foto di Ernesto. La nascita del figlio con disabilità segna l’inizio delle incomprensioni tra i genitori e la mamma si trasferisce in Liguria con il primogenito, dai nonni, perché si pensa che il mare possa far diventare “normale” Me; lo dicono proprio in questo modo brusco: «diventare normale».

Con il tempo la coppia sembra rinsaldarsi, ed è a questo punto che nasce Silvio. Me diventa la proiezione delle emozioni di Ivo, se quest’ultimo è felice Me ride a crepapelle, se Ivo è silenzioso Me si fa cupo. È sempre Ivo che Me interroga con lo sguardo, per decifrare poche indimenticabili parole uscite un giorno dalla bocca di papà: «La mamma non ci vuole più bene. Ci ha lasciati soli». Troppo pesante il fardello psicologico di quel figlio “handicappato”, non serve a nulla vestirlo in modo da mascherare le gambe con gli stivaletti ortopedici, il marito è troppo debole per starle accanto.

La vita continua, i fratelli sono insieme anche a scuola, nella stessa classe, Me non ha iniziato le elementari quando aveva l’età giusta, tanto da lui non ci si aspettava che imparasse. Per il fratello minore, obbligato ad essere anche genitore, è un continuo confronto con gli altri che possono essere spensierati, mentre ai siblings viene in parte sottratta la leggerezza della gioventù.
Ivo accudisce il fratello, la gente li percepisce come una cosa sola, «ero come se io mi sdoppiassi in due, nel normale e nel disabile, nell’autonomo e nel dipendente, nel genitore e nel figlio». A un certo punto sente il bisogno di fuggire e lo fa seminando il fratello sulle piste da sci, sordo ai suoi richiami, passa un’estate in alpeggio con la sola compagnia delle mucche. Alla fine Me lo riaccoglie a braccia aperte, senza rancore.

La narrazione prosegue più intima e introspettiva, esplora i confini dell’animo umano. Il linguaggio si fa dapprima inquieto, seguendo i tumulti dell’adolescenza, poi adulto, man mano che Ivo cresce e si pone domande: che diritto ho di progettarmi un avvenire quando mio fratello ne avrà uno incerto? Chi penserà a lui se io mi farò una vita lontano dal paese per realizzare i miei sogni? È mio dovere prendermi cura di Me per sempre, annullandomi?
L’affetto che il papà non è in grado di dare arriva, inaspettato, dalla vicina di casa, una donna rude che odora di formaggio e animali. È a lei e a suo marito che Ivo si rivolge per dare a Me un futuro il più possibile autonomo, nel quale guadagnarsi di che vivere e che possa scongiurare il ricovero in una struttura. Me inizia a lavorare nella stalla e nell’azienda agricola dei vicini, Ivo parte per Milano, destinazione università. Gli piace scrivere, riempire quaderni con emozioni e fantasie. Anche di Me scrive, «a volte mi sfogavo perché non ti sopportavo più, a volte perché senza di te non avrei potuto vivere, a volte perché ti avrei voluto diverso».
Ivo non parla di suo fratello con gli amici di città, è difficile per altro fare amicizia, non sa come comportarsi con le ragazze, è in imbarazzo quando lo invitano a prendere un aperitivo. Vede tutti disinvolti, felici, mentre lui è a disagio nei pantaloni troppo grandi e con le camicie a scacchi di ruvida stoffa. A Milano Ivo vuole essere Silvio, ma nella metropoli si sente fuori posto, porta dentro il silenzio della montagna e la nostalgia per il fratello lontano. Lo chiama di rado, fantastica su come sarebbe stata la sua vita e quella della sua famiglia con un fratello “normale”, a volte vorrebbe perfino dimenticarlo, però è pensando a lui che trova attimi di autentica serenità: «Per te ero sempre importante, ma tu non potevi immaginare, perché non te lo dimostravo, che tu lo eri molto più per me».

Non voglio spoilerare l’epilogo della storia, voglio che leggiate E posso ancora parlare di noi, che assaporiate ogni riga, ogni malinconia, ogni caduta e ogni conquista, che sentiate infine il richiamo delle alte vette come i protagonisti del racconto. Vi basti sapere che ora la loro abitazione si chiama CASA ME, che le erbacce saranno tolte e l’altalena sistemata; che adesso Ivo non ha più paura di parlare di loro.
Questo romanzo intenso, commovente e coinvolgente, duro come sa essere dura la vita, ha ottenuto diversi riconoscimenti, tra cui il secondo posto al Premio Zingarelli 2024. I siblings non sono destinati al disagio e alla sofferenza, questo libro ce lo insegna e ci fa capire che attraverso il tortuoso cammino della vita possono trovare la loro dimensione, aiutati anche dal fratello o dalla sorella “fragile”.
E posso ancora parlare di noi si inserisce in un filone letterario ancora poco esplorato, mi viene in mente Mio fratello rincorre i dinosauri, romanzo autobiografico di Giacomo Mazzariol, dove l’autore parla della relazione con il fratello con la sindrome di Down, portato sul grande schermo nel 2019.
Ivo e Me mi hanno ricordato anche Ovosodo, il film del 1997 diretto da Paolo Virzì, dove il protagonista ha un fratello con disabilità e per un tratto dell’esistenza sono l’uno la spalla dell’altro.
«E posso ancora parlare di noi, di quello che siamo diventati, di quello che ci hanno tolto, di quello che volevamo ancora vivere ma non abbiamo potuto, di quel bello che, nonostante tutto, spero sempre possa succedere», dice Ivo, e si comprende così che la disabilità non è stata il “terzo incomodo” nel rapporto con Me, ma un valore aggiunto nel quale hanno trovato la forza di lottare per entrambi.

*Direttrice responsabile di Superando. Il presente servizio è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “‘E posso ancora parlare di noi’, un romanzo che dà voce ai sentimenti dei siblings”, e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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Al Museo senza barriere

Superando - 18 Aprile 2025 - 5:36pm

Accessibilità, progetti inclusivi, azioni partecipate, percorsi di visita per tutte le persone, musei come luoghi di convivenza oltre le differenze: sono le coordinate del protocollo d’intesa sottoscritto a Torino tra Filippo Masino, direttore delle Residenze Reali Sabaude-Musei Nazionali Piemonte, Franco Lepore, presidente dell’UICI Piemonte e Giovanni Laiolo, presidente dell’UICI di Torino Da sinistra: Franco Lepore, presidente dell’UICI Piemonte, Filippo Masino, direttore delle Residenze Reali Sabaude-Musei Nazionali Piemonte e Giovanni Laiolo, presidente dell’UICI di Torino

Accessibilità, progetti inclusivi, azioni partecipate, percorsi di visita per tutte le persone, musei come luoghi di convivenza oltre le differenze: sono le coordinate del protocollo d’intesa sottoscritto nei giorni scorsi a Torino, presso gli Appartamenti dei Principi di Palazzo Carignano, tra Filippo Masino, direttore delle Residenze Reali Sabaude-Musei Nazionali Piemonte, Franco Lepore, presidente dell’UICI Piemonte (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti) e Giovanni Laiolo, presidente dell’UICI di Torino.

«Questo accordo – spiegano dall’UICI Piemonte – aggiunge un nuovo importante tassello al quadro strategico portato avanti dall’Istituto delle Residenze Reali Sabaude per ampliare l’accessibilità dei percorsi gestiti e fare in modo che l’esperienza museale possa essere sempre più inclusiva e partecipata, anche nell’ottica degli obiettivi di crescita sostenibile e riduzione delle disuguaglianze dell’Agenda ONU 2030. Il diritto alla cultura da parte di tutta la cittadinanza è infatti al centro di programmi che si muovono in molteplici direzioni: iniziative per il superamento delle barriere cognitive e sensoriali, anche sviluppate insieme alla Fondazione Istituto dei Sordi, al Politecnico di Torino e ad Associazioni che operano con particolare attenzione per le persone con disturbi dello spettro autistico; progetti per il PEBA (Piano di Eliminazione delle Barriere Architettoniche); attività per favorire il dialogo interculturale e l’integrazione sociale dedicate a persone fragili o in condizioni di disagio e difficoltà».

Nello specifico della collaborazione con l’UICI, essa prevede azioni diverse, quali corsi di formazione, condivisione di forme per comunicare in modo inclusivo, realizzazione di attività didattiche, mostre, seminari e pubblicazioni, caratterizzandosi come uno dei punti di forza del progetto di riallestimento di Palazzo Carignano che porterà nei prossimi mesi all’apertura di un percorso di visita più ampio e rinnovato. I lavori, attualmente in corso, sono stati pensati, infatti, nella prospettiva della più estesa accessibilità, con l’utilizzo di strumenti di mediazione multimediale e multisensoriale, anche attraverso l’applicazione di tecnologie digitali di ultima generazione.
Il progetto sarà realizzato grazie ai fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ed è stato l’unico finanziato in Piemonte nell’àmbito delle misure a favore degli allestimenti per comunicare l’accessibilità e migliorare la fruizione dei luoghi della cultura nazionali.
«Il piano di riallestimento di Palazzo Carignano – sottolineano infatti dall’UICI Piemonte – è considerato come un modello possibile per interventi futuri in altre realtà museali, un progetto “manifesto”, per offrire un esempio concreto degli approcci all’accessibilità più innovativi e trasformare davvero il museo in un luogo accogliente, inclusivo e partecipato, andando anche oltre alle barriere sensoriali, cognitive e culturali. Un obiettivo che rende ancora più prezioso e fondamentale il confronto con il Consiglio Regionale e con la Sezione territoriale di Torino della nostra Associazione, in tutte le forme di supporto e collaborazione previste dal protocollo di intesa siglato nei giorni scorsi». (S.B.)

Per ulteriori informazioni: comunicazione@uicpiemonte.it (Lorenzo Montanaro).

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Quel patto di fiducia che è stato incrinato

Superando - 18 Aprile 2025 - 5:00pm

«Vicende come questa – scrive Enrico Mantegazza, a proposito dei maltrattamenti nei confronti di persone con disabilità di cui sono accusati otto operatori di un centro diurno di Milano – possono incrinare profondamente quel tacito patto basato sulla fiducia di chi (familiare o caregiver) affida una persona con disabilità (figlio, fratello, genitore) e il suo benessere a una persona o a un gruppo di persone per una parte o per tutta la giornata»

Nei giorni scorsi è stata diffusa la notizia che otto operatori di un centro diurno (tra cui due responsabili) di Milano sono stati interdetti dall’esercizio dell’attività: il gruppo è accusato di maltrattamenti nei confronti delle persone con disabilità che frequentavano la struttura [di tale vicenda si legga già anche sulle nostre pagine, N.d.R.].
Al di là del fatto di cronaca, delle responsabilità che dovranno essere accertate, della brutalità delle azioni e delle parole che i quotidiani attribuiscono agli operatori, questa situazione ci sconcerta e interroga profondamente il nostro sistema di welfare.

In questo momento storico, sia la normativa regionale lombarda (Legge Regionale 25/22), sia quella nazionale (Decreto Legislativo 62/24) pongono alle Associazioni di persone con disabilità e al mondo dei servizi una sfida nuova e impegnativa: mettere al centro dei percorsi di autonomia delle persone con disabilità il progetto di vita individuale e partecipato. Il punto di riferimento non sono più, dunque, i presunti “bisogni”, ma i desideri e le aspettative di tutte le persone con disabilità, comprese quelle che hanno un maggiore bisogno di sostegno e che faticano maggiormente a esprimersi.
Il ruolo degli educatori è fondamentale per far emergere questi desideri e aspettative; ma è difficile pensare che questo possa avvenire se si incrina quel tacito patto basato sulla fiducia di chi (familiare o caregiver) affida una persona con disabilità (figlio, fratello, genitore) e il suo benessere a una persona o a un gruppo di persone per una parte o per tutta la giornata.

Vicende come quella di Milano possono incrinare profondamente questo patto. Com’è possibile che figure di coordinamento, che dovrebbero essere garanti della tenuta di un sistema che vede nell’accreditamento (svolgere cioè una funzione in nome e per conto del “pubblico”), possano aver taciuto, ignorato o non rilevato quello che viene raccontato sui giornali?
È evidente che i sistemi basati sulla vigilanza e sul controllo non sono sufficienti, che le customer satisfaction proposte ai centri diurni non hanno restituito alcun segnale di allarme.
È evidente che un sistema basato sul “minutaggio” della prestazione, sul rispetto pedissequo di qualifiche professionali, di tipologie di professionisti, non possa in alcun modo garantire una qualità di vita né un contesto capace di far emergere, raccogliere ed elaborare desideri e aspettative da parte di chi ha difficoltà ad esprimere la propria volontà.

C’è poi un altro elemento su cui è importante fermarsi a riflettere: la carenza di personale educativo qualificato. I giovani che vogliono svolgere professioni educative sono in calo; una situazione che impedisce il ricambio generazionale, aumenta il rischio di burnout degli operatori e, peggio ancora, rende spesso necessario il ricorso a personale poco o nulla qualificato, perché altrimenti non si rispettano gli standard previsti dal rigido sistema di norme.
A fare le spese di questa situazione sono in primis le persone con disabilità. Il fatto che questi maltrattamenti siano potuti accadere all’interno di un servizio diurno (che occupa solo parte della giornata delle persone con disabilità) è un segnale particolarmente preoccupante, senza dimenticare che il rischio di maltrattamento e abusi è ancora più elevato nelle strutture residenziali in cui le persone “ospiti” trascorrono tutta la giornata e tutta la notte. Spesso con poche opportunità di interazione con l’esterno.

È il momento di cambiare approccio! La normativa (voluta e proposta dalle Associazioni di persone con disabilità) ci impone una sfida enorme: aprire tutti i servizi, aprire tutti quei luoghi chiusi dove è più alto il rischio che si commettano abusi e maltrattamenti, fare uscire sul territorio le persone che sono “dentro” i servizi. Questo passaggio non possiamo farlo da soli né in contrapposizione con il “pubblico”: dev’essere un’azione corale, coraggiosa, di Associazioni, Comune, ATS Milano (Agenzia di Tutela della Salute) e Imprese Sociali.

*Presidente di LEDHA Milano (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità).

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