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Inclusione e innovazione: il Museo di Lipari si trasforma

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In corso al Museo di Lipari, nelle Isole Eolie, il progetto “Dal museo al teatro”, nell’ambito del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza: dal prossimo mese di maggio verranno esposti 35 reperti tattili, segnaletica in Braille e in LIS, app, auto elettriche per i visitatori a ridotta mobilità e uno spettacolo teatrale originale, il “Prometeo incatenato” di Eschilo Riproduzioni delle maschere teatrali del Museo di Lipari (foto di Alessandro Villa)

Dal prossimo mese di maggio, il Museo Archeologico Luigi Bernabò Brea di Lipari, che fa parte del Parco Archeologico delle Isole Eolie della Regione Siciliana, “parlerà” in Braille e in LIS (Lingua dei Segni Italiana) e sarà fruibile quindi dalle persone con disabilità visive e delle persone sorde segnanti, grazie a una serie di innovazioni tecnologiche realizzate con i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza per la rimozione delle barriere fisiche e cognitive.
Vietato non toccare, recita infatti un pannello, e sono in arrivo copie tattili delle maschere della tragedia antica (come Paride e Filottete, IV secolo a.C., figure riconducibili alla perduta tragedia di Sofocle Filottete a Troia) e della commedia nuova (come Pseudokore e l’Etera, prima metà del III secolo a.C.); statuette comiche (come il Satiro sconcertato, dalla pancia gonfia e l’inequivocabile citazione fallica, tipica della satira del IV secolo a.C.); vasi delle culture preistoriche e un cratere attico a figure rosse (V secolo a.C). In tutto 35 reperti tattili, perfettamente uguali agli originali e realizzati in “PLA” (bioplastica ricavata da zuccheri vegetali), con tecnologie digitali e rilievi con laser scanner, che potranno essere toccati dai visitatori con disabilità visive (e non solo), restituendo loro la reale percezione della ricca collezione archeologica del Museo liparese, istituzione di altissimo valore storico e identitario che proprio lo scorso anno ha compiuto i suoi primi 70 anni di vita. Per i visitatori un’app, video descrizioni a tema e raccontate in LIS, didascalie e segnaletica in Braille (oltre a italiano e inglese) dentro e fuori il museo.

Le tante novità verranno presentate al Parco delle Eolie il 2 e il 3 maggio nel corso di una due giorni che, oltre a un convegno e a un workshop con gli attori istituzionali coinvolti nel progetto – e fra questi gli interventi dell’assessore regionale siciliano ai Beni Culturali e all’Identità Siciliana Francesco Paolo Scarpinato e del direttore generale del Dipartimento dei Beni Culturali stessi, Mario La Rocca –  prevede nella serata del 3 maggio (ore 21), lo spettacolo Il Prometeo incatenato da Eschilo.

«Rendere i luoghi della cultura quanto più accessibili possibile è tra le nostre mission – ha dichiarato l’assessore regionale Scarpinato -; grazie infatti anche alle moderne tecnologie e ai sistemi più avanzati, la disabilità non può e non deve costituire un limite alla fruizione di parchi archeologici, musei e gallerie. Stiamo lavorando alacremente in questa direzione affinché un numero sempre maggiore di siti sia accessibile a tutti».

Il progetto, finanziato come detto dal Piano Nazionalre di Ripresa e Resilienza (con circa 500.000 euro), è redatto dal Parco delle Isole Eolie ed è stato messo a punto in collaborazione con l’Università Cattolica di Milano, l’Università Mediterranea di Reggio Calabria e la Società Naos Lab (azienda che opera tra Salerno, Catanzaro e Roma), che ha curato tutta l’elaborazione digitale. Il coordinamento scientifico è di Maria Clara Martinelli, archeologa del Parco Eolie, Francesca Fatta, docente di Disegno dell’Architettura all’Università Mediterranea di Reggio Calabria ed Elisabetta Matelli, docente di Storia del Teatro Greco all’Università Cattolica. (C.C. e S.B.)

Per ogni ulteriore informazione: info@melamedia.it (Carmela Grasso).

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L’insostenibile situazione delle case famiglia di Roma e del Lazio

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«Questi servizi garantiscono la tutela delle persone più vulnerabili della nostra comunità, con competenza e responsabilità, ma senza un adeguamento delle rette, non sarà più possibile assicurare gli standard qualitativi richiesti, con il concreto rischio di chiusura delle strutture»: lo hanno scritto numerosi enti e organizzazioni in una lettera indirizzata al Sindaco di Roma, denunciando ancora una volta l’ormai insostenibile situazione economica delle case famiglia capitoline L’interno di una casa famiglia del Lazio per persone adulte con disabilità

«Questa è una situazione ormai insostenibile, che richiede con urgenza un intervento da parte delle Istituzioni: a Roma, in questo momento, trovano accoglienza in casa famiglia circa 1.000 minori e 150 donne sole con figli piccoli in condizioni di grave fragilità, ma le organizzazioni che gestiscono questi servizi residenziali stanno affrontando una crisi economica che rischia di compromettere le cure e l’assistenza. I costi necessari per garantire standard di qualità e il pieno rispetto contrattuale non sono infatti più compatibili con le rette attualmente riconosciute da Roma Capitale»: a lanciare il grido d’allarme sono l’Associazione Casa al Plurale, l’AGCI Lazio (Associazione Generale Cooperative Italiane), Confcooperative Federsolidarietà Lazio, Legacoop Lazio, il Forum del Terzo Settore Lazio, il CNCM Lazio (Coordinamento Nazionale delle Comunità di tipo familiare per i Minorenni), il CNCA Lazio (Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza) e l’Associazione Mam&Co.
In una lettera indirizzata al sindaco di Roma Roberto Gualtieri (lettera disponibile integralmente a questo link), tali Enti hanno chiesto dunque di porre rimedio, prima che sia troppo tardi, ad una crisi finanziaria aggravatasi in seguito all’aggiornamento del Contratto Collettivo Nazionale delle Cooperative Sociali e alla mancata revisione delle tariffe, ferme ai parametri del 2019 per i minori e del 2021 per i nuclei madre-bambino.

«Questi servizi – dichiarano i rappresentanti delle organizzazioni e degli enti gestori dei servizi residenziali per minori e nuclei madre-bambino della Capitale – garantiscono la tutela delle persone più vulnerabili della nostra comunità, con competenza e responsabilità. Tuttavia, senza un adeguamento delle rette, non sarà più possibile assicurare gli standard qualitativi richiesti, con il concreto rischio di chiusura delle strutture. E stiamo parlando di oltre un centinaio di strutture altamente specializzate, sottoposte a stringenti requisiti autorizzativi, strutturali e organizzativi, diffuse sul territorio romano».

Come si legge nella lettera inviata al Sindaco di Roma, «Avvenuto ormai da oltre un anno, il rinnovo del Contratto Collettivo Nazionale delle Cooperative Sociali, giusto e necessario, ha aggravato una situazione economica già critica e la mancata revisione delle rette ha prodotto effetti destabilizzanti: allontanamento di risorse umane qualificate, difficoltà nella tenuta organizzativa, rischio concreto di chiusura dei servizi, nonostante l’osservanza rigorosa delle regole da parte degli enti gestori. È evidente che la crisi in atto non può più essere scaricata sulle spalle delle cooperative sociali e degli enti del Terzo Settore. Occorre un segnale istituzionale chiaro, concreto e immediato».

Ma di quali numeri si parla? Sulla scorta del rapporto Quanto costa una casa famiglia?, redatto a suo tempo e sempre aggiornato da Casa al Plurale – che è, lo ricordiamo, l’Associazione di coordinamento delle case famiglia di Roma e del Lazio -, si può constatare che l’attuale retta per minori è pari a 100 euro (IVA inclusa e quindi 95,23 euro), mentre dovrebbe essere di 252.98 euro; quella per le mamme per bambino ammonta a 79,05 euro, mentre sarebbero necessari, conti alla mano, 171.83 euro.
Le varie organizzazioni richiedono dunque con urgenza un primo intervento «anche simbolico, ma indispensabile», attraverso lo stanziamento di una somma pari all’adeguamento ISTAT del costo della vita (almeno 7,8 milioni di euro) e «l’istituzione di un tavolo di confronto permanente tra Comune, Regione e Governo, al fine di costruire un sistema di tutela stabile ed equo».
«Siamo consapevoli delle difficoltà del bilancio capitolino – concludono i firmatari della lettera -, ma in situazioni di risorse limitate è indispensabile compiere scelte e definire priorità». (S.B.)

Per ulteriori informazioni: Ufficio Stampa Casa al Plurale (Carmela Cioffi), carmelacioffi@gmail.com.

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Il 28 e 29 aprile a Roma il “Giubileo delle Persone con Disabilità”

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Il “Giubileo delle Persone con Disabilità”, evento dell’Anno Santo 2025, si terrà a Roma il 28 e 29 aprile. ​L’iniziativa, promossa dal Dicastero per l’Evangelizzazione della Curia romana, è dedicata alle persone con disabilità, ai loro familiari e amici, agli accompagnatori. ​L’obiettivo è creare un momento di inclusione e spiritualità, con un programma ricco di celebrazioni e incontri

Il Giubileo delle Persone con Disabilità, evento straordinario dell’Anno Santo 2025, si terrà a Roma il 28 e 29 aprile. ​L’iniziativa, promossa dal Dicastero per l’Evangelizzazione della Curia romana, sarà dedicata segnatamente alle persone con disabilità, ai loro familiari e amici, agli accompagnatori, con l’obiettivo di creare un momento di inclusione e spiritualità, presentando un programma ricco di celebrazioni e incontri. ​

Ogni partecipante che si è iscritto riceverà la Carta del Pellegrino, strumento digitale gratuito che consentirà l’accesso agli eventi, sconti su trasporti e alloggi e la prenotazione per il pellegrinaggio alle Porte Sante.​ Il 28 aprile, quindi, i pellegrini potranno attraversare la Porta Santa delle Basiliche Maggiori di Roma e seguire la celebrazione della Messa in Piazza San Pietro alle 17.​ Il 29 aprile, infine, l’incontro con Papa Francesco, alle 11, sarà il momento centrale, seguito da un pranzo di benvenuto e da un pomeriggio di festa nei Giardini di Castel Sant’Angelo.

«Il Giubileo delle Persone con Disabilità – sottolineano i promotori – sarà un’occasione unica per celebrare la fede e la speranza, con un inno dedicato e una preghiera ufficiale. In tal senso Roma si prepara ad accogliere migliaia di pellegrini, unendo spiritualità, inclusione e solidarietà». (C.C.)

Il vademecum. Ulteriori informazioni a questo link.

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È aperto al pubblico a Genova il laboratorio “I Pasticci della Tartaruga”

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“I Pasticci della Tartaruga” è un laboratorio di pasticceria a Genova che produce dolci senza glutine di alta qualità, realizzati da giovani adulti con disabilità cognitiva. Il progetto, promosso dalla Cooperativa  La Compagnia della Tartaruga, mira a creare opportunità di formazione e inserimento lavorativo per questi giovani, valorizzandone le capacità in un ambiente umano e professionale. «Ogni dolce rappresenta un passo verso una società più inclusiva e attenta alle diversità» Sono dolci buoni davvero per tutti quelli prodotti dal laboratorio di pasticceria I Pasticci della Tartaruga, promosso a Genova dalla Cooperativa Sociale La Compagnia della Tartaruga.
Realizzati con cura artigianale e ingredienti di alta qualità da tre giovani adulti con disabilità cognitiva – Alice (30 anni), Amina (24 anni) e Massimiliano (39 anni) – guidati dal pasticciere Michele Pietragalla, i dolci dei Pasticci della Tartaruga sono Gluten Free (“senza glutine”), creati in un laboratorio dedicato, appartenente al network Alimentazione Fuori Casa dell’AIC (Associazione Italiana Celiachia). Fatti a mano uno per uno, unici come uniche sono le persone che li producono, sono creati con ricette che nascono già di base con un basso contenuto di farina, arricchite con materie prime “pregiate” come la frutta secca.

Elemento distintivo del laboratorio di pasticceria è il forte valore sociale: nasce infatti con l’obiettivo principale di creare opportunità reali di formazione e inserimento lavorativo per giovani con disabilità cognitiva, «valorizzandone le capacità e le potenzialità, in un ambiente professionale ma profondamente umano, dove la qualità del prodotto va di pari passo con la qualità delle relazioni», come si legge in una nota della Cooperativa Sociale.

«Fare dolci buoni per tutti, partendo da chi è spesso escluso: è questa la nostra rivoluzione», afferma Enrico Pedemonte, presidente della Cooperativa La Compagnia della Tartaruga. «Con I Pasticci della Tartaruga, così come con il bed & breakfast La Sosta della Tartaruga, trasformiamo la lentezza in valore, e il lavoro in strumento di inclusione autentica. I nostri giovani, affiancati da un pasticciere esperto, producono dolci senza glutine che non sono pensati solo per chi ha un’intolleranza, ma per chiunque voglia scegliere la qualità e la cura artigianale. Ogni dolce rappresenta così un piccolo passo verso una società più inclusiva e attenta alle diversità. Perché l’inclusione può essere anche una scelta di gusto, concreta e quotidiana». (C.C.) A questo link è disponibile un testo di ulteriore approfondimento. Per altre informazioni: Ufficio Stampa Compagnia della Tartaruga (Paola Iacona), paolaiacona.comunicazione@gmail.com.

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Ma se io avessi previsto che… i Regolamenti di Contabilità contano più delle Convenzioni Internazionali!

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«Non sono giustificabili – scrive Roberto Toppoli – le prassi in vigore nei Servizi Sociali Municipali di Roma Capitale sulla gestione dei fondi per i servizi sociali. È una questione di volontà e di comprendere la specificità dei servizi erogati in favore delle persone, che non possono essere equiparati ad altre funzioni dell’Ente Locale. Qui parliamo delle vite delle persone, del loro bene-essere, del superamento delle barriere che non permettono di godere pienamente dei propri diritti»

Ma se io avessi previsto tutto questo… Da ammiratore di Francesco Guccini, avrei dovuto intitolare questo scritto L’avvelenata, visto lo stato d’animo nel quale mi trovavo nei giorni scorsi, dopo l’ennesima segnalazione, da parte del familiare di una persona con disabilità a Roma, riguardante una criticità nell’erogazione del servizio cosiddetto “domiciliare” in favore del proprio figlio.
La storia è, più o meno, sempre la stessa. La persona con disabilità porta con sé una situazione complessa, il grado di intensità assistenziale è alto, la cooperativa che eroga il servizio non è più in grado di portarlo avanti. I familiari si rivolgono, ovviamente, al Servizio Sociale Municipale chiedendo, in alternativa, l’attivazione della cosiddetta “assistenza indiretta”, ovvero l’erogazione del servizio da parte di operatore/i che la famiglia stessa cercherà, contrattualizzerà e retribuirà, rendicontando mensilmente al Municipio il quale provvederà, dopo i dovuti controlli di regolarità amministrativa, a compensare le cifre spese.
Tutto semplice? Parrebbe di sì. Non si tratta, per il Municipio, di spendere più denari, ma soltanto di imputarne la spesa in una diversa “voce economica”; infatti, non si parla più di un “servizio”, ma di un “contributo”, ripeto, a saldo invariato per il bilancio municipale.
La risposta del Servizio, però, non è così lineare: se la famiglia intende avvalersi dell’assistenza indiretta, deve “rinunciare” all’attuale servizio, il SAISH (Servizio per l’Autonomia e l’Integrazione della Persona con Disabilità), e iscriversi ad una nuova “lista di attesa” con tempi di attivazione del servizio non prevedibili.
E qui ci chiediamo dove sia la presa in carico, ovvero di chi sia la responsabilità su quanto messo in campo in favore di questa persona che, dall’oggi al domani, viene “scaricata” senza una reale motivazione.

Prima di continuare, mi si permetta una digressione su un altro argomento che non smette di indignarmi ogni volta che, per motivi professionali, mi trovo a leggere una Delibera o una Determinazione Dirigenziale, che sia regionale o comunale. Prendetene una a caso e preparatevi ad una buona mezz’oretta introduttiva dedicata ai “rimandi” ad altri atti o norme. Vi attende un florilegio di: Premesso, Visto, Tenuto conto, Preso atto, Atteso che, Considerato, Ritenuto, Dato atto, che illustra quanto di positivo e condivisibile abbiano stabilito le normative internazionali, europee, nazionali e regionali. E quando si tratta di disabilità, tra le norme richiamate, non manca mai la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Ma la Convenzione ONU, all’articolo 3, delinea servizi sociali che operano in tutt’altra direzione di quella alla quale ci troviamo di fronte nelle situazioni reali, come quella dalla quale abbiamo preso le mosse. Infatti, la citata Convenzione, all’articolo 3, tra i Principi generali riconosce «il rispetto per la dignità intrinseca, l’autonomia individuale – compresa la libertà di compiere le proprie scelte – e l’indipendenza delle persone». E poi afferma, all’articolo 19 (Vita indipendente ed inclusione nella società), che «le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, sulla base di eguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione abitativa; che abbiano accesso ad una serie di servizi di sostegno domiciliare, residenziale o di comunità, compresa l’assistenza personale necessaria per permettere loro di vivere all’interno della comunità e di inserirvisi e impedire che esse siano isolate o vittime di segregazione; che i servizi e le strutture comunitarie destinate a tutta la popolazione siano messe a disposizione, su base di eguaglianza con gli altri, delle persone con disabilità e siano adatti ai loro bisogni».
Ma tutti questi princìpi sono resi inutili enunciazioni da regolamenti di contabilità, che si presumono invalicabili e immodificabili e consolidate prassi che al Comune di Roma si traducono in «si è sempre fatto così!». Gli uffici si barricano, cioè, dietro una presunta rigidità degli stanziamenti presenti nel bilancio e quindi nell’impossibilità di utilizzare le risorse stanziate (tornando all’esempio iniziale per il SAISH), per un diverso servizio, nel nostro caso l’assistenza indiretta.
Ma se fosse così sarebbe più opportuno, e lineare, che tutti i Premesso, Visto, Tenuto conto, Preso atto, Atteso che, Considerato, Ritenuto, Dato atto si riducessero a:
° Premesso quanto enunciato dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.
° Considerato che questa Amministrazione ritiene il Regolamento di Contabilità norma sovraordinata alle Convenzioni internazionali.
° Atteso che le nostre prassi operative sono immutabili.
° Ritenuto quindi che i diritti sanciti nelle Convenzioni internazionali non siano esigibili nel nostro Paese…
Non sarebbe più coerente con l’operato dei servizi?

Chi scrive non ritiene giustificabili le prassi attualmente in vigore nei Servizi Sociali Municipali di Roma Capitale in merito alla gestione dei fondi per i servizi sociali. Il trasferimento dei fondi all’interno dello stesso Centro di Responsabilità (o di costo) da una voce economica all’altra è operazione di estrema semplicità e anche dove si dovessero trasferire fondi tra diversi Centri di Responsabilità la necessaria variazione – si ribadisce una volta ancora, a saldo invariato -, comporterebbe solo un Atto di Giunta capitolina che le Ragionerie Municipali potrebbero effettuare con estrema semplicità.
Per quanto riguarda i tempi “tecnici”, lo ritengo un falso problema perché si potrebbero utilizzare i fondi già presenti alla voce economica del nuovo servizio, in attesa che tali fondi venissero reintegrati con il trasferimento sopra descritto.
È una questione di volontà e, a parer mio, di comprendere la specificità dei servizi erogati in favore delle persone, che non possono essere equiparati ad altre funzioni dell’Ente Locale. Qui parliamo delle vite delle persone, del loro bene-essere, del superamento delle barriere che non permettono di godere pienamente dei propri diritti. Un irrigidimento di queste procedure rappresenta plasticamente proprio quella prospettiva oppressiva del Servizio Sociale che, a livello di comunità professionale, si sta approfondendo in questi tempi così critici per il nostro sistema di welfare.
L’Ordine Nazionale degli Assistenti Sociali (CNOAS) ha aperto infatti una seria riflessione su quella che dovrebbe essere, al contrario, una prospettiva anti-oppressiva ovvero un approccio da parte dell’assistente sociale che possa rappresentare un’importante opportunità per la promozione di politiche, interventi e pratiche nei servizi sociali, autenticamente orientati a promuovere la giustizia sociale.
Il Servizio Sociale viene definito, a livello internazionale, come «disciplina e professione chiamata a promuovere la giustizia sociale e la liberazione delle persone da forme di discriminazione e oppressione, favorendo l’esigibilità e il riconoscimento dei diritti e individuando gli interventi degli assistenti sociali a livello micro e macro come inscindibili (IFSW-International Federation of Social Workers e IASSW-International Association of Schools of Social Work, 2014).
Il Codice Deontologico, nella sua versione del 2020, affronta il tema dell’oppressione in due articoli, il 28 e il 47, facendo riferimento a diversi tipi di violenza e discriminazione che la professione si impegna a contrastare, sia per focalizzare l’attenzione sul fronte organizzativo nel quale gli assistenti sociali agiscono, rischiando di partecipare alla riproduzione di forme di oppressione istituzionale. Sono i princìpi che guidano gli attuali orientamenti maggiormente condivisi nella letteratura professionale che si concentra sull’importanza di un Servizio Sociale che metta al centro la relazione di fiducia e scambio con le persone e sulla necessità di includere interventi in grado di incidere sulle strutture sociali e i processi culturali alla base delle disuguaglianze.
La letteratura empirica e l’esperienza sul campo ci mostrano, tuttavia, una realtà nei servizi piuttosto differente. Nel primo numero del 2023 della «Rivista di Servizio Sociale», Elena Allegri e Mara Sanfelice affermano: «Carenze relazionali e comunicative, frammentazione dei percorsi di cura, accesso diseguale alle risorse in diversi territori, uno storico disinvestimento nel nostro sistema di welfare sul servizio sociale, diverse criticità nella formazione di base degli assistenti sociali sembrano variabili che convergono nel compromettere la possibilità del servizio sociale di farsi agente di cambiamento sociale e struttura societaria per promuovere una società inclusiva. Il servizio sociale orientato da un approccio anti-oppressivo dovrebbe innanzitutto affrontare il modo in cui i sistemi sociali e di welfare perpetuano forme di disuguaglianza e oppressione che impattano sulla vita quotidiana delle persone e, in secondo luogo, dovrebbe attivare interventi che contribuiscano a un cambiamento positivo a vari livelli di interazione. Tale prospettiva si è sviluppata con l’obiettivo di contribuire a contrastare forme di oppressione e disuguaglianza sociale nei confronti di individui, gruppi e comunità; tuttavia, la sua traduzione in pratica incontra barriere a diversi livelli, radicate anche nei processi che influenzano la definizione del ruolo e delle funzioni degli assistenti sociali nei sistemi di welfare».

Come ho avuto modo di dire in Campidoglio il 5 febbraio scorso, in occasione di un evento sul “Budget di salute”, è necessario un profondo ripensamento del senso e del valore del Servizio Sociale alla luce delle nuove acquisizioni in campo di disabilità, nella direzione tracciata dal documento presentato dal CNOAS al recente G7 su Inclusione e Disabilità, un testo dal titolo Assistenti sociali e disabilità – La nostra posizione in dieci punti, dove si afferma, tra l’altro, che «l’assistente sociale riconosce la centralità e l’unicità della persona in ogni intervento; considera ogni individuo anche dal punto di vista biologico, psicologico, sociale, culturale e spirituale, in rapporto al suo contesto di vita e di relazione». Da queste premesse derivano, ad esempio, il passaggio dall’assistenza ai diritti, la valutazione con e non sulla persona e, in definitiva il necessario ripensamento dei servizi.

Ultimo punto che vorrei qui evidenziare – e ce ne sarebbero tanti altri che per motivi di spazio non affronteremo in questa sede – è proprio quello relativo al citato “Budget di salute” (ora “Budget di progetto”, secondo il Decreto Legislativo 62/24). Questa metodologia viene esplicitamente prevista, nella Regione Lazio, all’articolo 53, comma 5 della Legge Regionale 11/16 (Sistema integrato degli interventi e dei servizi sociali della Regione Lazio), che afferma: «La Regione, al fine di dare attuazione alle indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sui “determinanti sociali della salute” e alle relative raccomandazioni del 2009 […], adotta una metodologia di integrazione sociosanitaria basata su progetti personalizzati sostenuti da budget di salute, costituiti dall’insieme di risorse economiche, professionali e umane necessarie a promuovere contesti relazionali, familiari e sociali idonei a favorire una migliore inclusione sociale del soggetto assistito…» [sottolineato dell’Autore, N.d.R.]».
Se i Servizi Territoriali del Lazio avessero dato seguito a questa normativa (quindi si possono non applicare le leggi?) il problema che abbiamo presentato all’inizio non si sarebbe neanche presentato.
Quanti anni sono che si studia questa metodologia, quanti corsi di formazioni, quanti convegni, quante sperimentazioni, quanta bibliografia dobbiamo ancora leggere, per cominciare a tradurre tutta questa teoria in prassi? Fabrizio Starace nel 2011, nel libro da lui curato Manuale pratico per l’integrazione sociosanitaria. Il modello del Budget di salute, presentava nella Parte seconda le sperimentazioni positive fatte in Campania e in Friuli Venezia Giulia. Avete capito bene, nel 2011, 14 anni fa, in due Regioni erano terminate le sperimentazioni del “Budget di salute”! Per parte sua, la Regione Lazio ne ha effettuata una nell’ASL RM6, terminata, con la consegna di una relazione finale, nel gennaio 2020. Che fine ha fatto? Altri cinque anni sono passati, lasciando tutto com’era.

Non è più tempo di procrastinare, accampare scuse, scaricare la responsabilità su altri. A livello normativo, sia nazionale che regionale, appare chiaro che il “Budget di salute” rappresenta una scelta ineludibile quando si definisce un progetto personalizzato: si veda, per tutte, la Legge 77/20, il già citato Decreto Legislativo 62/24 e, per la Regione Lazio, la pure citata Legge Regionale 11/16.
In questa sede è solo il caso di riportare un paragrafo del Decreto Legislativo 62/24, la cosiddetta “Riforma della Disabilità”, dove viene detto: «Il budget di progetto è caratterizzato da flessibilità e dinamicità al fine di integrare, ricomporre, ed eventualmente riconvertire, l’utilizzo di risorse pubbliche, private ed europee». È proprio di questa flessibilità e dinamicità che c’è bisogno nei servizi territoriali di Roma Capitale, per non rendere vane le dichiarazioni di princìpi che ogni giorno sentiamo ribadire.

Ma se io avessi previsto tutto questo… Avrei scelto comunque di fare l’assistente sociale, proprio per promuovere la giustizia sociale e la liberazione delle persone da ogni forma di discriminazione e oppressione!

*Assistente sociale, consulente dell’AIPD di Roma (Associazione Italiana Persone Down), vicepresidente del Comitato I.SO.LA. (Comitato per l’Integrazione Socio-Sanitaria nella Regione Lazio). Gli interessati, come singoli o come organizzazione, a portare avanti i temi trattati nel presente contributo di riflessione, possono contattare lo stesso Comitato I.SO.LA., scrivendo a comitato.isola.lazio@gmail.com.

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Indizione, ai sensi dell’articolo 554 del decreto legislativo n. 297/1994 e dell’ordinanza ministeriale 23 febbraio 2009, n. 21, dei concorsi per titoli per l’aggiornamento e l’integrazione delle graduatorie per l’accesso ai ruoli provinciali dei...

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“For All”: un progetto per rendere Roma un modello di accessibilità e inclusione

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«Rendere la Capitale un modello di accessibilità e inclusione, soprattutto per le persone con disabilità, con l’obiettivo anche di creare un modello replicabile altrove»: punta a questo “For All – Roma una città fruibile per tutti”, progetto realizzato con il contributo del Fondo Carta Etica di UniCredit, e con la Federazione FISH quale capofila, in partenariato con l’ANFFAS Nazionale, la FAIP, Pedius, il Consorzio La Rosa Blu e MAV Formazione, che vivrà il 22 aprile il proprio lancio ufficiale, durante un evento online

Come anticipato nei giorni scorsi, riferendo della fase formativa dell’iniziativa, il 22 aprile verrà lanciato ufficialmente il progetto For All – Roma una città fruibile per tutti tramite un evento online visibile in diretta sul canale YouTube della FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie) a partire dalle 9.
Realizzato con il contributo del Fondo Carta Etica di UniCredit, For All – Roma una città fruibile per tutti ha quale capofila la FISH, in partenariato con l’ANFFAS Nazionale (Associazione Nazionale di Famiglie e Persone con Disabilità Intellettive e Disturbi del Neurosviluppo), la FAIP (Federazione delle Associazioni Italiane di Persone con Lesione al Midollo Spinale), Pedius, La Rosa Blu (Consorzio degli Enti aderenti alla rete associativa dell’ANFFAS Nazionale) e MAV Formazione. «L’obiettivo – spiegano dalla FISH – è rendere la Capitale un modello di accessibilità e inclusione, soprattutto per le persone con disabilità, tramite un’esperienza che non si fermerà ai confini di Roma, poiché l’intento è quello di creare un modello replicabile su scala nazionale, a partire appunto dalla sperimentazione romana».

«Cuore dell’iniziativa – spiegano ancora dalla Federazione – sarà la creazione di otto percorsi pienamente accessibili, collegati ai principali snodi di arrivo e ai luoghi di interesse di Roma, tra cui le Stazioni Termini e Tiburtina, gli Aeroporti di Fiumicino e Ciampino, il Colosseo, il Foro Romano, la Via Francigena e le quattro Basiliche Papali. I siti coinvolti saranno oggetto di un’attenta mappatura e analisi per garantirne la massima accessibilità, eliminando barriere architettoniche e barriere senso-percettive. Parallelamente verrà sviluppata una piattaforma digitale, composta da un sito web e da un’app mobile, che metterà a disposizione mappe interattive, informazioni sui collegamenti accessibili tra aeroporti, stazioni e luoghi sacri, e dettagli sui servizi di mobilità come navette attrezzate, trasporti pubblici e punti assistenza. L’intero progetto, dunque, sarà accompagnato da strumenti e contenuti pensati per facilitare la fruizione turistica e culturale. Guide digitali dedicate alle diverse disabilità, paline informative lungo i percorsi, video immersivi a trecentosessanta gradi per sensibilizzare il pubblico, e ulteriori attività di formazione rivolte a operatori turistici, guide, studenti e volontari, per migliorare le competenze nell’accoglienza e nella relazione con le persone con disabilità. For All, infatti, rappresenta una progettualità ampia e strutturata, che assume particolare valore in questo anno giubilare».

«Rendere accessibile e fruibile una città come Roma – sottolinea Vincenzo Falabella, presidente della FISH – significa compiere un passo concreto verso l’attuazione dei diritti delle persone con disabilità, a partire dalla mobilità, dalla cultura e dal turismo. Il progetto For All incarna pienamente la visione di un’Italia inclusiva e accessibile, che guarda con responsabilità al futuro».

«Siamo felici di poter continuare a contribuire come ANFFAS alla promozione di turismo e cultura senza barriere in un’ottica di accessibilità universale – afferma dal canto suo Roberto Speziale, presidente nazionale dell’ANFFAS – nel pieno rispetto della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Roma diventa così un modello a cui altre città italiane ed internazionali potranno fare riferimento ai fini della piena inclusione dei cittadini e delle cittadine con disabilità».

«Siamo da sempre vicini alle esigenze del territorio – conclude Roberto Fiorini, Regional Manager Centro Italia di UniCredit -, fornendo un contributo concreto alle necessità delle comunità in cui operiamo. Il sostegno a For All è stato possibile grazie al Progetto Carta Etica che prevede una donazione della Banca del 2 per mille per ogni acquisto effettuato da parte di clienti e dipendenti UniCredit con carte di credito “Etiche”. Con questo progetto sono stati raccolti oltre 40 milioni di euro dal 2005 per sostenere circa 1.400 iniziative di solidarietà, affrontando bisogni urgenti delle comunità, come emergenze, disabilità e supporto a bambini, donne e anziani in difficoltà». (S.B.)

Per ogni ulteriore informazione: ufficiostampa@fishonlus.it.

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“Maltrattamento istituzionale” e violazione dei diritti di persone vulnerabili

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Periodicamente gli organi d’informazione diffondono allarmanti notizie di gravi violenze contro persone che vivono nelle varie tipologie di strutture residenziali, ma molto probabilmente è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno diffuso in maniera preoccupante, strettamente correlato con una serie di violazioni dei diritti a danno di persone con disturbi mentali, disabilità, anziane e/o vulnerabili: parte da questo assunto, per concentrarsi sul concetto di “maltrattamento istituzionale”, il presente approfondimento di Domenico Massano

Periodicamente – e anche in questi giorni, su queste stesse pagine – vengono diffuse dai mass media allarmanti notizie di gravi violenze contro le persone inserite in comunità alloggio o terapeutiche, in “repartini” ospedalieri, RSA, case famiglia… Pur senza voler fare improprie generalizzazioni, molto probabilmente si tratta solo della punta dell’iceberg di un fenomeno diffuso in maniera preoccupante, che è in continuità ed è strettamente correlato con una serie di violazioni dei diritti, di diversa forma e complessità, frequenti e a danno di molte di quelle persone con disturbi mentali, disabilità, anziane e/o vulnerabili, che vivono nelle varie tipologie di strutture residenziali (1).
Nel tentativo di affrontare tale problema nelle sue reali dimensioni, potrebbe rappresentare un’utile chiave di lettura ed analisi, sia per i singoli che per le organizzazioni, quella del “maltrattamento istituzionale”, concetto che ha iniziato ad emergere e ad essere utilizzato negli ultimi anni, soprattutto nell’àmbito dei servizi e degli interventi rivolti ai minori.
Secondo lo psichiatra Juan Luis Linares, professore all’Università Autonoma di Barcellona, si incorre nel maltrattamento istituzionale «quando le istituzioni sociali a cui è affidata l’erogazione di alcuni servizi falliscono nello svolgimento della loro missione, provocando danni alle persone alle quali dovrebbero servire». Linares ritiene che una delle principali cause all’origine del maltrattamento istituzionale sia il fatto che «le istituzioni incaricate di vigilare, prendersi cura e proteggere le persone sono allo stesso tempo le stesse incaricate di controllarle e vigilare sui loro comportamenti: comportamenti che la stessa istituzione si occupa di definire come idonei o non adatti» (2).
Attraverso il costrutto di maltrattamento istituzionale, Linares ha cercato di aprire uno sguardo critico sugli interventi, professionali e istituzionali, che non solo non rispondono ai bisogni delle persone, ma che spesso ne violano i diritti e causano sofferenze.

Restando nella sfera minorile, anche Aurea Dissegna, sociologa, docente universitaria e giudice onorario del Tribunale per Minori, si è posta l’obiettivo di porre in evidenza il tema del maltrattamento istituzionale, che ritiene sia «perpetrato, se pur non sempre consapevolmente e con effetti indiretti a volte imprevedibili, dalle stesse istituzioni preposte alla cura, protezione e tutela […]. Sono forme di maltrattamento sfuggente, difficili da riconoscere, rilevare e dimostrare, attribuibili a varie cause che possono di fatto approdare a disattesa e violazione, anche grave, di diritti e a forme di vittimizzazione secondaria. […] le sue espressioni sono identificabili a volte con azioni od omissioni di singole persone e professionisti coinvolti, altre volte, invece, le modalità possono essere di tipo più generale, dovute ai contesti, all’organizzazione, alle procedure, a competenze di più istituzioni che non si coordinano. […] Il maltrattamento istituzionale è un fenomeno subdolo e sommerso, che richiede (agli operatori ed alle organizzazioni) di averne consapevolezza, per essere preso in considerazione, analizzato, approfondito, definito e gestito» (3).
Secondo Dissegna, quindi, il maltrattamento istituzionale rappresenta l’esito di dinamiche sia di tipo organizzativo-istituzionale, sia di carattere professionale-personale, difficili da gestire, controllare e, a volte, anche dimostrare, ma, soprattutto, è un fenomeno di cui manca una piena consapevolezza individuale e collettiva, così come manca il coraggio di un’assunzione di responsabilità per svelarlo, affrontarlo ed indagarne le cause.

Entrambi questi contributi, pur riferendosi all’area minorile, non solo fanno emergere e definiscono un problema, quello del maltrattamento istituzionale, ma costituiscono un utile strumento di analisi e denuncia che dovrebbe e potrebbe essere utilizzato anche in altri contesti, come, ad esempio, per i servizi e le istituzioni rivolte a persone con disabilità, anziane o con disturbo psichico.
Provando a concentrare l’attenzione su quest’ultimo ambito, attraverso la chiave di lettura del maltrattamento istituzionale si possono evidenziare diverse forme di violenza e violazioni dei diritti poco visibili, riconoscibili e dimostrabili, spesso giustificate da necessità terapeutiche o semplicemente attuate “per il bene del paziente”, che si traducono in abusi di potere, in arbitrarietà delle decisioni, in dinieghi e/o concessioni discrezionali, in sottili manipolazioni o raggiri, in situazioni di trascuratezza…, violenze per certi aspetti più “morbide” e dissimulate che, però, fanno da substrato culturale, da terreno fertile e presupposto per la deriva verso altre ben più gravi ed esplicite. In campo psichiatrico, inoltre, il costrutto di maltrattamento istituzionale sembra, in parte, poter richiamare e riportare l’attenzione sul concetto di “crimini di pace”, introdotto da Franco Basaglia per offrire una chiave di lettura di tutte le violenze istituzionalizzate, anche quando discrete e coperte con la giustificazione di teorie scientifiche, compiute dai tecnici del sapere pratico, da quei professionisti che sono i «funzionari, consapevoli o inconsapevoli, dei crimini di pace che si perpetrano in nome dell’ideologia dell’assistenza, della cura, della tutela dei malati e dei più deboli» (4).

L’attualità di queste parole sembra confermata dalle considerazioni dello psichiatra Benedetto Saraceno che, nella sua “Ultima lezione” (5), titolata Trattare bene le persone (un’implicita denuncia dei maltrattamenti che invece subiscono), stigmatizzava le ipocrisie di una psichiatria che, dimentica del suo passato, delle sue lotte e delle sue conquiste, è tornata a mettere in campo «tutta la sua durezza, la sua disumanità, la violenza costrittiva di Diagnosi e Cura, la miseria dei suoi luoghi, l’arroganza dei suoi operatori o magari e semplicemente soltanto la loro impotenza», in un contesto in cui emerge una sorta di progressiva miopia dei diversi professionisti «che sembrano adattarsi alla paralisi dei servizi e soprattutto a quella dei propri cervelli» ed in cui «anche il bravo operatore è spesso la prima vittima del suo stesso servizio».

I servizi, le comunità terapeutiche e le varie strutture residenziali per la salute mentale vedono una presenza sempre più diffusa di personale formato e convinto – indipendentemente dal ruolo e dalla qualifica – che il proprio lavoro di cura abbia poco o nulla a che fare con l’apertura e la collaborazione con i diversi soggetti presenti sul territorio e con la garanzia dei diritti delle persone, ma che consista principalmente nel controllarle e confinarle a tempo indeterminato, concedendo diversi gradi di libertà a seconda del livello di condiscendenza terapeutica; nel convincerle dell’ineluttabilità di alcune scelte che le riguardano; nel contenerle occupate, moltiplicando attività, laboratori e gite; nel compilare test, diari, verbali, pieni di fredde valutazioni (6). «Il compito di queste figure intermedie sarà quindi quello di mistificare, attraverso il tecnicismo, la violenza, senza tuttavia modificarne la natura; facendo sì che l’oggetto di violenza si adatti alla violenza di cui è oggetto. [Lo psichiatra, lo psicoterapeuta, l’educatore, l’infermiere, …] sono i nuovi amministratori della violenza del potere… il loro compito, che viene definito terapeutico-orientativo, è quello di adattare gli individui ad accettare la loro condizione di “oggetti di violenza”, dando per scontato che l’essere oggetto di violenza sia l’unica realtà loro concessa» (7).
Quello ai “crimini di pace”, quindi, è un parallelo e un richiamo particolarmente calzante, che ricorda come nei diversi servizi, dipartimenti, istituzioni in àmbito psichiatrico (ma non solo), le persone continuino spesso ad essere «l’ultimo anello di una catena di violenze e di esclusioni [dalla famiglia, dal lavoro, dagli amici, dalla società…], di cui ci si continua ad illudere di non essere responsabili» (8).

È nuovamente «percepibile l’ombra del manicomio», come evidenzia un altro noto psichiatra, Giuseppe Tibaldi, denunciando chiaramente questo chiaro e progressivo depauperamento della cultura e delle pratiche che avevano portato alla riforma della psichiatria in Italia e alla chiusura dei manicomi, ricordando come «al primo posto venivano, senza esitazioni, i diritti fondamentali di cittadinanza dei pazienti (alla permanenza nel contesto sociale, alla formazione ed al lavoro, alla partecipazione alle scelte che li riguardavano, ecc.); al secondo posto poteva essere collocata l’attenzione alla storia personale, alla ricostruzione dei significati – personali e familiari – della follia. Il farmaco – e la cultura medicalizzante che si portava dietro – veniva per ultimo. Nella pratica quotidiana di molti servizi, ospedalieri e ambulatoriali, questa gerarchia di valori e di priorità, individuali e collettivi, sembra venuta meno (anche se sul piano dei documenti ufficiali, delle dichiarazioni programmatiche, nessuno mette in discussione i principi fondamentali della Riforma). Sarebbe semplicistico cercare un colpevole, cui addossare la responsabilità principale di questo depauperamento della cultura del disturbo mentale cui stiamo assistendo, come testimoni, e come attori diretti. Il depauperamento, però, c’è: la crescente importanza del farmaco e delle teorie biologiche che lo accompagnano […] corre parallela ad un minor interesse per la dimensione dei diritti di cittadinanza, come la casa, il lavoro, la qualità delle relazioni sociali».
Questo depauperamento culturale si accompagna, ed è strettamente collegato, alla presenza sempre più invasiva di una “cultura paternalistica” tra gli operatori della psichiatria di comunità italiana: «A un estremo, il paternalismo democratico dei professionisti che ritengono di essere coloro che meglio conoscono e tutelano i diritti fondamentali delle persone che loro si rivolgono (fidati, sono sicuro che questo è il trattamento, la psicoterapia, l’attività, il farmaco – la dose, la durata, la necessità di continuarlo – che va bene per te); all’altro estremo, il paternalismo autoritario di chi dice se non fai il depot, ti ricovero in TSO [Trattamento Sanitario Obbligatorio, N.d.R.]» (9).

Questa deriva culturale, questo paternalismo democratico/autoritario, accompagnato da una sorta di “buonismo operativo”, sono il contesto dove il maltrattamento istituzionale trova terreno fertile e in cui può facilmente camuffarsi spesso dietro specialismi, tecnicismi o ineluttabili scelte terapeutiche che possono rivelarsi uno scivoloso piano inclinato verso pericolose derive: «Che sia in nome della punizione o della riabilitazione, dell’assistenza o della cura, i crimini di pace vengono perpetrati sui più deboli, sugli inermi, secondo uno schema di violenza istituzionalizzata che si ripete […] il grado di violenza può variare a seconda dell’istituzione, della capacità di occultamento, del margine di gioco concesso» (10).
Pur senza prendere in considerazione cliniche, grandi strutture istituzionali o “repartini” ospedalieri (SPDC-Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura), anche solo guardando a circoscritti e apparentemente innocui osservatori, come quelli di piccole comunità terapeutiche in bei contesti territoriali, con personale qualificato (psichiatra, psicologi, educatori, infermieri, operatori socio sanitari), e, quindi, per molti aspetti forse, servizi “sufficientemente buoni”, si può constatare come questo, tuttavia, non impedisca che, per diverse ragioni, si verifichino casi che si potrebbero inquadrare nella cornice del maltrattamento istituzionale. Val la pena sottolineare il fatto che per quanto l’osservatorio delle piccole comunità possa sembrare ristretto quanto a numeri, offre sicuramente un quadro significativo poiché molti degli accadimenti coinvolgono, in quanto condivisi o, quanto meno, comunicati e conosciuti, dipartimenti e servizi invianti che a loro volta seguono centinaia di persone con, presumibilmente, modalità analoghe facendo emergere un modus operandi che se non è consuetudine, è quantomeno tollerato.

Sono molti gli episodi di maltrattamenti istituzionali occasionali o quotidiani di cui in questi piccoli contesti si possono raccogliere testimonianze: lasciare le persone nel letto sporco e/o bagnato per insegnare loro, magari incontinenti, a non “sporcare”; fare body shaming (ad esempio riferendosi ai “soliti ciccioni” parlando in équipe di persone con problematiche legate al peso anche a causa dei farmaci); buttare i “troppi libri” dalla mensola di un ospite perché “creano disordine”; somministrare la terapia al bisogno “alla prima parolaccia”, per sedare preventivamente ogni possibile lite; usare un linguaggio infantilizzante nel rivolgersi alle persone; minacciare l’interdizione o il TSO come strumenti per il consenso e l’obbedienza; violare la privacy, gestire discrezionalmente le risorse economiche, mentire o ingannare sulla somministrazione dei farmaci, chiamare o identificare le persone per diagnosi, piuttosto che per nome; ritardare o negare alcune comunicazione, informazioni, atti burocratici…; agire costantemente un paternalismo di cura e custodia stigmatizzante e spersonalizzante che non solo nega diritti, ma che inibisce o compromette qualsiasi percorso di emancipazione ed autodeterminazione.
Ci sono poi storie che procedono per anni, a volte nate da inserimenti forzati e involontari (o con un consenso estorto), sorta di deportazioni moderne sine die, dopo le quali si lavora (anche con colloqui psicologici, psichiatrici, educativi…) per convincere le persone che quella è la realtà più adatta per loro, l’unica consentita per il loro bene, condannandoli alla pratica quotidiana dell’intrattenimento spacciata come riabilitazione, e a una vita senza scopo, senza speranza e senza un altrove (11).

Ma il maltrattamento istituzionale passa anche da modalità di scrittura dei diari, delle comunicazioni o delle relazioni, in cui raramente sono riportati aspetti positivi, capacità e risorse, ma quasi solo difficoltà, criticità, episodi negativi, interpretazioni animate da stigma, sospetto, pregiudizi
Quello della scrittura potrebbe sembrare un elemento secondario, ma non è così, perché, come insegnava Victor Klemperer, la lingua non si limita a creare e pensare per noi, dirige anche il nostro sentire: «Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico» (12).

Come è evidente, tutto ciò non solo va ad alimentare all’interno dei gruppi di lavoro e dei servizi alcune dinamiche che configurano maltrattamento istituzionale, ma, soprattutto, va a costruire un certo tipo di cultura di riferimento e, come argomentava Erving Goffman, «a sviluppare una teoria della natura umana [che] razionalizza le attività, provvede un mezzo sottile per mantenere la distanza sociale dagli internati, e un giudizio stereotipato su di loro, giustificando il trattamento cui sono sottoposti» (13).
Sono dinamiche e culture pervasive e invischianti, cui è difficile opporsi, facile assuefarsi, in particolare tenendo conto di alcuni meccanismi di funzionamento delle persone in gruppo, finemente analizzati da Stanley Milgram, ossia della pericolosa capacità degli individui di rinunciare alla loro morale e umanità, anzi, «della necessità di comportarsi in tal modo al momento in cui la loro personalità individuale viene incorporata in più vaste strutture istituzionali» (14).

Il maltrattamento istituzionale costituisce, in conclusione, una criticità e un campo di doverosa considerazione, approfondimento e ricerca, strettamente correlati alla dimensione del potere insito nei servizi e del rischio di un suo abuso o di un suo uso “violante”: «Le istituzioni, gli operatori, i professionisti sono chiamati a essere consapevoli di questo rischio, perché solo se consapevoli potranno non esserne sopraffatti. Il primo passo consiste nell’aver consapevolezza (da parte di istituzioni, servizi e personale) che questo rischio non residuale esiste per poter poi passar ad individuare ed elaborare possibili interventi di fronteggiamento, per riconoscerlo, riparlo e, per quanto possibile, almeno ridurlo» (15).
In preparazione alla Conferenza Nazionale del 2023, l’Ordine degli Assistenti Sociali coraggiosamente dichiarava: «Maltrattamento e violenza istituzionale, oppressione e soppressione dei diritti, sono molto più frequenti di quanto pensiamo. Noi assistenti sociali siamo parte del sistema e dobbiamo contrastare queste forme di discriminazione e di oppressione. Il tema del potere nelle professioni è spesso rimosso, ma come Ordine abbiamo deciso di accendere un faro su ciò che facciamo e soprattutto sul come. Tutti sbagliano, ma i professionisti – noi per primi – devono essere consapevoli che hanno più responsabilità di altri. La strada è ancora lunga, noi vogliamo percorrerla per migliorare e riconoscere cosa possiamo fare per essere dalla parte di chi è più debole. Speriamo di non essere i soli ad intraprendere questo percorso» (16).
Tale sincera analisi e presa di consapevolezza dovrebbe tradursi in una sollecitazione e contaminazione positiva di altri ordini, istituzioni e professionisti, in modo tale che, congiuntamente, si inizi ad analizzare e affrontare il tema del maltrattamento istituzionale nei diversi servizi e ambiti di intervento (psichiatria, persone con disabilità, anziane…), ponendosi anche una scomoda domanda, ossia se si tratti di un problema superabile o che vi è connaturato e quindi tale da richiedere un radicale cambiamento dell’intero sistema.
In questo cammino complesso e avvolto nell’oscurità dell’indifferenza e dell’inconsapevolezza, è opportuno conservare «un pensiero sensato, ed un agire ad etica minima ispirato» (17) e, soprattutto, tenere come faro le parole e i contributi sempre attuali di Basaglia: «Analizziamo pure il mondo del terrore, il mondo della violenza, il mondo dell’esclusione, se non riconosciamo che quel mondo siamo noi – poiché siamo le istituzioni, le regole, i principi, le norme, gli ordinamenti e le organizzazioni – se non riconosciamo che noi facciamo parte del mondo della minaccia e della prevaricazione da cui il malato si sente sopraffatto, non potremo capire che la crisi del malato è la nostra crisi» (18).

*Pedagogista, curatore tra l’altro, insieme a Simona Piera Franzino, della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità in CAA (Comunicazione Aumentativa Alternativa). Il presente approfondimento è già apparso in Persone e Diritti.it e viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

Note:
(1) Si vedano ad esempio: M. Palma, Garante Nazionale dei diritti delle persone private della liberta, Relazione al Parlamento 2023 (e anni prec.); A Buon Diritto, Rapporto sullo stato dei diritti in Italia (Persona e disabilità – Salute mentale); B. Saraceno, I “nuovi” manicomi, 2023; Monitorare le strutture dove vivono persone con disabilità, in «Superando.it», 9 gennaio 2025.

(2) L. Linares, in Il maltrattamento istituzionale dei minorenni, Alpes Italia, 2023.
(3) A. Dissegna, Maltrattamento istituzionale, FrancoAngeli, 2022.
(4) F. Basaglia, F.O. Basaglia, Crimini di pace. Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti all’oppressione, Einaudi, 1975.
(5) L’ultima lezione: trattare bene le persone, Lectio Magistralis di Benedetto Saraceno pronunciata a Torino il 25 gennaio 2024.
(6) M. Benasayag, Funzionare o esistere?, Vita e pensiero, 2019.
(7) F. Basaglia, Le istituzioni della violenza, in Scritti (1953-1980), Il Saggiatore, 2017.
(8) F. Basaglia, Appunti di psichiatria istituzionale, in Scritti (1953-1980) cit.
(9) G. Tibaldi, Introduzione a Indagine su un’epidemia, di R.  Whitaker, Giovanni Fioriti Editore, 2013. Si veda anche G. Tibaldi, Il gioco vale la candela?, in «Rivista Sperimentale di Freniatria», vol. CXL, n. 2, 2016.
(10) D. Di Cesare, Tortura, Bollati Boringhieri, 2016.
(11) B. Saraceno, L’ultima lezione: trattare bene le persone cit.
(12) V. Klemperer, LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, Giuntina, 1998.
(13) E. Goffman, Asylums, Einaudi, 1961.
(14) S. Milgram, Obbedienza all’autorità, Bompiani 1975.
(15) A. Dissegna, Maltrattamento istituzionale, cit.
(16) CNOAS (Consiglio Nazionale Ordine Assistenti Sociali), Con le vittime, sempre, 2023.
(17) F. Rotelli, Quale psichiatria? Taccuino e lezioni, Alphabeta, 2020.
(18) F. Basaglia, Crisi istituzionale o crisi psichiatrica?, in Scritti (1953-1980) cit.

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“Info Point”, ovvero L’accessibilità è un diritto per tutte le persone con disabilità

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Grazie a “Info Point”, progetto dell’ANFFAS Nazionale, alcuni celebri luoghi romani di cultura hanno potuto dotarsi del bollino di “Sito Accessibile For All”, acquisendo accessibilità “universale”, non solo, quindi, legata all’abbattimento delle barriere architettoniche, ma anche di quelle senso-percettive e culturali, in piena attuazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità

Grazie al progetto dell’ANFFAS Nazionale (Associazione Nazionale Famiglie e Persone con Disabilità Intellettive e Disturbi del Neurosviluppo) denominato Info Point, l’accessibilità ad alcuni celebri luoghi romani di cultura diviene “universale”: non solo, quindi, abbattimento delle barriere architettoniche, ma anche di quelle senso-percettive e culturali, in piena coerenza e attuazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Si parla, in questa prima fase, della Keats and Shelley House, del Colosseo, della Domus Aurea, del Palatino, del Foro Romano, delle Industrie Fluviali, di Villa Farnesina, di Palazzo Colonna e della Galleria Colonna, oltreché di Come un Albero Museo Bistrot, di Explora-Museo dei Bambini e del Teatro Basilica.
«È grazie alla collaborazione della nostra Associazione e di tutti quei luoghi di cultura – spiegano dall’ANFFAS – che è stato possibile – nell’arco dei diciotto mesi del progetto attuato grazie ad un finanziamento avuto nell’àmbito del progetto NGEU (Next Generation EU), attraverso i fondi destinati al PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) – poter analizzare la situazione di fatto nella quale tali siti già garantivano un sufficiente grado di accessibilità, soprattutto in termini di abbattimento delle barriere architettoniche, e individuare tutte quelle azioni migliorative che, appunto, potessero loro consentire di acquisire il bollino di Sito Accessibile For All. Tutto questo si è realizzato grazie ad un selezionato gruppo di persone con disabilità intellettive e del neurosviluppo con impedimenti anche motori e di altra natura, che andando a visitare musei, teatri ecc., accompagnati da alcuni operatori nella funzione di facilitatori, si sono incaricati di individuare e suggerire tutti quegli accorgimenti che potessero, appunto, far sì che gli spazi culturali coinvolti potessero valutare di migliorare la propria accessibilità in senso “universale”. Si può affermare che i risultati abbiano superato le attese e questo anche grazie alla sensibilità e alla collaborazione dimostrata dai responsabili e dagli operatori dei siti di cultura interessati».

I risultati del progetto, dunque, sono oggi visibili a tutti e tutte all’interno di un database costruito ad hoc nel sito dedicato. Allo stesso tempo è stato predisposto un portale specifico per formare gli operatori dei luoghi di cultura sui nuovi concetti di accessibilità universale e su come introdurre ed utilizzare al meglio il linguaggio “facile da leggere e da capire” (Easy to Read) e la CAA (Comunicazione Aumentativa Alternativa), ma anche sulle modalità di accoglienza e gestione delle persone con disabilità ad alta complessità. Oggi, quindi, è disponibile un primo elenco di musei statali, musei privati e teatri le cui descrizioni, oltre alle classiche brochure cartacee o note inserite sui vari siti, sono tradotte sia in linguaggio Easy to Read che in CAA. E la citata piattaforma formativa, oltreché per gli operatori dei luoghi di cultura, si è rilevata assai utile anche per i facilitatori, per i familiari e/o volontari, e per le stesse persone con disabilità.

«Questo progetto – aggiungono dall’ANFFAS – assume particolare rilevo se si pensa che il completamento di esso è pressoché coincidente con l’avvio dell’Anno Santo e, quindi, con una imperdibile occasione per promuovere ulteriormente la cultura dell’accessibilità universale e fornire una formazione apposita sul tema di essa a tutti i soggetti interessati. Tra l’altro i luoghi di cultura la cui accessibilità è stata verificata dai nostri referenti e il cui personale abbia completato il previsto percorso formativo, possono oggi fregiarsi, come detto, del logo Sito Accessibile For All che ne attesta e garantisce la piena accessibilità. Un vero e proprio Plus che potrà essere di interesse per tutti gli altri siti sia della Capitale che delle altre città italiane». A tal proposito, l’ANFFAS Nazionale si dichiara sin da subito disponibile a collaborare con i luoghi di cultura dell’intero territorio nazionale e invita i referenti di musei, biblioteche, teatri e altre strutture culturali a contattare la propria sede nazionale (nazionale@anffas.net), «ai fini – viene detto – di rendere totalmente accessibile il nostro intero patrimonio culturale e poter esporre il logo di Sito Accessibile For All».
«Quest’ultimo – concludono dall’Associazione a proposito del logo – testimonia infatti l’impegno dei siti di interesse culturale nel promuovere e applicare concretamente i concetti dell’accessibilità universale e consentirà al pubblico di avere consapevolezza e certezza di visitare un luogo che non presenta barriere architettoniche e senso-percettive, garantendo anche il diritto alla fruizione delle relative informazioni per le persone con disabilità intellettive e del neurosviluppo e per tutti coloro che ne potranno avere indubbio beneficio. Il tutto in contesti in cui l’intero personale è adeguatamente formato e informato sulle varie forme di disabilità e sulle diverse necessità di sostegno e di relazione». (S.B.)

Per ogni ulteriore informazione: comunicazione@anffas.net.

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