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Gli albini non sono più fenomeni da baraccone, ma quali sono le nuove sfide?

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«Tanti passi sono stati fatti in termini di inclusione delle persone albine in Italia – scrive Roberta Terra, promotrice del blog “Nero su Bianco” -, ma altri se ne possono fare per rendere il mondo un posto migliore. Ricordando che le mobilitazioni più efficaci sul tema della disabilità sono state fatte grazie alla popolazione che vive una determinata condizione in prima persona, in quanto conosce le proprie esigenze e limitazioni quotidiane» Roberta Terra

In occasione dell’ormai prossima Giornata Internazionale dell’Albinismo, che cade ogni anno il 13 giugno, è importante a porre l’attenzione sui numerosi passi avanti che sono stati fatti negli anni (e nei secoli) in termini di “normalizzazione” di questa condizione, ma anche sulle rimanenti lacune da colmare e su quelli che possiamo definire come i nuovi “circhi” di oggi, in riferimento alla triste spettacolarizzazione delle persone albine all’interno dei tendoni tra fine Ottocento e fino alla metà del secolo scorso.
Sono convinta che dal passato, soprattutto se difficile, possiamo fare solo una cosa giusta e cioè imparare. Non è necessario dimenticarlo né negarlo, ma piuttosto tenere a mente gli errori commessi per non ripeterli, anzi, utilizzare quella sofferenza per porci in una condizione migliore.

A partire dalla seconda metà del XIV secolo e fino agli Anni Cinquanta del secolo scorso si diffuse una macabra moda, il fenomeno dei cosiddetti freak show, spettacoli circensi che radunavano diversi personaggi con caratteristiche anomale (spesso dovute a disabilità), per fare divertire il pubblico con la loro sola presenza e con i classici numeri da circo.
Una sorta di “fiera del bizzarro”, dove ovviamente erano presenti anche gli albini, merce più che rara da trovare. Oltre alla ridicolizzazione del diverso, già di per sé biasimevole, aggiungiamo le condizioni di lavoro disagiate e la poca attenzione alle esigenze di queste persone.
Ne parlo approfonditamente nel mio blog (Nero su Bianco), nato proprio per diffondere la consapevolezza sulla condizione genetica rara dell’albinismo, dal momento che anch’io sono albina.

I tempi dei circhi e dei freak show ce li siamo fortunatamente lasciati alle spalle, ma cosa rimane oggi di quella mentalità, che sbarra gli occhi di fronte al diverso e non riesce ad accoglierlo dentro di sé?
Parlando di spettacolo e di spettacolarizzazione, il fascino estetico dell’albinismo continua a persistere e da una parte lusinga chi riceve attenzioni e complimenti per i suoi capelli candidi e la sua pelle diafana, incantando dall’altrafotografi, parrucchieri, make up artist e anche pittori e registi che vorrebbero plasmare la nostra immagine a loro piacimento.
Ma quale tipo di immagine? Che tipo di rappresentazione ne esce? La moda, il cinema, così come tutte le forme d’arte, contribuiscono in maniera silente ma potentissima a formare e ad influenzare l’opinione pubblica (molto più di queste mie parole e di quelle che porto sul blog o sui miei canali social). Se la gente continua a vedere immagini di albini che impersonificano o angeli o diavoli, come potrà mai pensare che siamo persone normali? Inconsciamente si instilla l’idea che l’albino è “freak”. Inoltre, se restiamo ancora un attimo nel mondo dello spettacolo, è necessario tenere conto del fatto che esiste un backstage prima di vedere il personaggio in scena. Questo backstage dovrebbe includere una grande attenzione a quelle che sono le esigenze delle persone albine.
La dico in modo più semplice e diretto: se vuoi una modella o un modello albini o la comparsa albina, non puoi buttare questa persona sotto il sole per un’ora impedendogli di mettere la crema solare perché “se no poi si rovina il trucco”, e non puoi chiedergli di leggere a distanza senza studiare un metodo alternativo per fargli pronunciare quella frase. Né puoi dargli indicazioni per raggiungere un posto solo in auto…
Questi sono solo alcuni dei pochi esempi che si possono fare riguardo alle esigenze degli albini, a maggior ragione quando si trovano su un set o in uno studio fotografico: il trucco e le luci possono causare fastidio alla persona albina, e non si possono ignorare nemmeno le sue problematiche visive importanti.

Gli albini oggi fanno rete ed è proprio ad una community, quella di Albini in Italia, che mi sono rivolta per raccogliere le sensazioni che provano oggi le persone albine, nel nostro Paese.
Il quadro che ne emerge è quello di una ancora presente insistenza (e altrettanta maleducazione) delle persone nel porre domande invadenti alle persone albine: «Ma signora, come mai tinge i capelli a suo figlio così piccolo?», oppure «Piccolo, hai paura? Perché ti tremano gli occhi?».
A volte la curiosità dei passanti si manifesta con sguardi fissi e frasi bisbigliate all’orecchio del vicino, con tanto di mano semichiusa a conca davanti alla bocca, altre volte le persone esprimono il loro disagio di fronte ad una persona albina, conversando ad alta voce sull’albinismo (o sulle sue caratteristiche) davanti all’interessato, ma senza rivolgergli la minima parola.
È una situazione che, per usare un termine della generazione Z, definirei cringe, termine che rende molto l’idea del mix di stranezza e imbarazzo.
Dall’altro lato sia genitori di bambini albini che albini adulti lamentano difficoltà di tipo burocratico-amministrativo, in tutta quella serie di fasi e passaggi in cui il fenomeno dello scaricabarile è ampiamente, seppure inconsciamente, praticato, e chi ne paga le conseguenze è appunto il soggetto albino. Se negli Anni Cinquanta e Sessanta alcuni albini frequentavano gli istituti per ciechi o imparavano ad utilizzare il Braille, oggi i tempi sono cambiati. Gli studenti con albinismo si avvalgono dell’aiuto dell’insegnante di sostegno e di diversi ausili informatici digitali per studiare con maggiore facilità, ma dall’altra parte permangono altri problemi, forse un tempo ritenuti collaterali, ma che in realtà sono di primaria importanza. Non dimentichiamoci, infatti, che gli albini non sono solo ipovedenti, ma i loro occhi hanno anche una scarsa tolleranza alla luce, e spesso le aule delle scuole o dei luoghi di lavoro non sono adeguate ad accogliere richieste di questo tipo, come quella di poter oscurare i vetri con delle tende, in modo che non ci sia un’illuminazione eccessiva per gli occhi dell’alunno albino, ma che allo stesso tempo non ostacoli la visione al resto della classe.
Un’altra questione è quella della consapevolezza del concetto di “ipovisione” anche nei luoghi pubblici, negli studi medici, negli ospedali, nelle sedi comunali ecc., che sono magari sufficientemente adeguati per i ciechi, ma non per gli ipovedenti; in questi casi basterebbero informazioni più chiare e con scritte più grandi.
Una cosa che però noto tristemente è la disparità sul territorio nazionale, per quanto riguarda le procedure di richiesta e alcune agevolazioni per chi parte da una condizione di svantaggio: ci sono infatti notevoli differenze non solo da una Regione all’altra (a volte mancano degli standard o non vengono sempre rispettati), ma anche da un Comune all’altro. Parlo ad esempio dell’annosa questione delle creme solari (alcuni albini le ricevono gratuitamente, altri no), ma anche delle disponibilità di figure e fondi per i percorsi di psicomotricità per bambini piccoli e di terapia visiva.
Se vogliamo fornire ancora un esempio, anche i mezzi pubblici (indispensabili per chi la patente non la prende per disabilità e non per scelta) non sono gratuiti per tutti, ci sono delle differenze a livello regionale che pongono il paziente nella condizione di chiedersi «Perché lui sì e io no?».

Per concludere, tanti passi sono stati fatti in termini di inclusione (che è sinonimo di accettazione, comprensione, aiuto e attuazione di nuove norme) delle persone albine in Italia, ma altri se ne possono fare per rendere il mondo un posto migliore. Ricordando che le mobilitazioni più efficaci sul tema della disabilità sono state fatte grazie alla popolazione che vive una determinata condizione in prima persona, in quanto conosce le proprie esigenze e limitazioni quotidiane.

*Promotrice del blog “Nero su Bianco”.

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Il CNCA diventa Coordinamento Nazionale Comunità Accoglienti

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«Il volontariato non è solo risposta all’emergenza, ma anche costruzione quotidiana di legami, diritti e possibilità»: lo ha detto Marina Galati, subito dopo essere stata riconfermata alla Presidenza del CNCA, che da Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza è divenuto Coordinamento Nazionale Comunità Accoglienti Marina Galati è stata riconfermata alla Presidenza del CNCA

Oltre a confermare alla Presidenza Marina Galati, l’Assemblea Nazionale del CNCA, allineandosi a quanto già fatto dalla propria rete, ha anche approvato il cambio di nome da Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza a Coordinamento Nazionale Comunità Accoglienti.
«Siamo in un tempo che richiede coraggio, visione e prossimità – ha affermato la confermata presidente Galati – e il volontariato non è solo risposta all’emergenza, ma anche costruzione quotidiana di legami, diritti e possibilità. Il nostro impegno sarà quello di lavorare per sostenere il movimento delle persone e favorire la presa di parola, soprattutto giovanile, attraverso azioni di advocacy [“tutela”] e sostegno a percorsi di autorappresentanza». (S.B.)

A questo link è disponibile un testo di approfondimento. Per altre informazioni: ufficio.stampa@cnca.it.

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Ridefinire l’inclusione: le parole e le immagini per l’equità in Salute

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È possibile una nuova narrazione condivisa dell’inclusione per parole e immagini? Lo si potrà scoprire il 27 maggio a Roma, in occasione della mostra e del contemporaneo evento “Ridefiniamo l’inclusione: parole e immagini per la Health Equity, iniziativa organizzata dall’OMaR (Osservatorio Malattie Rare). La mostra ha visto dieci artisti rappresentare visivamente il concetto di inclusione a partire dal percorso introspettivo realizzato da un gruppo di persone affette da patologie ematologiche rare

È possibile una nuova narrazione condivisa dell’inclusione per parole e immagini? Lo si potrà scoprire il 27 maggio a Roma (Palazzo Merulana, Via Meruilana, 121, dalle 17), in occasione della mostra e del contemporaneo evento Ridefiniamo l’inclusione: parole e immagini per la Health Equity, ove con i termini Health Equity si parla naturalmente di “equità in Salute”, iniziativa organizzata dall’OMaR (Osservatorio Malattie Rare) e realizzata grazie al contributo non condizionante di Sobi.

«Palazzo Merulana – spiegano dall’OMaR -, museo di arte contemporanea e promotore di iniziative culturali di rilievo internazionale, ospiterà dunque questa mostra di illustrazioni realizzate da dieci artisti, tra i più apprezzati sulla scena italiana. Essi sono stati i protagonisti di un’attività creativa unica, finalizzata a rappresentare visivamente il concetto di inclusione a partire dal percorso introspettivo realizzato da un gruppo di persone affette da patologie ematologiche rare. Le opere sono nate quindi da una riflessione condivisa dal nostro Osservatorio con gli artisti, che hanno appunto tradotto in immagini le esperienze, le emozioni e i bisogni raccolti, creando dieci opere che esplorano diverse prospettive sull’inclusione. La loro diversità tecnica e di stile consente di raffigurare temi complessi con uno sguardo che promuove una rappresentazione più ricca e sfaccettata della realtà».

Da ricordare anche che durante l’evento del 27 maggio – cui è attesa la presenza tra gli altri di vari rappresentanti istituzionali – verrà presentata la pubblicazione Ridefiniamo l’inclusione, curata dall’OMaR insieme a Jacopo Casiraghi, psicologo e psicoterapeuta, coordinatore degli psicologi dei Centri Clinici NeMO (NeuroMuscular Omnicentre).

Il progetto Ridefiniamo l’inclusione: parole e azioni per la Health Equity è stato realizzato con il patrocinio di AMARE (Associazione Malattie Rare Ematologiche), della Fondazione Paracelso e della Lampada di Aladino. (S.B.)

All’evento del 27 maggio si potrà accedere solo su invito nominativo. Per ogni ulteriore informazione: Rossella Melchionna (melchionna@rarelab.eu).

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Attenzione: i diritti potrebbero diventare “rovesci”!

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«Di fronte a quello che si sente fare e dire negli Stati Uniti e in altre parti del mondo – scrive Maurizio Cocchi – ciò che occorre da parte nostra di persone copn disabilità è una costante consapevolezza che tutto quello che abbiamo ottenuto in questi anni di impegno e di lotta, l’abbiamo ottenuto grazie alla democrazia, alla libera stampa e alla piena circolazione delle idee. In altre parole, i nostri diritti non piovono dal cielo, li abbiamo ottenuti noi, ma solo grazie al fatto di poter vivere nella democrazia e nella civiltà» René Magritte, “Golconda”, 1953, Menil Collection, Houston, Texas (USA)

Come sarebbe se un giorno ci svegliassimo accorgendoci che non siamo più persone con disabilità, ma una massa informe di “storpi”, “orbi”, “sordomuti”, “scemi” e “mongoloidi”? In fondo la disabilità, questa bella definizione di “Persone con disabilità”, è solo un costrutto giuridico, creato per tutelarci e per dare dignità alla nostra presenza nel mondo, ma anche un ruolo attivo nella società, che mette in campo politiche per aiutarci e per far sì che noi restituiamo quanto ricevuto, attraverso il lavoro, contribuendo al sostegno dei consumi, a rendere più empatica e gradevole l’intera società…

A sentire però due degli esseri umani più potenti della terra, Donald Trump ed Elon Musk, sembra proprio che se i disabili scomparissero, sia di nome che di fatto, non sarebbe un gran danno!
Si ha notizia, ad esempio, che l’attuale presidente degli Stati Uniti, già a partire dal 2015, durante un comizio, abbia sbeffeggiato un giornalista per la sua disabilità. Nel 2024, poi, aveva affermato che la sua avversaria nella corsa alla Casa Bianca, Kamala Harris, sarebbe stata «una disabile mentale»; in quel caso, volendo offendere la vicepresidente degli Stati Uniti, aveva reso esplicito il suo pensiero verso questo tipo di disabilità. Ancora più recentemente, poi, a ribadire il disprezzo per le persone con disabilità intellettiva ci sono state le sue dichiarazioni in seguito ad un disastro aereo avvenuto nell’aeroporto di Washington: «Biden e Obama hanno assunto come controllori di volo persone non qualificate e con disabilità fisiche e psichiche» [se ne legga anche sulle nostre pagine, N.d.R.].
Il presidente Trump, per altro, non si è limitato ad esibire le proprie “opinioni”, ma ha messo in atto una serie di politiche tese a diminuire l’impegno della propria Amministrazione a favore dell’inclusività, attraverso pesanti tagli ai finanziamenti pubblici in favore di varie istituzioni, compreso il sistema scolastico pubblico.

Elon Musk, invece, ha dichiarato di «avere la sindrome di Asperger», quindi è un disabile. Già, un disabile che mal sopporta gli altri disabili, di qui l’uso del termine “ritardato” per definire la disabilità intellettiva, facendo ritornare indietro l’orologio del progresso di molti anni. Stesso ragionamento per il suo atteggiamento derisorio nei confronti di un dipendente di Twitter affetto da distrofia muscolare [di questo Musk si era successivamente scusato, N.d.R.].
Sempre per ciò che riguarda Twitter – oggi X -, molto più concreto e significativo è stato lo smantellamento dello staff adibito al controllo dell’accessibilità della piattaforma, in dispregio totale delle persone con disabilità con problemi ad utilizzare quel social media.

Si potrebbe dire che questo, in fondo, non sarebbe niente, trattandosi di idiosincrasie dovute al carattere dei personaggi, con effetti tutto sommato limitati e circoscritti a pochi àmbiti, per quanto incivili. Ciò che invece ci deve allarmare di più sono le decisioni generali di sistema compiute finora dall’Amministrazione Trump. Ad esempio l’uscita dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), che salvo cambiamenti, allo stato attuale dei fatti gli Stati Uniti attueranno dal 22 gennaio del prossimo anno. Poi l’annuncio di uscire dal Consiglio ONU per i Diritti Umani [l’Amministrazione Trump ha firmato in febbraio un ordine esecutivo in cui richiede appunto una rivalutazione dell’impegno degli Stati Uniti all’interno del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, N.d.R.] e non ultima anche l’intenzione di uscire dall’Unesco, come era già accaduto nel 2019, salvo poi il rinetro degli Stati Uniti in tale Ente con l’Amministrazione Biden.

In generale, dunque, assistiamo ad un crescente disprezzo per tutti gli organismi internazionali, compresa la Corte di Giustizia dell’Aia, ma non solo da parte degli Stati Uniti, bensì anche di molti altri Paesi che sentono le normative internazionali e, più in generale, i vincoli di legge, come un freno alle loro mire espansionistiche, se non addirittura avendo il desiderio di cancellare o sminuire quei sistemi di diritti faticosamente raggiunti nel corso degli anni e concretizzati nelle stesse normative internazionali.
A riprova di come queste ultime siano considerate un impaccio, un freno alle libertà nazionali e non una crescita di civiltà per tutti i Paesi, si può pensare anche a tutti i “mal di pancia” suscitati dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Anche trascurando i “soliti” Stati Uniti, il cui Senato non ha ratificato il documento perché avrebbe leso la sovranità nazionale, Paesi importanti e di grande civiltà come il Regno Unito, la Francia e la Danimarca, oltre a molti altri, hanno approvato la norma internazionale con riserva, mettendo in discussione soprattutto quei passaggi che tutelano la libertà e l’incolumità dei pazienti psichiatrici.

Come si vede, l’impalcatura che sorregge il concetto di “disabile” è molto precaria e basta un leggero “vento dittatoriale” per farla crollare rovinosamente.
Evidentemente non si tratta di ridurre o di far tacere le nostre battaglie, ciò che occorre da parte nostra è una costante consapevolezza che tutto quello che abbiamo ottenuto in questi anni di impegno e di lotta, l’abbiamo ottenuto grazie alla democrazia, alla libera stampa e alla piena circolazione delle idee. In altre parole, i nostri diritti non piovono dal cielo, li abbiamo ottenuti noi, ma solo grazie al fatto di poter vivere nella democrazia e nella civiltà.
Chi può dare il proprio contributo sul lavoro, aiutare per quanto possibile gli altri, rispettare e comprendere chi ci aiuta, sostenere chi ha più problemi di noi, lo faccia, senza nascondere paure e pigrizie dietro la disabilità. E quando c’è una manifestazione per la pace, la democrazia, il sostegno ai popoli oppressi, la libertà, mettiamoci in prima fila, magari verificando di non essere presi in giro.

*Consulente di impresa per il Terzo Settore, persona con disabilità.

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Pubblicazione Bollettini movimenti del personale docente di ogni ordine e grado della provincia, a.s. 2025/26

Ultime da A.T.P. Catanzaro -

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Una pubblicazione e due mostre fotografiche per promuovere una nuova idea del caregiving

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La pubblicazione “Storie di quotidiana cura. Nulla è facile niente ma niente è impossibile” e due mostre fotografiche: sono gli strumenti prodotti a conclusione della campagna “@scATTIdicura”, ideata da Cittadinanzattiva Emilia Romagna, in collaborazione con il Coordinamento regionale delle Associazioni di Malati Cronici e Rari, per promuovere una nuova idea di caregiving attraverso la fotografia Una delle immagini prodotte nell’àmbito della campagna “@scATTIdicura”

Lanciata un anno fa [se ne legga anche sulle nostre pagine, N.d.R.], la campagna @scATTIdicura ha inteso promuovere una nuova idea di caregiving attraverso la fotografia.
L’importante iniziativa è stata intrapresa nell’àmbito di La cura non è un affare di famiglia, campagna ideata da Cittadinanzattiva Emilia Romagna, in collaborazione con il CrAMC (Coordinamento Regionale delle Associazioni di Malati Cronici e Rari). In particolare, – come spiegarono, a suo tempo, dall’Organizzazione – @scATTIdicura si proponeva di rispondere ad alcune domande («Quali sono le pratiche di cura? Quali i luoghi, gli oggetti, i gesti, i dettagli della cura? Chi sono i protagonisti e le protagoniste?»), con l’intento di coinvolgere e portare all’attenzione «della Cittadinanza e delle Istituzioni il tema delle caregiver (il femminile è dovuto, perché sono in ampia maggioranza donne), ruolo non riconosciuto, né in alcun modo tutelato».
Ebbene, con le foto raccolte è stata realizzata la pubblicazione Storie di quotidiana cura. Nulla è facile niente ma niente è impossibile, e due mostre fotografiche, allestite anche con il coinvolgimento dell’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Bologna. L’infermiere nell’arte della cura e scATTIdicura, oltre i numeri c’è vita, queste le denominazioni delle due mostre, che intendono raccontare e mettere in dialogo la cura formale e quella informale.

«Da quando nel 1826 Joseph Nicéphore Niépce realizzò la prima fotografia della storia, le foto, quelle vere, custodiscono gelosamente un segreto: la capacità di risuonare nell’animo umano con profonde emozioni. In un segreto mai svelato, le immagini si rispecchiano sulle nostre storie e identità̀ e ci rimandano a pensieri e sensazioni che rivelano il nostro sguardo nel mondo – spiegano da Cittadinanzattiva Emilia Romagna –. Le fotografie della mostra fanno parte di quelle vere e che ben conoscono quel segreto. La prima annotazione è, quindi, di sostare davanti alle foto e lasciarsi sedurre da quanto appare; lasciare che il nostro “sguardo sul mondo” si attardi in ogni foto. Con quel misto di tenerezza e pudore necessario quando ci si avventura nel territorio della cura, perché i titoli già lo rivelano».
Le mostre si propongono pertanto come «un’occasione per esplorare e partecipare attivamente a una riflessione collettiva sul tema della cura», ma anche per tenere desta l’attenzione sul fatto che in Italia, come già accennato, la figura del caregiver è sempre in attesa di essere riconosciuta e tutelata (se ne legga anche a questo link).

Inaugurate il 12 maggio scorso, le due esposizioni saranno visibili fino al 30 maggio nei seguenti locali: Quadriportico di Sant’Isaia (Via Sant’Isaia, 90, Bologna); Istituto Ortopedico Rizzoli (Via Pupilli, 1, Bologna); Ospedale Santa Maria della Scaletta (Via Montericco, 4, Imola).
Sono anche previste due visite guidate gratuite alla mostra ospitata al Quadriportico di Sant’Isaia di Bologna, il 26 maggio (ore 10.30-12), e il 28 maggio (ore 16-17.30). Per partecipare è necessario prenotare attraverso l’indirizzo scattidicura@cittadinanzattiva-er.it.

L’invito ai visitatori e alle visitatrici è dunque quello «di lasciarsi toccare dalle immagini, riflettere sui temi proposti e percorrere questo viaggio con la consapevolezza che la cura, nelle sue molteplici sfaccettature, è il fondamento su cui costruire una società̀ più̀ umana e solidale». (Simona Lancioni)

Per ulteriori informazioni: Rossana Di Renzo (responsabile del Coordinamento CrAMC), scattidicura@cittadinanzattiva-er.it.
Il presente contributo è già apparso nel sito di Informare un’H-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa) e viene qui ripreso, insieme all’immagine utilizzata, con alcune modifiche dovute al diverso contenitore, per gentile concessione.

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Guida e assunzione terapeutica di sostanze: perché serve un intervento interpretativo o normativo

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La nuova disciplina sull’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope da parte di chi guida può colpire ingiustamente persone con disabilità che le utilizzano su prescrizione medica. Per questo è auspicabile un intervento interpretativo o normativo che distingua tra uso terapeutico e abuso, che introduca margini di tolleranza legati a concentrazioni-soglia clinicamente validate e che valuti la compatibilità del trattamento farmacologico con l’idoneità alla guida, piuttosto che sanzionare penalmente in automatico

Una recente Circolare congiunta del Ministero dell’Interno e di quello della Salute ha introdotto importanti novità nelle procedure di accertamento delle condizioni psicofisiche alla guida [di tale tema ci siamo già occupati sulle nostre pagine: se ne legga in calce, N.d.R.]. La Circolare riguarda le nuove modalità di accertamento del reato di guida sotto l’influenza di sostanze stupefacenti o psicotrope.
Com’è noto, la Legge 177/24 ha riformulato l’articolo 187 del Codice della Strada, eliminando il requisito dell’“alterazione psicofisica” quale elemento costitutivo del reato. La nuova fattispecie punisce dunque chi guida dopo avere assunto sostanze stupefacenti o psicotrope, qualora sia accertata – mediante analisi su sangue o fluido orale – la presenza di princìpi attivi o metaboliti attivi della sostanza, anche in assenza di un’evidente alterazione della capacità di guida. In tal senso, la Circolare chiarisce che è sufficiente la presenza nel sangue o nella saliva di sole molecole attive, senza considerare l’effettiva alterazione del soggetto. Presupposto della punibilità è che: «Occorre provare che la sostanza psicotropa sia stata assunta in un periodo di tempo prossimo alla guida, tale da far presumere che la sostanza produca ancora i suoi effetti nell’organismo durante la guida».
Viene inoltre specificato che solo la presenza nel sangue o nel fluido orale di metaboliti attivi è indicativa di una condizione penalmente rilevante. La presenza nelle urine, invece, non è sufficiente ai fini della punibilità penale, ma può rilevare per l’idoneità alla guida (articoli 128 e 119, comma 4, del Codice della Starda).

A questo punto, tuttavia, occorre rilevare che la Circolare non distingue tra assunzione a fini terapeutici ed uso illecito: infatti, ai fini della punibilità non rileva lo scopo dell’assunzione, ma solo la presenza attiva della sostanza; la temporalità prossima all’attività di guida. Questo crea una criticità giuridica e costituzionale per le persone con disabilità o patologie che assumono psicofarmaci su prescrizione medica, i cui effetti possono persistere nel sangue o nella saliva in modo cronico e controllato.
A nostro sommesso avviso, reputiamo che vi siano possibili profili di incostituzionalità o illegittimità, con particolare riguardo, ad esempio, all’articolo 3 della Costituzione (infatti la norma può discriminare indirettamente chi, per motivi di salute, assume regolarmente psicofarmaci), nonché all’articolo 32 della Costituzione stessa, perché penalizza condotte terapeutiche lecite e necessarie e anche riguardo al “Principio di offensività”, poiché la norma sanziona la mera presenza della sostanza, senza verificare l’effettiva alterazione o il pericolo per la circolazione.
L’assenza, infatti, di una soglia quantitativa o di limiti oggettivi nella rilevazione delle sostanze attive, amplia eccessivamente la discrezionalità applicativa. La mera presenza, anche minima, di una sostanza nel sangue – eventualmente dovuta a terapie regolari e non alteranti – non consente pertanto una valutazione proporzionata della pericolosità della condotta, cosicché le persone con disabilità e patologie croniche che necessitano dell’assunzione regolare di psicofarmaci (antiepilettici, ansiolitici, antidepressivi) si trovano esposte a un rischio oggettivo di incriminazione, pur in assenza di comportamenti pericolosi. L’effetto è una disparità di trattamento indiretta rispetto ad altri soggetti, con un potenziale impatto sulla libertà di circolazione e sulla loro piena partecipazione alla vita sociale e lavorativa.
E ancora, la Circolare ammette che i metaboliti attivi sono rilevabili “solo per alcune ore” nel sangue o nella saliva, variabili in base all’emivita della sostanza. Tuttavia, molti farmaci (ad esempio benzodiazepine, antiepilettici) usati in modo cronico mantengono concentrazioni residue stabili, anche in assenza di effetti negativi reali sulla guida.

La nuova disciplina, dunque, pur coerente con l’obiettivo europeo di Vision Zero [progetto di sicurezza stradale che mira a eliminare tutti i decessi e le lesioni gravi sulla rete stradale. N.d.R.], può colpire ingiustamente persone che non rappresentano un rischio reale per la sicurezza stradale. È quindi auspicabile un intervento interpretativo o normativo che distingua tra uso terapeutico e abuso, che introduca margini di tolleranza legati a concentrazioni-soglia clinicamente validate e che valuti la compatibilità del trattamento farmacologico con l’idoneità alla guida, piuttosto che sanzionare penalmente in automatico.

*Centro Studi Giuridici HandyLex della FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie).

Del tema trattato nel presente contributo si sono già occupati in Superando i testi A proposito di quella norma del Codice della Strada riformato e di quella recente Circolare Ministeriale di Giovanni Battista Pesce (disponibile a questo link) e Un importante passo avanti con quella Circolare Ministeriale (disponibile a questo link).

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“Storie sulle dita – Alberi”, una mostra ad Ariccia da vedere, toccare, annusare e ascoltare

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«Un’esposizione unica e accessibile, un viaggio multisensoriale coinvolgente, apprezzato sia dai visitatori che vedono, sia da quelli che non vedono»: sarà questo l’esposizione accessibile sulla natura intitolata “Storie sulle dita – Alberi”, organizzata dalla Federazione Nazionale delle Istituzioni Pro Ciechi e che sarà ospitata dal 25 maggio all’8 giugno a Palazzo Chigi di Ariccia (Roma), nell’àmbito del progetto di promozione della lettura CON-TATTO: Crescere comunità che legge della Biblioteca Attiva di Ariccia

«Una mostra di libri e opere tattili, con eventi, letture, workshop, laboratori e visite guidate multisensoriali e accessibili, per dare voce alle similitudini tra la comunità naturale e quella umana, alle connessioni, alle simbiosi e alla comunicazione, ricostruendo quella possibilità di crescita comune nella biodiversità di cui gli alberi sono maestri. E al tempo stesso, una mostra laboratorio in cui sperimentare in prima persona libri e opere e mettersi in gioco nella realizzazione di elaborati che possano, nel fare, far comprendere in maniera più profonda le differenze tra le varie modalità di percezione»: viene presentata così l’esposizione accessibile sulla natura intitolata Storie sulle dita – Alberi, organizzata dalla Federazione Nazionale delle Istituzioni Pro Ciechi e che sarà ospitata dal 25 maggio all’8 giugno nei saloni del piano mezzanino di Palazzo Chigi ad Ariccia (Roma), nell’àmbito del progetto di promozione della lettura CON-TATTO: Crescere comunità che legge della Biblioteca Attiva di Ariccia, grazie al finanziamento del Cepell (Centro per il Libro e la Lettura) del Ministero della Cultura.

«Pensiamo di sapere cosa siano gli alberi – afferma Alessandra Viola, naturalista e direttore scientifico della mostra, ma questa iniziativa vuole farci scoprire chi sono. Ammiriamo infatti la loro bellezza, longevità, generosità e forza, ma molto di loro resta ancora sconosciuto. Per comprendere dunque veramente la straordinaria natura di questi giganti verdi, non basta conoscerne l’aspetto o il nome botanico; servono anche immaginazione, poesia e curiosità. Ecco perché abbiamo coinvolto artisti, per dare vita, insieme a contenuti scientifici ed educativi, alle emozioni che nascono dalla scoperta della natura».
«Creare eventi culturali inclusivi – dichiara dal canto suo Rodolfo Masto, presidente della Federazione Nazionale delle Istituzioni Pro Ciechi – è parte della nostra missione. In questo caso l’attenzione verso temi naturalistici e ambientali, esplorati sia artisticamente che educativamente, ha dato vita a un’esposizione unica e accessibile, un viaggio multisensoriale coinvolgente, apprezzato sia dai visitatori che vedono, sia da quelli che non vedono».

Saranno quindi ad Ariccia due settimane in cui verranno coinvolte le scuole, le famiglie, gli insegnanti, i centri diurni del territorio e le persone con difficoltà sensoriali insieme alle proprie comunità di riferimento, per uno scambio di competenze e abilità in un’occasione di cultura e divertimento per l’intera collettività, diffondendo al tempo stesso maggiori conoscenze sulla disabilità visiva e sensibilizzando sull’inclusione sociale.
Gli illustratori e artisti selezionati, protagonisti di una residenza d’artista lo scorso anno presso Villa Fabri a Trevi (Perugia), hanno lavorato su quattro aree tematiche (Germinazione, Crescita, Età Adulta e Il Ciclo della Vita), ognuna delle quali rappresentata da installazioni artistiche, opere tattili e laboratori artistico-educativi, accessibili a chi non può vedere e sorprendenti per tutti. (S.B.)

A questo link è disponibile il programma completo delle iniziative proposte dal 25 maggio all’8 giugno. Per ulteriori informazioni: Associazione Culturale Start (associazione.start@gmail.com).

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L’opera lirica che celebra l’inclusione attraverso l’arte

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Nato da una sinergia tra l’Accademia d’Arte Lirica di Osimo (Ancona), l’Istituto Comprensivo Caio Giulio Cesare di Osimo-Offagna e la Fondazione Lega del Filo d’Oro, con l’obiettivo di rendere la cultura accessibile e partecipata, il progetto “Opera fai da te” ha il proprio “cuore pulsante” nell’opera lirica “Una missione per due”, che debutterà il 24 e 25 maggio nella città marchigiana, con un ruolo centrale anche da parte delle persone con sordocecità e pluridisabilità psicosensoriale seguite dalla Lega del Filo d’Oro Uno dei ragazzi seguiti dalla Lega del Filo d’Oro impegnato in un laboratorio di musicoterapia

«Abbiamo accolto con entusiasmo l’opportunità di coinvolgere bambini e giovani adulti con sordocecità e pluridisabilità psicosensoriale in questa esperienza corale, in cui ciascuno può essere protagonista con le sue potenzialità. Progetti come questi rappresentano infatti un’occasione preziosa per promuovere una cultura dell’inclusione fondata sul rispetto, sull’empatia e sulla valorizzazione delle diversità: la dimostrazione di come ogni persona, con le proprie abilità e unicità, possa contribuire in modo significativo alla creazione di qualcosa di importante e condiviso»: così Rossano Bartoli, presidente della Fondazione Lega del Filo d’Oro, parla di Opera fai da te, progetto nato da una sinergia tra l’Accademia d’Arte Lirica di Osimo (Ancona), l’Istituto Comprensivo Caio Giulio Cesare di Osimo-Offagna e la stessa Fondazione Lega del Filo d’Oro, con l’obiettivo di rendere la cultura accessibile e partecipata.
E il 24 maggio, con replica domenica 25, debutterà al Teatro La Nuova Fenice di Osimo l’opera lirica Una missione per due, “cuore pulsante” del progetto Opera fai da te, uno spettacolo che coinvolge quasi 600 partecipanti tra studenti, professionisti e persone con sordocecità e pluridisabilità psicosensoriale seguite dalla Lega del Filo d’Oro. Centrale, infatti, è il ruolo di queste ultime, che hanno preso parte a laboratori di musicoterapia in cui la musica – attraverso vibrazioni, ritmo e suono – è divenuta linguaggio emotivo e ponte verso l’espressione personale. Durante lo spettacolo saranno quindi parte dell’orchestra con strumenti a percussione.

Da ricordare, infine, che nelle giornate della rappresentazione, il Teatro La Nuova Fenice ospiterà anche una mostra documentaria con materiali originali, testi, bozzetti scenografici, disegni realizzati dagli alunni dell’Istituto Caio Giulio Cesare e dalle persone della Lega del Filo d’Oro, oltre a una selezione di fotografie curate dall’Istituto Laeng Meucci di Osimo.
Successivamente l’esposizione toccherà le principali città marchigiane della musica, corredata da foto di scena e un video integrale dello spettacolo, per poi tornare a Osimo nel mese di dicembre con un ultimo spettacolo. (S.B.)

A questo link è disponibile un testo di ulteriore, ampio approfondimento. Per altre informazioni: Federica Pugliese (f.pugliese@inc-comunicazione.it); Chiara Ambrogini (ambrogini.c@legadelfilodoro.it).

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I benefìci della teleriabilitazione respiratoria in quella struttura emiliana

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Se fino ad oggi i pazienti dovevano recarsi fisicamente a Villa Pineta KOS, struttura di Pavullo nel Frignano (Modena), per ricevere le cure in regime di ricovero o day hospital, con il nuovo servizio di teleriabilitazione sono i fisioterapisti della struttura stessa ad “arrivare” nelle case, ciò che assume un’importanza ancora maggoiore dopo la pandemia da Covid. E si parla in particolare di riabilitazione respiratoria, con benefìci concreti per le persone seguite Seduta di teleriabilitazione a cura di Villa Pineta KOS

Se fino ad oggi, i pazienti dovevano recarsi fisicamente nella struttura per ricevere le cure in regime di ricovero o day hospital, con il nuovo servizio di teleriabilitazione sono i fisioterapisti di Villa Pineta KOS, struttura di Pavullo nel Frignano, in provincia di Modena, ad “accedere” nelle case, attivando vere e proprie sedute riabilitative, un’iniziativa, questa, che rappresenta un ulteriore passo verso un accesso equo e sostenibile alla riabilitazione, portando il professionista della cura direttamente al domicilio dei pazienti.
La riabilitazione respiratoria, in particolare, è un settore fondamentale della cura, per persone con BPCO (Broncopneumopatia Cronica Ostruttiva) e altre patologie respiratorie, assumendo un’importanza ancora maggiore dopo la pandemia da Covid. Grazie dunque a questo servizio online, le persone possono continuare il loro percorso riabilitativo dopo avere iniziato il trattamento in ospedale, mantenendo la continuità che è indispensabile per il miglioramento della salute respiratoria.

«La riabilitazione respiratoria – sottolinea a tal proposito Gianfranco Beghi, primario e direttore di Villa Pineta KOS – viene suggerita anche nelle recenti linee guida GOLD 2025, in quanto è indicata in tutti i pazienti con sintomi rilevanti e/o ad alto rischio di riacutizzazione, poiché migliora la dispnea, lo stato di salute e la tolleranza all’esercizio, riducendo l’ospedalizzazione tra i pazienti che hanno una riacutizzazione recente. Infine, e questo è un servizio importante della teleriabilitazione, porta a una riduzione dei sintomi di ansia e depressione collegati all’isolamento del paziente. Chiaramente l’accesso alla riabilitazione respiratoria non è limitato ai pazienti con BPCO, ma è per tutti i pazienti con malattie respiratorie e/o che abbiano problemi respiratori collegati ad altre patologie».

Attivato da poco, il servizio di teleriabilitazione è già in fase di diffusione come pratica anche tra le persone anziane e fuori della Regione Emilia Romagna. Esso vede in prima linea Claudio Beneventi e Cristina Lorenzi, che realizzano e svolgono le sedute online. «Se prima erano i pazienti a dover raggiungere la struttura – dicono -, oggi con questo progetto siamo noi fisioterapisti ad incontrarli in modo virtuale con benefìci che sono concreti. L’attività elettiva principale è quella di eseguire la riabilitazione respiratoria e prevenire i sintomi che il paziente può manifestare durante il progredire della propria malattia. Riconoscere e prevenire i sintomi è importante perché permette di prevenire una riacutizzazione. I consigli che il paziente può ricevere da operatori, medici e paramedici sono dunque essenziali al fine di gestire al meglio la patologia respiratoria». (S.B.)

Per ulteriori informazioni e approfondimenti: Deborah Annolino (d.annolino@adcommunications.it).

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La grande sfida di ampliare le opportunità lavorative per persone con disabilità intellettive e disturbi del neurosviluppo

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Il nostro approfondimento sull’inclusione lavorativa delle persone con disabilità intellettiva e disturbi del neurosviluppo appartenenti al “mondo ANFFAS” ci porta questa volta a Parma ed esattamente da Séfora, Impresa Sociale ANFFAS nata appunto con l’obiettivo di assumere direttamente e/o facilitare l’inserimento lavorativo di persone con disabilità intellettive e disturbi del neurosviluppo attraverso azioni dirette e personalizzate. Ne parliamo direttamente con Cristiana Torricella, CEO di Séfora Una delle persone seguite da Séfora

Ci conduce questa volta a Parma il nostro approfondimento sull’inclusione lavorativa delle persone con disabilità intellettiva e disturbi del neurosviluppo appartenenti al “mondo ANFFAS(Associazione Nazionale di Famiglie e Persone con Disabilità Intellettive e Disturbi del Neurosviluppo), portandoci esattamente da Séfora, Impresa Sociale ANFFAS costituita nel 2022 nella città emiliana, con l’obiettivo di assumere direttamente e/o facilitare l’inserimento lavorativo di persone con disabilità intellettive e disturbi del neurosviluppo attraverso azioni dirette e personalizzate, a sostegno sia della persona che dei contesti produttivi. Ne parliamo direttamente con Cristiana Torricella, CEO di Séfora.

Séfora è nata con l’obiettivo di ampliare le opportunità lavorative per persone con disabilità intellettive e disturbi del neurosviluppo. Quali sono le principali difficoltà che incontrate nell’inserimento lavorativo e come il vostro approccio contribuisce a superarle? Può condividere un caso concreto di successo?
«Le maggiori difficoltà derivano dal fatto che nel settore pubblico le uniche informazioni a disposizione per effettuare il dichiarato obiettivo di matching [“incontro”] tra la persona e l’azienda sono la diagnosi e la diagnosi funzionale. Quando si parla, per esempio di autismo, la diagnosi in sé non dice nulla perché lo spettro è amplissimo e conseguentemente le caratteristiche di funzionamento delle persone si differenziano all’interno di un range altrettanto ampio e diversificato.
Lo strumento della diagnosi funzionale, richiesto per l’iscrizione all’Ufficio per il Collocamento Mirato, attualmente ancora in uso – il Decreto Legislativo 62/24, infatti, ha completamente rivisto il procedimento di valutazione di base – è modellato sulle disabilità motorie e sensoriali e restituisce poco o nulla delle informazioni che invece sarebbero utili ai fini dell’inserimento lavorativo.
Nel nostro approccio “basato sull’evidenza” (evidence-based) il punto di partenza è la fase di assessment, un’attività che cerchiamo di svolgere con il massimo grado di accuratezza e che è rivolta sia alle persone che alle aziende. Per definizione, l’assessment è una valutazione finalizzata alla progettazione e questo è il secondo elemento distintivo del nostro operare, ossia una vera e propria progettazione costruita in condivisione con la persona interessata, in primis, e con tutte le principali figure di riferimento sia di àmbito pubblico che privato. In tal modo questa assume la caratteristica di una progettazione realmente personalizzata che coinvolge diversi attori chiamati a contribuire responsabilmente al raggiungimento dell’obiettivo finale.
Grazie dunque alle informazioni ricavate dalla fase di assessment, sia sugli aspetti del funzionamento che sulle aspettative e i desideri della persona, siamo in grado di mirare alla valorizzazione dei punti di forza della persona stessa, incrociando elementi valoriali (ciò che è importante per lei/lui). Questo ci permette poi di lavorare sull’acquisizione di prerequisiti, abilità trasversali e autonomie (come ad esempio imparare ad utilizzare i mezzi pubblici per recarsi al lavoro), pianificando in modo coerente i sostegni di cui la persona necessità per svolgere i compiti assegnati, differenziandoli per tipologia e intensità, in un’ottica di empowerment [crescita dell’autoconsapevolezza della persona, N.d.R.]. La persona viene accompagnata in tutte le fasi, dalla stesura del curriculum vitae, al colloquio di selezione e durante il percorso lavorativo fino al raggiungimento degli obiettivi desiderati.

Un altro dei lavoratori inseriti grazie al contributo di Séfora

Analogamente vengono valutate le caratteristiche e i bisogni dell’azienda, si analizzano i processi di lavoro, scomponendoli in task che possono essere assegnati al lavoratore in accordo con il tutor individuato all’interno dell’azienda.
Infine, la persona e l’azienda possono contare sulle figure del Job Coach e del supervisore per il monitoraggio continuo dei percorsi, la scelta delle migliori strategie condivise e il continuo riallineamento degli obiettivi-interventi, finalizzato a raggiungere il più alto livello di autonomia e di performance lavorativa nel minor tempo possibile. Viene analizzato anche il bisogno formativo dell’azienda al quale rispondiamo con proposte altrettanto personalizzate.
Tutte le situazioni in cui è stato possibile applicare l’approccio descritto hanno avuto un esito positivo rispetto agli obiettivi che ci si era prefissati di raggiungere e pertanto sono considerabili come casi di successo».

Nel rapporto con le aziende, quali sono le resistenze più frequenti quando si tratta di assumere persone con disabilità intellettive?
«Le principali resistenze derivano da precedenti esperienze rivelatesi fallimentari, ma anche da pregiudizi di carattere culturale o dalla semplice mancanza di conoscenza e conseguente costruzione di immaginari che non corrispondono alla realtà.
Mi sentirei di riformulare la sua domanda nel senso che è ciò che proponiamo alle aziende che fa sì che il rischio che inizialmente viene valutato unicamente come potenziale “danno” assuma poi al contrario il carattere di opportunità da cogliere. Le aziende apprezzano il nostro approccio progettuale, la condivisione delle informazioni attraverso continui feedback, il fatto di poter contare su professionisti qualificati e presenti, che rimangono costantemente un punto di riferimento per qualsiasi esigenza, intervenendo prontamente per risolvere i problemi che si dovessero presentare».

Avete seguito molti percorsi di inserimento lavorativo. C’è stato un caso particolarmente complesso in cui sembrava difficile trovare la giusta collocazione, ma che alla fine ha portato a un risultato positivo? E quali strategie si sono rivelate decisive?
«Quando si parla di disabilità intellettiva e di disturbi del neurosviluppo ogni situazione presenta un certo grado di complessità, anche in presenza di “alti funzionamenti”. Sicuramente uno dei successi maggiormente degni di nota è stato quello di un ragazzo con autismo che presentava un elevato bisogno di sostegno, in ragione di scarse competenze verbali e della presenza di comportamenti disadattivi e altamente sfidanti per il contesto lavorativo, che sono stati via via gestiti e risolti grazie ad interventi mirati e ad una forte collaborazione tra la psicologa referente del caso, la Job Coach, la Tutor e tutti i colleghi, oltre a una direzione aziendale molto presente e motivata. Dopo poco più di un anno di tirocinio in azienda la persona è stata assunta con un contratto a tempo indeterminato. Ora è un dipendente perfettamente inserito nel contesto aziendale e l’investimento inizialmente richiesto è stato più che compensato dal livello di competenze raggiunto, che oggi gli consentono di muoversi e di lavorare in totale autonomia, dal livello di autostima ed autoefficacia raggiunti e – non ultimi- dalla soddisfazione e dal sollievo riferiti dai suoi familiari».

Le prime cinque tappe di questo nostro percorso dedicato all’inclusione lavorativa nel “mondo ANFFAS” sono riportate nei testi Lavoro e disabilità intellettive: viaggio tra esperienze, opportunità e ostacoli da superare (disponibile a questo link), Dalla pasticceria al “co-housing”: quando il lavoro diventa inclusione e autonomia (disponibile a questo link), Oltre la burocrazia: il percorso di “Diversamente Bistrot” (disponibile a questo link), Inclusione lavorativa tra norme e realtà: Legge 68 e prospettive di cambiamento (disponibile a questo link) e Giulia: la mia esperienza è la prova che l’inclusione lavorativa non è solo un diritto, ma una ricchezza per tutti (disponibile a questo link).

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